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Le aporie della democrazia parlamentare nel pensiero politico di Ugo Spirito

di Francesco Lamendola - 30/05/2008

Ugo Spirito: una figura un po' dimenticata, nel pur affollatissimo panorama della filosofia italiana novecentesca; una figura cui certo non ha giovato non tanto la militanza in una parte politica risultata perdente - fu fascista convinto, di una "fascismo di sinistra" molto vicino al corporativismo - quanto la dignità con cui accettò la sconfitta e non si mise in coda per ottenere il condono da parte dei vincitori e un certificato di verginità democratica, come altri fecero senza ritegno e come era prassi consolidata nel Paese del gattopardo.

Toscano, nato ad Arezzo nel 1896, allievo di Giovanni Gentile, era stato professore di politica ed economia corporativa presso l'Università di Pisa dal 1932 al 1935 e, in seguito, professore di storia della filosofia nell'Università di Messina, e di filosofia teoretica  nelle Università di Genova e di Roma. E nella capitale si è spento, nel 1979, all'età di ottantatre anni, dopo una vita intensa e laboriosa.

 

Influenzato, inizialmente, dal suo maestro Gentile, il suo pensiero ha preso le mosse dall'identità attualistica di filosofia e vita da una parte, e di filosofia e scienza dall'altra. Ma il periodo trascorso all'Università di Pisa vide «il fallimento del programma corporativistico (…), inteso come un tentativo di immettere nell'ideologia fascista le esigenze del collettivismo e di realizzare nell'impegno politico la pienezza dell'immanentismo attualistico» (in Dizionario di Filosofia, Rizzoli, Milano, 1999,  435), e lo spinse ad elaborare la parte più originale della sua filosofia, nota sotto il nome di problematicismo.

Il problematicismo parte dalla constatazione che ogni filosofia si pone come contraddittoria rispetto alle altre, e a questo limitre nessuna sfugge, neppure l'attualismo. In particolare, tutte le tesi della metafisica occidentale mirano a dare una definizione del tutto e, così, a trascenderlo, sì da renderlo parte di una nuova realtà che si sottrae ad ogni tentativo di definizione e sistematizzazione. Abbiamo già visto (nel precedente saggio  Il pensiero della fine e la morte di Dio nella filosofia di Martin Heidegger, sempre sul sito di Arianna Editrice) che a questa aporia non era sfuggito, secondo Heidegger, nemmeno Nietzsche, allorché, volendo capovolgere tutti i valori, non esitò a proporne di nuovi, ricadendo così nel limite che aveva cercato di superare.

Pertanto, dal punto di vista del problematicismo, le posizioni meno contraddittorie sono quelle della «vita come ricerca», che rifiuta la logica del sistema e presenta, quindi, analogie con le filosofie "della via", ad es. quella di Heidegger; della «vita come arte», basata sulla fruizione appagante della realtà immediata; e, infine, della «vita come amore», in cui si persegue l'unità profonda  tra gli esseri umani, che trascende le differenze contingenti e cerca il positivo in ogni manifestazione della realtà.

Se queste tre forme di esistenza ricordano, per certi aspetti, gli stadi dell'esistenza kierkegaardiani (estetico, etico e religioso), dall'altro l'ultima di esse, la «vita come amore», sottolinea l'atteggiamento di accoglienza e di gratitudine verso tutto ciò che la vita esprime, e ricorda da un lato la memorabile esclamazione del protagonista nel Diario di un curato di campagna di Bernanos: «Tutto è grazia!»; dall'altro l'«onnicentrismo» che, partendo da diversi presupposti e, certamente, sviluppato in maniera del tutto indipendente, vediamo oggi in pensatori come Raimon Panikkar, preoccupati di realizzare un pensiero che valorizzi ogni aspetto del reale e che non faccia perno unicamente sull'io del soggetto, bensì includa una quantità di centri, tutti egualmente significativi. Ogni punto dell'universo è il centro della realtà e ogni giudizio deve essere sospeso (antidogmatismo), perché la vita deve cercare di includere tutto.

È da notare che l'assunzione di una prospettiva problematica dell'esistenza e del pensiero stesso non implica necessariamente, e certo non nel caso di Ugo Spirito, una posizione speculativa di tipo scettico. Non si tratta, infatti, di dichiarare la bancarotta del pensiero e l'impossibilità, per la mente umana, di comprendere la natura del reale, bensì di assumere consapevolmente la coscienza dei limiti oggettivi di ogni forma del pensare: limiti che si collocano fra le rocciose certezze del dogmatismo e le perplessità disarmanti dello scetticismo.

Se il problematicismo, come tendenza generale della filosofia, è caratteristico di indirizzi speculativi anche diversi fra loro (l'idealismo crociano, l'attualismo gentiliano, il materialismo storico), caratterizzati dal comune denominatore dello storicismo e dell'immanentismo, come indirizzo specifico elaborato da Spirito esso si qualifica come consapevolezza del limite e, nella sua pars destruens (ma abbiamo visto che vi è anche una pars costruens, imperniata sui tre tipi di vita) fornisce indubbiamente una base teorica per le filosofie nichiliste, le quali propugnano l'insignificanza e l'illusorietà dei progetti sia teorici che pratici dell'essere umano. E, in quest'ultimo versante, esso presenta alcune significative analogie con l'esistenzialismo, specialmente di Sartre, pur motivando assai diversamente le proprie conclusioni.

L'ultima fase dell'itinerario speculativo di Ugo Spirito ruota attorno all'idea della scienza come quella forma del conoscere che, superando le contraddizioni del mito e della stessa filosofia, può consentire all'uomo di avviarsi verso una concezione onnicentrica, antidogmatica e problematica della realtà. Una posizione certamente discutibile e che noi, personalmente, non ci sentiamo di condividere (cfr. in particolare Francesco Lamendola, Il  pensiero  mitico  è  diverso, non  certo  inferiore  a  quello  scientifico, dedicato specialmente alle tesi di Kurt Hübner; sempre su sito di Arianna Editrice); e, tuttavia, una posizione legittima e che ha una sua dignità e una sua intima coerenza. Tanto più che Spirito non fu mai un adoratore acritico del pensiero scientifico - che egli intendeva in senso assai ampio, includendovi quello giuridico e quello economico - né un ingenuo cantore delle magnifiche sorti e progressive; ma, ben al contrario, ne vide con chiarezza sia i limiti che le potenzialità degenerative, contro le quali seppe mettere in guardia quando la cosa non era affatto di moda come lo è divenuta oggi, allorché tutti fanno a gara nel chiudere le porte della stalla rimasta desolatamente vuota.

Il limite intrinseco del pensiero di Ugo Spirito risiede nella fatale contraddizione tra l'essersi sforzato di tracciare una strada che porti l'uomo fuori dall'abisso della disperazione, e l'aver negato la possibilità di un giudizio etico che discrimini il bene dal male e, in definitiva, che promuova le ragioni di una lotta contro quel male che è la disperazione.

Per usare le parole di Giovanni Baravalle (in L'uomo e i suoi problemi, Cuneo, Bertello Edizioni, 1988, vol. 3, pp. 378-379),

 

…Spirito fu dominato dall'ansia di accostare la filosofia alla vita e dalla passione speculativa di penetrare il significato della "crisi" in cui viviamo e di proporre una visione del mondo che possa salvare dalla disperazione. (…)

La vita è antinomicità, impossibilità di decidere in modo sicuro sulla base di un criterio assoluto. Cosciente di questa contraddizione, il problematicismo aspira ad annullarla e presenta l'omnicentrismo nel riconoscimento della centralità di ogni cosa. Spirito giunge ad una visione del mondo di tipo spinoziano, in cui la dualità di io e tu è solo apparente ed in cui non ha più senso il giudizio morale.

La filosofia della crisi dovrebbe diventare una sapienza salvifica, che nega la morale della responsabilità e nega i concetti di bene e di male, perché la realtà del tutto è in ogni cosa e tutto è come deve essere. Ma allora non ha più senso lottare contro la disperazione incombente.

 

E, ripetiamo, se la concezione dell'onnicentrismo e della relatività dei concetti di bene e di male presenta analogie con importanti indirizzi filosofici dell'Oriente (ad es. del taoismo e del buddhismo Zen), e presenti una indubbia dimensione di verità nella sfera dell'Assoluto, la vita umana si svolge, tuttavia, sul piano del relativo; nel quale è fuori discussione che il male ed il bene esistono, anche se non sempre risulta facile separarli in via teorica.

Il pensiero di Ugo Spirito, così, si qualifica per una forte consapevolezza della crisi della modernità e per una spiccata sensibilità verso i problemi dell'esistenza concreta; della crisi, tuttavia, egli è stato più un testimone e un appassionato e instancabile avversario, che non una guida capace di traghettare il pensiero contemporaneo oltre di essa.

 

Tra le opere più importanti di Ugo Spirito ricordiamo: Il pragmatismo nella filosofia contemporanea (1921); Storia del diritto penale italiano (1925); I fondamenti dell'economia corporativa )1932); Scienza e filosofia (1933); La vita come ricerca (1937); La vita come arte (1941); Il problematicismo (1948); la vita come amore (1953); Cristianesimo e comunismo (1958); Nuovo umanesimo (1964) Critica dell'estetica (1964); Il comunismo (1965); Dal mito alla scienza (1966); Giovanni Gentile (1969); L'avvenire dei giovani (1972); Dall'attualismo al problematicismo  (1976).

 

In questa sede vogliamo fermare l'attenzione su un lavoro "minore" di Ugo Spirito, una riflessione - frutto degli ultimi anni di vita del filosofo - sull'ambiguo rapporto esistente fra democrazia parlamentare e demagogia, parte di uno studio più ampio dedicato al tema L'avvenire dei giovani (Sansoni Editore, Firenze, 1972, 1973, pp. 121-132).

Siamo all'inizio degli anni Settanta del secolo scorso, sull'onda lunga del 1968 e nel pieno e tumultuoso sviluppo del movimento studentesco. Al tempo stesso, esisteva la chiara percezione che il riflusso fosse imminente, e che potenti forze restauratrici (non solo nazionali) stessero attivando ogni loro risorsa - politica, finanziaria, culturale - per imbrigliare quel movimento, per riportare la società italiana verso l'«ordine» e la «sicurezza». L'esperimento di governo del centro-sinistra aveva mostrato tutti i suoi limiti; la politica riformista segnava il passo, mentre il malcontento sociale cresceva a vista d'occhio; e, fin dal dicembre 1969, con la bomba di Piazza Fontana, era incominciata la stagione della «strategia della tensione». Anni terribili si profilavano all'orizzonte, con il Paese dilaniato dal terrorismo di estrema sinistra e di estrema destra, e con le trame occulte di potentissimi gruppi di potere, quali la Loggia P2 del "venerabile Maestro" Licio Gelli, che tendevano a delineare un vero e proprio "governo ombra" di tipo affaristico-massonico, fuori da ogni controllo di legalità e democrazia.

È questo il contesto nel quale Ugo Spirito, in appendice al suo libro L'avvenire dei giovani, pubblica un breve scritto dal titolo Parlamento e demagogia in cui, all'età di settantasei ani, con giovanile energia si confronta su un tema particolarmente scottante e, in genere, prudentemente evitato dagli intellettuali di estrazione accademica. Ma in lui, ex fascista di tendenza corporativa, la critica alle degenerazioni della democrazia parlamentare non assume tanto i toni e la prospettiva di un nostalgico rimpianto di tipo conservatore, ché conservatore Spirito non lo era mai stato, neanche in pieno fascismo. Piuttosto, il retroterra filosofico della critica alla democrazia muove, in lui, da echi e suggestioni della miglior tradizione del pensiero classico, da Platone in primo luogo, e si sostanzia nella lucida consapevolezza della impossibilità di affidare il destino della res publica a persone impreparate, emotive e facilmente suggestionabili (cfr. anche, su questo punto, F. Lamendola, Prima considerazione inattuale: recuperare il giusto concetto di « aristocrazia », sempre sul sito di Arianna Editrice).

Spirito non è stato - come, ad es., Julius Evola - un pensatore «di nicchia», punto di riferimento per i giovani estremisti di destra che non accettavano l'ordinamento democratico in se stesso, per le loro istintive tendenze autoritarie; bensì un pensatore aperto al nuovo e capace di confrontarsi con i tempi nuovi, senza complessi per il proprio passato e senza pregiudizi di alcun tipo, proprio grazie al "taglio" onnicentrico e problematico del suo filosofare.

 

Una delle caratteristiche fondamentali della crisi che attraversiamo riguarda l'iato che si è determinato tra scienza e tecnica da una parte e opinione dall'altra. È il dualismo tradizionale di competenza e politica  per il quale la sfera del sapere umano si divide in due zone affatto diverse e reciprocamente indipendenti. V'è il campo di cui possono occuparsi esclusivamente coloro che hanno una reciproca esperienza teorica e pratica; e v'è il campo sul quale si presume che tutti abbiano la possibilità di scegliere e di decidere, qualunque sia la loro preparazione e la loro capacità. In linea preliminare occorre tentare di distinguere con rigore i due campi re segnare i loro attributi peculiari. Per quel che riguarda il campo scientifico e tecnico la definizione  è semplice e non ha bisogno di particolari chiarimenti. Ogni lavoratore ha seguito uno speciale cammino lungo il quale ha appreso ciò che costituisce lo strumento per la sua attività. Per costruire un ponte occorrono tanti scienziati e tanti tecnici, che non possono essere sostituiti da chi non abbia percorso un determinato periodo di addestramento. Nessuno può dubitare della necessità dell'apposita formazione dell'ingegnere o del medico o del chimico. E nessuno si affiderebbe alle mani di chi non avesse ottenuto il riconoscimento esplicito della sua attitudine al compito da soddisfare.

Per quel che riguarda, invece, il campo della così detta politica, là dove ogni individuo è chiamato a esprimere il proprio parere, la precisazione dei problemi da affrontare e da risolvere non è egualmente evidente e soprattutto non sono costanti il loro contenuto e lo svolgimento delle loro conseguenze. Per rendere più facilmente comprensibili queste affermazioni occorre porre subito in luce la scelta fondamentale che il cittadino è chiamato a fare nel momento più decisivo nell'esercizio  della sua sovranità: la scelta dei rappresentanti per le camere legislative. Una volta tale scelta era compiuta puntualizzandola nell'indicazione di un singolo individuo (collegio uninominale) e si poteva avere l'illusione di un rapporto di umanità che avesse il peso di una decisione più o meno consapevole. Ma ora la scelta si è spostata verso i partiti politici e cioè verso i loro programmi. Che cosa importi una tale scelta non è facile dire perché i programmi dei partiti, se hanno una veste organica e un principio unitario, corrispondono a determinate concezioni del mondo e implicano perciò un sistema di conseguenze intelligibili soltanto per chi ha la capacità di sollevarsi a un pensiero speculativo di speciale livello. La preparazione necessaria, in altri termini, per giudicare la differenza dei programmi e per giungere alla scelta, presuppone un fondamento culturale di lunga e difficile formazione. Si aggiunga, poi, che la scelta deve effettuarsi tra i partiti e cioè tra parti che pretendono tutte di rappresentare la superiore verità, pur escludendo le altre parti e contrapponendosi ad esse. Chi volesse scegliere un partito al di sopra delle parti non avrebbe modo di soddisfare il suo desiderio.

Basta aver accennato a questo presupposto del regime democratico-parlamentare per comprendere l'assurdità della separazione della politica dalla competenza. Il cittadino deve decidere, indipendentemente da ogni sua preparazione, intorno a una forma di governo la cui determinazione implica una visione speculativa di eccezionale gravità. Ma la conseguenza più paradossale è che i rappresentanti eletti dovrebbero avere una esplicita competenza ideologica e nessuna particolare competenza scientifica e tecnica. Se non che a rappresentanti così scelti e raccolti nelle due camere è affidata, poi, la funzione di decidere intorno a tutti i problemi nazionali e internazionali: problemi che sono necessariamente scientifici e tecnici.

Sulla base del rapporto, così descritto, tra elettore ed eletto, si determina il governo della nazione, che si viene svolgendo fuori da ogni competenza tecnica e perciò sul piano di un intrecciarsi di opinioni, dal quale scaturiscono i più contraddittori compromessi. Sono, in particolare, i compromessi cui danno luogo i programmi dei diversi partiti della maggioranza, con concessioni più o meni vistose ai programmi della minoranza. Lo sbocco ultimo è segnato da una legislazione frammentaria e inconcludente, suscettibile delle più varie interpretazioni e dei più abili adattamenti sofistici

La crisi del regime democratico-parlamentare è ormai giunta alla sua forma più paradossale e più distruttiva. Se volessimo spiegare con maggiore precisione le ragioni del fato, dovremmo approfondire il significato del dualismo d scienza e opinione. Il mondo di oggi è caratterizzato in maniera peculiare dalla trasformazione, sempre più evidente, di tutti i problemi in problemi scientifici. Il sistema democratico tradizionale, che può avere significato nell'ambito di una piccola comunità per cui la discussione è insieme di scienza e di opinione, non regge più quando la scienza si stacca dall'opinione e finisce per contrapporsi ad essa. L'opinione del così detto politico deve farei conti con la consapevolezza delle conseguenze che scaturiscono dalle sue scelte, e, se tale consapevolezza è esclusa dalla mancanza di preparazione, la via della degenerazione è aperta senza possibilità di rimedio. Ora, invece, siamo giunti alla più incosciente esaltazione della politica della scelta e rinunciamo ogni giorno di più alla collaborazione scientifica. Si pensi, infatti, al sistema bicamerale senza distinzione delle competenze; ma si pensi, soprattutto, alla sfrontatezza con la quale i più incompetenti ministri  passano da un ministero all'altro senza intendersi in alcun modo del campo specifico nel quale debbono operare. La distinzione tra politica e scienza, che dovrebbe via via annullarsi, si esaspera invece in modo pauroso secondo un processo di degenerazione sempre più grave. È l'incompetenza che trionfa sulla competenza; e gli uomini politici tendono progressivamente a staccarsi dagli altri, costituendo una classe a sé, di carattere più o meno professionale (burocrazia dei partiti), caratterizzata appunto dalla esclusione di ogni specifica competenza. Da una parte, la realtà dimostra il processo di continuo approfondimento scientifico di tutti i problemi sociali; da un'altra parte, invece, il sistema politico si irrigidisce nelle forme tradizionali, portandole all'estrema  espressione della loro contraddittorietà.

Se questa è la situazione dell'attuale crisi della nostra società, si tratta di vedere anzitutto quali siano già le conseguenze più paradossali del processo di involuzione. Siccome la politica non può vivere senza investire tuta la società, occorre precisare come la società venga a trasformarsi in funzione di una politica  sempre più staccata dalla competenza.

La prima riflessione da approfondire circa il rapporto esposto tra politica e competenza è quella relativa al processo di progressiva politicizzazione dell'abito mentale della nuova generazione. Il significato del processo ha ormai una origine chiara anche se non consapevole. Il suffragio universale che ha informato il nostro regime fino ad oggi comincia a dare i suoi nuovi frutti peggiori. Esso, infatti, comincia a tradursi, più o meno rapidamente, in una convinzione sempre più diffusa, che deriva dalla presunzione di ognuno di poter affrontare senza competenza i più difficili problemi della realtà. Noi tutti - si comincia a pensare - siamo ritenuti capaci di giudicare i programmi dei diversi partiti e cioè le più importanti determinazioni della vita sociale: la competenza massima, dunque ci è riconosciuta, non per la nostra specifica preparazione, ma soltanto in funzione de nostro essere uomini e cioè in virtù della nostra essenza naturale. Ma, se è così, perché non potremmo e non dovremmo essere riconosciuti anche nella nostra capacità di affrontare tutti gli altri problemi? Naturalmente il ragionamento non è così esplicito e consapevole, ma ci si comincia ad orientare in tale senso e si viene consolidando la persuasione di un sapere comune sufficiente per giungere al cuore di ogni problema. D'altra parte chi ragiona così fa leva  sul fatto di rappresentare sempre di più la maggioranza e perciò di potere, prima o poi, di poter imporre la propria volontà e di far riconoscere le proprie pretese.

Lo svolgimento di questo processo può sembrare assurdo e senza fondamento, ma in realtà è la logica conseguenza di un regime politico caratterizzato dai presupposti propri del suffragio universale e della validità della maggioranza. Se si riconosce a tutti il potere culturale necessario a fare la scelta tra concezioni della realtà che implicano un orientamento fondamentale nella totalità degli aspetti della vita, non si capisce perché tale riconoscimento dovrebbe fermarsi di fronte agli altri problemi di orizzonti più angusti.

Il punto di arrivo della strada così imboccata non può essere che quello della demagogia. E oggi, appunto, siamo di fronte a un'affermazione della demagogia che ha assunto caratteri specifici, non assimilabili a quelli dei tradizionali atteggiamenti che portano questo nome. La storia, infatti, ci aveva abituati a concezioni demagogiche di governanti che si volevano ingraziare i favori delle masse; ora, invece, sono le stese masse che cominciano a pretendere un trattamento di favore, in virtù di una presunta competenza conquistata attraverso il comune attributo dell'umanità. Sono le masse che reclamano sempre di più una parificazione dei meriti gratuitamente riconosciuti. Sono, ad esempio, le masse studentesche che cominciano a parlare di voto unico e di promozioni comuni. Sono gli impiegati e i funzionari che pretendono le abolizioni dei concorsi e le assunzioni senza controllo. Naturalmente, i governanti non sanno resistere e, lungi dal reagire, secondano tali rivendicazioni e concedono eliminazioni di esami e di concorsi, incitamenti e sanatorie di tutti i generi, e regali di titoli senza fondamento.  Chi guardi alle nostre scuole secondarie e universitarie non può non constatare l'incapacità di contrapporsi all'indirizzo generale e la facilità con la quale ormai si distribuiscono i voti più alti e più evidentemente immeritati. È una prassi che si diffonde con ritmo crescente e che finisce per suggestionare anche le persone più refrattarie, trascinate a poco a poco dall'esempio comune. Tutto l'apparato strutturale della vita pubblica si trasforma progressivamente in tale direzione e prima o poi il criterio si estende in qualche misura anche alle aziende private, relativamente impotenti di fronte alle manifestazioni della indisciplina dilagante. Ma la conseguenza peggiore è che anche i migliori elementi e soprattutto quelli che, in altro tempo, hanno affrontato prove difficili e controlli e concorsi rigorosi, si trovano ora accomunati con i nuovi elementi intellettualmente inferiori, e perdono fiducia nella propria azione e nel loro sentimento del dovere. I migliori sono mortificati e travolti da una massa che irrompe, senza avere un'eguale preparazione ed un'eguale disciplina. L'effettiva competenza non appare più come condizione imprescindibile di una scelta fondata, ma è rinviata nello sfondo di una realtà che si costituisce con criteri di tutt'altro genere. La demagogia trionfa con una forza che si impone dal basso e che è sempre di più tollerata, quando addirittura non incoraggiata, dall'alto.

La descrizione che si è compiuta dell'attuale situazione della nostra società, dominata, per un verso, da un'accentuazione progressiva del progresso scientifico e tecnico e, per un altro verso, dalla contemporanea accentuazione del sistema democratico-parlamentare  costituito in funzione dell'incompetenza e della demagogia, ci può aprire gli occhi di fronte al futuro che si va preparando. Come si è detto, la crisi che attraversiamo è determinata proprio dal dualismo di scienza e di politica, e deve essere compresa e affrontata nei termini che si sono esposti. Sono due strade in netta opposizione reciproca, che non possono essere seguite ulteriormente senza una scelta decisiva.  O competenza o incompetenza, o scienza o politica. La scelta, naturalmente, sarà fatta dalla realtà nel suo svolgimento. Allo studioso può attribuirsi soltanto il compito di indicare alcune conseguenze della eventuale direzione preferita.

Facciamo l'ipotesi, in primo luogo, della continuazione del prevalere dell'indirizzo demagogico, che è l'espressione più significativa dell'ideologia democratica. La prosecuzione di un regime di un regime di questo tipo può essere definita con precisione come un ideale antiscientifico. La sua realizzazione implica necessariamente il progressivo dissolversi della scelta  degli uomini capaci di agire sul piano di una cultura superiore. Il risultato è quello dell'appiattimento generale  dei valori e del sacrificio sempre maggiore della ricerca ad alto livello.  Vi sono gà manifestazioni di vario genere, dirette alla negazione del mondo della scienza e della tecnica; e le varie battaglie antitecnologiche, che si vanno svolgendo in virtù  di atteggiamenti non ben definibili, non possono escludere l'affermazione di correnti antiscientifiche e anticulturali.  Il regime democratico potrebbe concludersi con un ritorno a una società di carattere più o meno primitivo, e con una negazione più o meno radicale delle conquiste storiche effettuate e soprattutto delle conquiste scientifiche di questo ultimo secolo. La mancanza di uomini capaci di continuare il cammino percorso finora potrebbe produrre prima o poi l'arresto del processo che ha informato il presente. Si tratterebbe di un arresto limitato nello spazio e nel tempo, ma potrebbe essere anche una via del futuro comune ai popoli di più elevata civiltà. L'egualitarismo di massa potrebbe affermarsi dunque e dare luogo a una civiltà di altro genere. Non ci sono ragioni che vietano di pensare a un avvenire diverso dagli ideali presenti, né ci sono ragioni effettive per escludere il determinarsi di nuovi ideali contemplativi contrari al ritmo della velocità che caratterizza il nostro tempo. L'eventuale nuovo tipo di civiltà non è ancora teorizzato dalla cultura di oggi, ma non può essere negato a priori come esigenza del domani. La crisi attuale non dipende dall'affermazione di un nuovo principio, ma soltanto dal dualismo tra il vecchio principio democratico e il sempre più vivo principio della scienza e della tecnica. Se si vuole superare la contraddizione, non si può pretendere perciò di escludere il sorgere di un nuovo ideale sociale che sostituisca la realtà di oggi.

Facciamo l'ipotesi, invece, che si voglia passare effettivamente dal regime demoratico-parlamentare a quello sempre più consapevole della scienza e della tecnica. Quale sarà allora la via da seguire? Se si riconosce che la democrazia è in antitesi con la scienza, è chiaro che la via da seguire è quella della selezione sempre maggiore dell'attitudine scientifica e tecnica. Il principio da affermare diventa il principio aristocratico da potenziare nell'educazione degli uomini fin dai primi ani di vita. La scuola deve diventare aristocratica e con essa aristocratica deve diventare tutta la società.

Naturalmente i termini di democrazia e di aristocrazia vanno intesi nel loro effettivo significato da instaurare e non in quello tradizionale. E il nuovo significato implica, per un verso, che la democrazia, spogliata dal falso concetto illuministico, rappresenti la sola eguaglianza possibile, e cioè il diritto di ognuno di affermarsi in funzione della propria capacità; e, per un altro verso, che l'aristocrazia rappresenti il frutto della selezione delle capacità di ognuno, in modo che ognuno conquisti il posto che gli compete nell'ordine gerarchico (gerarchia di meriti)  della società.

Il nuovo concetto di aristocrazia deve cominciare ad effettuarsi nella scuola, subito dopo la scuola  dell'obbligo. Là deve determinarsi la prima scelta delle capacità e delle attitudini, sia pure lasciando la possibilità di riesami e di nuove selezioni. Come debba configurarsi la scelta  sarà determinato dall'esame effettivo degli alunni in rapporto a tutta la loro personalità, e in funzione della scuola alla quale possono essere destinati.  E le scuole saranno costituite e articolate in modo che esse possano porre in evidenza gli alunni secondo le loro specifiche capacità, superando sempre il concetto indifferenziato della massa da accogliere in modo uniforme ed estrinseco. Ma la selezione maggiore deve effettuarsi soprattutto all'ingresso nell'università, dove deve essere instaurato il numero chiuso e il rigoroso controllo delle attitudini  in rapporto alle esigenze della società nella quale i laureati debbono essere inseriti. Né il criterio della selezione deve arrestarsi con il conseguimento della laurea, ché, anzi, la laurea può rappresentare soltanto il primo grado di una scelta sempre più rigorosa per far procedere i più meritevoli verso i posti di maggiore impegno.

Se volessimo definire con precisione il nuovo criterio da seguire, dovremmo convenire ch'esso deve rappresentare proprio l'opposto della demagogia ed escludere ogni concessione che non sia fondata sul criterio del valore scientifico o tecnico degli individui. Democraticamente, ognuno sovrano, ma sovrano dal posto che gli compete per le sue particolari capacità: aristocraticamente, ognuno sovrano, ma sovrano per la stessa ragione e cioè in virtù del grado e della forma del suo sapere.

La precisazione, che si è cercato di compiere, del significato dell'attuale crisi e del suo possibile sbocco, ha il solo scopo di far notare la contraddizione alla quale dà luogo l'accentuarsi contemporaneo della democrazia parlamentare e del progresso scientifico e tecnico. Ma il compito della scienza, evidentemente, deve consistere, tra l'altro, nella negazione del regime politico e nell'affermazione del regime scientifico. La rivendicazione dell'aristocrazia è dovere esplicito al quale  non si può rinunciare senza tradire la scienza. Oggi, purtroppo, le cose non vanno propriamente nella direzione indicata ed i professori universitari, ad esempio, non rivendicano il numero chiuso e fanno lezione prescindendo dalla personalità degli alunni. fanno esami a centinaia e a migliaia, giudicando giovani che non conoscono e che non hanno mai visti. Cedono a una nuova situazione di fatto che essi stessi alimentano con un grado maggiore o minore di incoscienza. Essi non possono instaurare alcuna aristocrazia perché in realtà non credono alla propria. Non sentono, soprattutto, i limiti dell'opposizione tra scienza e democrazia, e indulgono con un conformismo inverosimile a una realtà alla quale non sanno reagire.

Ma allora il problema si sposta e investe proprio quella che dovrebbe essere l'espressione della massima aristocrazia di oggi. Sono i professori universitari all'altezza del loro compito o sono già travolti dalla stessa demagogia alla quale non sanno o non vogliono contrapporsi? È già cominciata in loro quella crisi della scienza che prelude al processo di involuzione? Non è facile rispondere, anche se la risposta deve venire da chi formula una critica che lascia indifferenti i colleghi nella loro totalità.

 

Questo articolo venne originariamente pubblicato in Nuovi studi politici, 1971, n. 1, pp. 25-23, e, poco dopo - come si è detto - in appendice al volume L'avvenire dei giovani.

Molti, moltissimi sarebbero gli spunti di riflessione che esso presenta; ma, per ragioni di spazio, ci limiteremo qui ad andare dritti all'essenziale.

Spirito vede il progresso della scienza e della tecnica ("scienza" qui intesa nel senso più ampio della parola, e quasi come sinonimo di "competenza specifica") come incompatibile con la politica parlamentare, sbocco naturale dell'idea democratica. Sia perché il mondo contemporaneo appare sempre più improntato agli sviluppi della scienza, sia perché egli stesso ha individuato in essa - per le ragioni sopra esposte - lo strumento privilegiato per uscire dalle aporie del relativismo e dello scetticismo, Spirito è indotto a fare una scelta netta a favore di una politica sempre più ispirata, per non dire subordinata, alle esigenze dell'apparato tecno-scientifico, e mostra con spietata lucidità gli esiti degenerativi di una democrazia che, presupponendo una competenza tecnica da parte di coloro  che non ce l'hanno (con echi evidenti dal Gorgia platonico), non può che sfociare nella tirannide inefficiente di una demagogia scaturente dal basso.

Non sono più, come nell'antica Grecia, i capi politici ad attuare una politica demagogica, per compiacere le masse; sono le masse che pretendono, in prima persona, l'instaurazione di un sistema politico fondato sulla demagogia, ossia sull'appiattimento di tutti e di ciascuno sul livello, mortificante, dei meno esperti e dei meno dotati.

Spirito vede un esempio lampante di tale degenerazione nella situazione della scuola superiore e dell'università italiane. La rinuncia al numero chiuso, la standardizzazione dell'insegnamento, la richiesta del voto politico da parte del movimento studentesco, gli appaiono come altrettante conferme di questa degenerazione, di questa selezione alla rovescia. E la stessa cosa avviene nei pubblici uffici - nonché, in misura minore, nelle aziende private -, ove la progressiva abolizione degli esami di concorso e di ogni criterio di selezione del personale sta portando verso una situazione caotica di assoluta inefficienza e confusione.

Ci sembra che su molta parte dell'analisi di Spirito si possa concordare, specie da parte di chi, come noi, ha avuto modo di vivere gli effetti del principio demagogico invalso nelle scuole e nelle università negli anni Sessanta e Settanta del Novecento e può assistere, ancora oggi, alle conseguenze drammatiche che ha avuto, per l'intera società italiana, l'abolizione di ogni criterio di meritocrazia negli studi,  nelle professioni e nei mestieri.

Ciò detto, rimane da guardare il fenomeno rovesciando la medaglia e adottando un diverso punto di vista.

Spirito non sembra avere dubbi sul fatto che il predominio sempre più rapido del progresso scientifico sulla società civile sia un bene; e tuttavia, non possiamo fare a meno di chiederci: un bene per chi?

Qui vi sono da considerare, contemporaneamente, due ordini di problemi.

Il primo è che un sapere tecno-scientifico sempre più specializzato impone un governo sempre più ristretto, un governo dei tecnici che, per la forza stessa delle cose, tende a diventare una vera e propria dittatura - pur restando salve, questo è del tutto secondario, le forme esteriori della democrazia.

Il secondo ordine di problemi deriva dal fatto che questo governo dei tecnici, per sua natura, farà - o, per meglio dire, sta già facendo - tutto quanto in suo potere per rimuovere ogni ostacolo alla propria espansione, subordinando ogni esigenze non tecnica e non scientifica a un modello sociale  puramente tecnico e scientifico.

Ma siamo sicuri che questo sia un bene per la società?

E siamo poi sicuri che la pratica del fare, della manipolazione, del dominio sugli enti, che un tale modello tecnologico comporta, siano intrinsecamente più confacenti al benessere umano, dei valori della contemplazione, dell'ascolto, in altre parole dell'estetica, dell'etica e della religione?

Per un momento, ma per un momento solo, Spirito sembra sfiorato da questo dubbio, e si pone la domanda; ma poi va subito oltre, e sembra non pensarci più.

Invece noi dobbiamo porci con forza un tal genere di interrogativi. Dove vogliamo andare? Quale futuro immaginiamo, quale futuro desideriamo per noi e per le prossime generazioni? Che cosa ci autorizza a credere che una società a misura della tecno-scienza possa rendere gli uomini più felici, o meno infelici, di una società costruita sulla contemplazione, sulla ricerca della pace interiore, sulla fratellanza e sull'amore?

Ancora: possiamo facilmente capovolgere il ragionamento iniziale di Spirito e obiettare che, se in una società improntata al modello scientifico sono i tecnici a dover formare l'aristocrazia, non esistono ragioni per supporre che essi siano le persone più atte a governare il mondo degli uomini, essendo eccellenti solo nel campo ristretto della loro specializzazione. Perciò, se è vero che un politico digiuno di competenze scientifiche non sarà un buon governate in senso tecnico, è altrettanto vero che un tecnico, per quanto competente nel proprio ambito specifico, può benissimo risultare un politico inadeguato, nel senso più ampio della res publica.

Pertanto, ci sembra che Spirito, pur animato dalla lodevole intenzione di ripristinare il sacrosanto principio che la cosa pubblica deve essere affidata ai migliori, non approfondisce adeguatamente il criterio in base al quale si possa stabilire chi sono i migliori, per fare che cosa e per andare verso dove.

Forse, se fosse vissuto fino a vedere gli orrori della bioingegneria, degli arsenali nucleari sempre più micidiali, della clonazione degli esseri viventi, della graduale sostituzione degli esseri umani mediante i robot (in Giappone ve ne sono operanti non solo per le funzioni più semplici, ma anche, per quelle più complessa, ad es., quali direttori d'orchestra), forse, dicevamo, il Nostro avrebbe cambiato idea o, quanto meno, avrebbe cominciato a nutrire dei dubbi.