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Traditi dalla casta del '68

di Gadi Luzzatto Voghera - 29/05/2008

 

 
La destra al potere accusa: «il mondo della cultura in questo paese è dominato dalla sinistra e dagli ex sessantottini». La prima parte dell'assunto è vera: la destra in questo paese da decenni non riesce ad incidere sul mondo della cultura perché considera la cultura stessa (umanistica o scientifica) un accessorio poco significativo e, in ultima istanza, pericoloso. Mi pare questa una delle ragioni per cui la nostra destra è ancora poco moderna e molto conservatrice. Ma la seconda parte dell'accusa colpisce un nervo scoperto: l'attacco ai sessantottini mi spaventa perché (ahimè) lo condivido, e perché (ancora più ahimè) l’avremmo dovuto compiere noi, i loro figli traditi.

Il rinnovamento generazionale è stata una caratteristica costante nella storia del nostro paese. Gruppi elitari di giovani hanno avuto spesso la forza di affermarsi, riuscendo ad abbattere vecchie forme di potere sostituendole con nuove prospettive più o meno rivoluzionarie. Il crollo dello stato liberale dopo la prima guerra mondiale fu il frutto della lotta fra schieramenti politici dominati da giovani. Ne emerse un regime fascista che dovette la sua «lunga durata» anche alla giovane età di molti dei suoi leader. Il sorgere della repubblica italiana si fondò sull'azione di una generazione di giovani che non dovremmo mai smettere di onorare per quel che ci hanno lasciato in eredità (fra le tante cose: una Costituzione lungimirante e la chiara indicazione ad «avere il coraggio di cambiare»).

I ragazzi del '68 hanno aggredito un mondo di convenzioni «borghesi», hanno denunciato la corruzione del potere, hanno disvelato e praticato la bellezza estetica dell'opposizione e della trasgressione liberando energie incredibili nei campi più svariati, dall'arte alla musica, dalla relazione uomo/donna al mondo dei diritti sociali. Dopo di loro, tuttavia, l'orizzonte si è fatto nebbioso.

La mia generazione, che ha cominciato ad essere «giovane» fra la metà e la fine degli anni '70, si è nutrita dell'esempio dei fratelli maggiori che avevano «osato» infrangere il tabù del potere, guardando a questi con speranza: ora che finalmente erano loro alla guida di movimenti politici, di sindacati, di redazioni di giornali, di case editrici, di consigli di ateneo, finalmente avrebbero usato bene quel potere, cambiando e democratizzando la società, applicando all'agire politico gli slogan che avevano ideato e con i quali ci avevano nutrito. Ma non è stato così.

Quello che maggiormente spaventa dei protagonisti della stagione del '68 è la loro propensione ad autocelebrarsi, ad assolversi da qualsiasi colpa e a perpetrare la «rivolta permanente» anche in evidente contraddizione con il loro presente. Mancano completamente del dono dell'autoironia (si ride pochissimo leggendo La risata del '68, Nottetempo 2008) e si prendono terribilmente sul serio (si veda Il sessantotto al futuro di Mario Capanna, Garzanti 2008, ultimo testo di una celebrazione decennale, attendendo il quarto volume per il 2018). Anche a distanza di quarant'anni e alle soglie di una pensione raggiunta in posizioni per lo più dirigenziali e di potere, si vedono ancora rivoluzionari e tendono a riproporre come vincente e «alternativo» il loro modello di «opposizione al potere».

La mia generazione e quelle successive non possono permettersi questo lusso: il nostro fallimento è immediatamente percepibile nell'incapacità dimostrata a subentrare a chi ci ha preceduto alla guida di questo paese e ci ha messo sotto tutela. Se abbiamo un presidente del consiglio di 71 anni che si presenta come «il nuovo», se abbiamo il più basso numero di giovani docenti e ricercatori universitari del mondo occidentale, se la gerontocrazia è la regola dell'Italia del XXI secolo, è anche perché non siamo riusciti ad attuare quello scarto generazionale che storicamente ha caratterizzato i momenti di trasformazione della società italiana. Lo scrive con grande efficacia Alessandro Bertante nel suo Contro il '68. La generazione infinita (Agenzia X 2007): «La memorialistica del Sessantotto sortisce in questo modo un effetto soporifero, ottunde le coscienze e insinua il dubbio della futilità della lotta, che viene ricondotta sotto le rassicuranti consuetudini della pace borghese. In pratica: se non ci siamo riusciti noi che eravamo la "meglio gioventù", voi poveri sprovveduti privi di ideologie cosa pensate di fare?».

A noi non resta che ridere: cos'altro possiamo fare quando veniamo considerati giovani anche passata la soglia dei 45 anni. Quando - per fare un esempio che conosco bene - nel reclutamento universitario ti viene esplicitamente detto di aspettare, di avere pazienza che fra soli pochi anni un'intera generazione di professori ordinari andrà in pensione e allora (solo allora? E chi sono, dei feudatari?) si apriranno nuovi spazi. Come possiamo prendere sul serio una classe dirigente di ex-rivoluzionari che hanno utilizzato le leve del potere (Paul Berman, Idealisti e potere. La sinistra europea e l'eredità del sessantotto, Baldini Castoldi Dalai 2007) per perpetrare la propria posizione senza curarsi delle prospettive della società che quarant'anni fa avevano giurato di voler cambiare? Sarà questa mancanza di autoironia che spinge questi uomini (ché, fra l'altro, son quasi tutti maschi) a sentirsi ancora - nel profondo del cuore - dei veri rivoluzionari quando celebrano i quarant'anni del '68 senza dar segno di accorgersi che non solo non sono mutati i sistemi di potere che un tempo contestavano, ma che gli stessi sistemi sono ormai da anni nelle loro mani e che vengono usati in maniera del tutto spregiudicata, tradendo quell'etica della solidarietà e della responsabilità che aveva rappresentato in origine il motore della loro azione politica.