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Tutto per una ragazza

di Stenio Solinas - 29/05/2008

Lei si chiama Alicia, non

ha ancora sedici anni,

da grande vuole fare la

modella. Lui si chiama

Sam, ha quasi sedici

anni, non ha fretta di

diventare grande. I

genitori di Alicia hanno intorno ai cinquant’anni,

appartengono alla media borghesia

intellettuale: il padre porta l’orecchino ed è

prof all’università, la madre fa politica nelle

istituzioni ed è di quelle che insegnano sempre

qualcosa a qualcuno. Entrambi reputano

la figlia intelligente, anche se non ci sono

prove convincenti al riguardo, e

la vedono già laureata. I genitori

di Sam sono separati, working

class la provenienza, aggravata

dall’averlo messo al mondo che

erano ancora minorenni... Così,

Sam ha una madre di 32 anni, «tre

più di David Beckam, uno più di

Robbie Williams, quattro meno di

Jennifer Aniston. Lei sa tutte le

date, ma solo di gente che ha più o

meno la sua età ed è ancora in forma

». Per lei, Sam deve andare all’università,

una forma di riscatto e di

rivincita sociale, in una famiglia

dove «tutti inciampano sempre sul

primo gradino. Anzi di solito non trovano

nemmeno le scale».

Sam e Alicia frequentano scuole

diverse e già questo permette al primo

di non essere «già stufo prima ancora

di esserci uscito insieme. C’erano più

cose di cui parlare». Si piacciono, si

mettono insieme. Si amano? Sam pensa

di sì, anche se non è quell’amore di cui

parla sempre sua madre, «pieno di

preoccupazioni, fatica, necessità di perdonare,

necessità di tolleranza e roba

del genere. Non è un gran divertimento

poco ma sicuro. Se l’amore è davvero

quello, quello di cui parla la mia mamma,

be’ allora nessuno può mai sapere se

ama qualcuno, giusto? È un po’ come se

lei mi dicesse: “Se sei così sicuro di amare

una persona, come io ero sicuro in

quelle poche settimane, non può essere

che la ami, perché l’amore non è fatto

così. Cercare di capire che cosa significa

per lei amare ti fa scoppiare la testa».

Quando non si hanno ancora sedici anni,

«poche settimane» sono sufficienti perché

un amore nasca, perché un amore finisca,

perché non ci sia un perché in un caso e nell’altro.

«Non è che a un certo punto le cose

fra me e Alicia abbiano cominciato ad andare

male. Smisero solo di andare bene come

prima». Il fatto è che a complicare il tutto,

nel suo apparente semplificarlo, c’è anche il

sesso: una scoperta, una scorpacciata, un’assuefazione.

«Se per fare sesso con una certa

regolarità bisognava ascoltare il papà di

Alicia che faceva lo snob, rinunciare allo

skate e non vedere mai gli amici, allora forse

non lo volevo poi tanto. Sì, volevo una

ragazza che venisse a letto con me. Ma volevo

anche una vita. Non capivo - e non capisco

ancora - come facevano gli altri a conciliare

le due cose. Mia mamma e mio papà

non ci erano riusciti. Alicia era la mia prima

ragazza importante e nemmeno noi ci stavamo

riuscendo».

Sam non ha tutti i torti, l’universo adolescenziale,

ma sarebbe meglio dire l’universo

maschile tout court, può apparire complicato

ad un animo femminile, mentre invece è tremendamente

semplice quanto a riti e miti,

iniziazioni e passioni, sport e testosterone...

Avrebbe bisogno di tempo, Sam, per calibrarsi

meglio, ma, lo abbiamo visto all’inizio,

viene da una famiglia dove si inciampa

non appena si comincia a salire, e quindi

«poche settimane» sono sufficienti per tutto

quello che si è detto e anche perché Alicia

resti incinta... È successo che una volta lei ha

voluto sentire lui un po’ con e un po’ senza

preservativo, e lui ha capito subito che poteva

finir male, ma non ha detto niente, ha fatto

finta di niente. «Molto tempo dopo, mi

parlarono di una cosa che si chiama pillola

del giorno dopo, così se quella sera, quella

sera in cui era successo qualcosa

a metà e poi era di nuovo successo qualcosa

a metà, avessi confessato, tutto questo non

sarebbe accaduto. Quindi, in questa nuova

prospettiva, la colpa è al 150 per cento mia e

forse al 20 per cento sua».

E adesso? Che fare? chiede lui. Cosa faremo

ribatte lei. Terrò il bambino dice ancora lei.

«Ah. E che fine ha fatto il noi?» polemizza

lui. «Hai appena detto che dovevamo parlare

di cosa faremo. E adesso mi dici cosa farai

tu». È diverso, spiega lei, «“perché finché il

bambino è qui dentro, è parte del mio corpo.

Quando uscirà sarà il nostro bambino”. C’era

qualcosa che non andava, nelle sue parole,

ma non riuscivo a capire cosa...». Il passo

successivo, naturalmente, è dirlo ai genitori

di Alicia, alla mamma di Sam. Che qualcosa

non vada, quest’ultima per la verità l’ha

capito: nell’ansia di fermare il tempo, di

prendere tempo, di annullare e/o controllare

il tempo, Sam è scomparso per un intero

giorno, notte compresa, è fuggito, è andato

ad Hastings, si è raccontato un sacco di frottole

su come sarebbe riuscito a vivere da

solo, poi si è sentito scemo, si è vergognato

di essere scappato, è tornato... Ma la madre

fraintende, pensa che all’origine di quella

fuga ci sia sempre l’averlo avuto troppo giovane,

l’essersi separata, l’averlo allevata da

sola... «Posso dire per esperienza che i genitori

vogliono sentirsi in colpa. O meglio, se

gli fai capire che sei rimasto segnato da una

cosa che hanno fatto loro, non si accorgono

di quanto sono stupide le tue parole. Le

prendono molto, molto

sul serio». Ci vuole

uno psicologo, un

consulente familiare,

insomma, qualcuno

che scavi nelle ferite

e nei traumi che il

fallimento come

genitori ha provocato

in lui e che lo

tiri fuori da quel

baratro...

Quelli di Alicia, invece, non si

sono accorti di nulla, sono intellettuali, sono

ben educati, hanno una figlia bella e intelligente

e che certo si laureerà... Sì, ha questa

cotta per uno che purtroppo è figlio di un

idraulico, «ma mica tuti sono portati per

l’università» e poi non si può infierire troppo

su chi, insomma, socialmente... Così

attendono perplessi, ma fiduciosi, che Sam

e Alicia, seduti davanti a loro, si spieghino.

«“Cos’avete in mente?” domandò il papà

di Alicia. Alicia si girò a guardarmi. Mi

schiarii la voce. Nessuno fiatò. “Aspetto un

bambino” dissi. Mi pare superfluo precisare

che non volevo fare lo spiritoso. Il fatto è

che la frase mi uscì male. Secondo me perché

Alicia mi aveva fatto quella lezioncina

sul fatto che da allora in poi avrei dovuto

usare sempre il noi. L’avevo presa troppo

sul serio”». Ad Alicia viene da ridere, al

padre da urlare, alla madre da piangere e da

aggrapparsi alla lotta di classe: «Ci odii»

dice a Sam, ovvero l’hai fatto apposta, «perché

così non ti scappa più»... Il padre, smesso

di urlare, prova a far raginoare la figlia:

«“Cosa ti fa credere di volere un figlio?

Non sei riuscita nemmeno a badare a un

pesciolino”. “Quello è stato tre anni fa”.

“Sì. Tre anni fa. Allora eri una bambina e

sei una bambina anche adesso. Dio mio. È

incredibile che stiamo parlando di questo”.

“Cos’è successo al pesciolino?” chiesi».

In questo «cos’è successo al pesciolino» c’è

tutto il genio di Nick Hornby, l’autore di

“Tutto per una ragazza” (Guanda, 274 pagine,

15 euro), il romanzo che fin qui vi abbiamo

raccontato. Perché è, sì, «una domanda

stupida», ma rende perfettamente l’universo

mentale di un’età dove la curiosità è selettiva

secondo un criterio tutto proprio, le mezze

negazioni valgono come affermazioni, le età

dai quaranta in su appaiono indistinte e si

equivalgono, si vuole crescere, ma non si

vuole diventare adulti... Hornby lo esplora

con finezza e tenerezza e rende comprensibile

quel figlio che spesso agli occhi di un

genitore assomiglia più a un marziano che a

un essere umano. Inglese, Hornby appartiene

a una nazione che ha il record delle maternità

in età minorile e infatti nella scuola del suo

Sam nessuno si scandalizza più di tanto e

«c’erano un paio di giovani mamme che si

comportavano come se il loro figlio fosse un

iPod, o un cellulare nuovo, o una cosa del

genere, un aggeggio da esibire. Ci sono molte

differenze tra un figlio e un iPod. Una delle

più grosse è che di solito non ti aggrediscono

per portarti via tuo figlio. Se è notte

fonda e sei in autobus, non è necessario che

te lo tenga in tasca. E questo dovrebbe far

riflettere, visto che ti aggrediscono per

rubarti qualsiasi cosa valga la pena di avere.

Signfica che un figlio non vale la pena di

averlo».

Tutto per una ragazza non racconta tanto la

paternità al posto della maternità, quanto

l’angoscia di fronte alla responsabilità, al

futuro, la fine dell’innocenza come condizione

mentale. Lo fa con delicatezza e umorismo

«Potrà anche non piacerti dartela a

gambe, ma che altro fare? Ecco, io avevo

svoltato l’angolo e lì dietro c’era un uomo di

Al Qaeda con il mitra, solo che era un neonato

e non aveva il mitra, ma, se ci si riflette

un momento, nel mio mondo un neonato,

anche senza mitra, è come un terrorista con

il mitra, perché, rispetto alle possibilità che

avevo di andare all’università a studiare arte

e design eccetera eccetera, un figlio era letale

esattamente quanto un uomo di Al Qaeda.

E in realtà Alicia era un altro uomo di Al

Qaeda, e così pure sua mamma e suo papà, e

così pure mia mamma, perché quando l’avrebbe

scoperto mi avrebbe letteralmente

ammazzato!».

Nel romanzo di Hornby il tema dell’aborto è

singolarmente rovesciato: non è chi rimane

in cinta, che vuole abortire, semmai sono i

genitori a consigliare in tal senso, una sorta

di cambiamento generazionale per cui quella

che fino a ieri era un conquista o almeno una

risorsa adesso non interessa più in quanto

tale. C’è ovviamente un elemento etico in

tutto questo. «“Alice, tesoro” disse la mamma.

“Non puoi ancora sapere se vuoi tenerlo

o no”. “Sì che lo so. Non voglio uccidere il

mio bambino”. “Non uccideresti un bambino.

È...” “Ho letto un po’ di cose su Internet.

È un bambino”. La mamma di Alicia sospirò.

“Chissà cos’hai letto” disse. “Sta’ a sentire.

Quelli che scrivono su Internet sono tutti cristiani

evangelici e...”. “E anche se sono cristiani

evangelici? I fatti sono fatti” rispose

Alicia». Ma oltre a questo elemento c’è

anche un aspetto, come dire, edonistico, e

quasi di moda, che vale la pena di sottolineare.

È come se la società dei consumi avesse

paradossalmente inserito nell’elenco dei beni

primari anche la procreazione, e più o meno

confusamente le nuove generazioni lo avessero

avvertito: c’è chi le aiuterà, se ne farà

nel caso carico, non le lascerà comunque

sole, ed è un qualcosa da esibire, un trofeo,

quasi, e non una vergogna o un peso da

nascondere e/o sopprimere... La mamma di

Sam e i genitori di Alicia sanno, per averla

sperimentato, che la vita è dura e vorrebbero

per i loro figli un futuro morbido. Non hanno

torto, ma nel loro non voler sorprese, nel

senso di responsabilità che secondo loro

comporta ogni scelta, c’è qualcosa di sovrumano

o di inumano che poi fa a pugni con la

vita stessa, i suoi vuoti e i suoi pieni, il suo

bene e il suo male.

Forse quello che ha le idee più chiare è il

padre di Sam, l’idraulico, quello meno

acculturato e che odia i libri e gli stranieri, il

più animalesco se si vuole, ovvero, come

direbbe la sua ex moglie uno che ragiona da

maschio e non da padre. «Io e tua madre

eravamo diventati come fratello e sorella.

Non ci guardavamo mai in faccia. Quando

sei più grande può anche andar bene così,

ma quando hai sedici anni...Come papà devi

tener duro, ma l’altra cosa... Non rimanerci

sotto. Tanto alla tua età le storie non durano

più di cinque minuti. E se c’è un figlio, si

scende a tre. Non cercare di farle durate tutta

la vita, se non sai nemmeno come arrivare

a sera».

Tutto per una ragazza è un romanzo che

affronta molti temi, gravi, dolorosi anche,

comunque importanti, ma lo fa con la grazia

e la levità giuste, uno stile fresco e mai

sciatto, un tono scanzonato e mai cinico.

Racconta l’adolescenza, con le sue paure,

gelosie, esaltazioni, il rapporto fra genitori e

figli con le sue incomprensioni, solidarietà,

segreti condivisi, quello di coppia, il suo fallimento,

la sua resurrezione in un altro duo,

e insomma il provarci ancora sempre e il

non arrendersi mai. Racconta la vita, ovvero

quella cosa che nessuno ci può insegnare,

ma che fino alla fine ci scaldiamo a spiegarla

agli altri.