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Solzenicyn: attacco a Ovest

di Alessandro Zaccuri - 30/05/2008


 


 N
on fu esattamente un discorso di circostanza, nonostante le premesse: il grande esule che finalmente trova rifugio nella « terra della libertà » , il riconoscimento prestigioso, il momento propizio per manifestare gratitudine. E invece, anziché diffondersi in ringraziamenti, il perseguitato famoso se ne esce con un ragionamento del tipo: qui negli Stati Uniti non siete messi meglio che in Unione Sovietica, date retta a uno che se ne intende. Succedeva trent’anni fa, l’ 8 giugno 1978, davanti alla platea folta e attonita di docenti e studenti dell’Università di Harvard, in Massachusetts. A tenere quello che, per molti, rimane ancora oggi « il discorso di Harvard » era Aleksandr Solzenicyn, l’autore di Arcipelago GuLag, premio Nobel nel 1970, espulso dall’Urss nel 1974 e privato della cittadinanza sovietica.
  Stabilitosi in America dopo un periodo trascorso in Svizzera, nel 1978, quando viene invitato ad Harvard per rivolgere il tradizionale saluto ai nuovi laureati, Solzenicyn è un esperto lottatore appena sessantenne, temprato dall’esperienza della deportazione e dalle estenuanti scaramucce con le istituzioni comuniste, che pure nel 1962 avevano autorizzato la pubblicazione di
Una giornata di Ivan Denisoviç, la novella che aveva aperto un primo spiraglio sulla realtà dei campi di correzione politica in Unione Sovietica. Il Solzenicyn di Harvard, insomma, non è ancora l’inavvicinabile recluso che, dalla sua baita in Vermont, segue con diffidenza il processo della perestrojka, né il discusso conduttore televisivo che, all’alba della nuova Russia desovietizzata, sembra propugnare il destino manifesto del panslavismo. Nel 1978, del resto, il mondo è ancora diviso in due, da una parte il blocco sovietico, dominato dal plumbeo carisma di Leonid Breznev, dall’altra l’America democratica e a suo modo generosa del presidente Carter, impegnato fra l’altro nel complesso negoziato sugli armamenti nucleari. Con tutto quello che aveva passato, Solzenicyn non dovrebbe avere difficoltà a scegliere con chi schierarsi. E invece, ancora una volta, ad Harvard decide di schierarsi con se stesso.
  Tempestivamente pubblicato in Italia con il titolo
Un mondo in frantumi, il discorso dell’ 8 giugno 1978 resta uno dei momenti più alti – e ancora attuali – della riflessione di Solzenicyn. Muove dal rifiuto di una prospettiva all’epoca comunemente accettata ( e, di fatto, messa in atto dopo il crollo dell’Impero sovietico), quella cioè per cui l’Urss sarebbe stata destinata alla « convergenza » con il modello di vita occidentale, di cui gli Stati Uniti rappresentano il modello più evoluto. Ma l’Occidente, accusa subito Solzenicyn, ha barattato il suo coraggio con l’ideologia del benessere, delegando alla sfera giuridica la tutela dei valori fondamentali, non esclusa la vita stessa. « Se un uomo si trova giuridicamente nel proprio diritto – osserva lo scrittore –, non si può chiedergli niente di più » . E ancora: « L’autolimitazione liberamente accettata è qualcosa che non si vede quasi mai: tutti praticano per contro l’autoespansione, condotta fino all’estrema capienza delle leggi, fino a che le cornici giuridiche non iniziano a scricchiolare » .
  Proprio come sta accadendo oggi, in Italia e in molti altri Paesi, in materia di manipolazione genetica ed eutanasia, oltre che di normativa delle convivenze e, più in generale, degli affetti. Già nel 1978, del resto, Solzenicyn ha chiara questa deriva: « La difesa dei diritti del singolo – afferma nel discorso di Harvard – giunge a tali eccessi che la
società si trova disarmata davanti a certi suoi membri: per l’Occidente è giunto decisamente il momento di affermare non tanto i diritti dei cittadini, quanto i loro doveri » .
  La dittatura dell’individuo, la pretesa di una liberà senza responsabilità, l’irresponsabilità diffusa degli stessi mezzi di informazione conducono per Solzenicyn a una sorta di censura rovesciata, che prefigura le dinamiche del

 politically correct
e per cui le « idee alla moda » dominano in maniera incontrastata, in un clima di euforia generale al quale lo scrittore dedica un epitaffio memorabile « Tanta allegria, e perché poi? » . La crisi dell’Occidente è, per Solzenicyn, la crisi di un umanesimo che « ha negato la presenza del male all’interno dell’uomo, non gli ha riconosciuto compito più elevato dell’acquisizione della felicità terrena e ha posto alla base della civiltà occidentale moderna la pericolosa tendenza a prosternarsi davanti all’uomo e ai suoi bisogni materiali » . L’Occidente, insiste, non può rappresentare un modello alternativo rispetto al socialismo reale, perché ne condivide l’assunto materialista e non è più capace di contrastarlo sul piano spirituale. « Se l’uomo fosse nato, come sostiene l’umanesimo, solo per la felicità, non sarebbe nato anche per la morte » , obietta Solzenicyn dopo aver denunciato il fatto che « la nostra vita interiore » è la vittima principale e designata di questa « catastrofe della coscienza umanistica areligiosa » . « All’Est – spiega – è il bazar del Partito a calpestarla, all’Ovest la fiera del commercio » . Trent’anni dopo viene da domandarsi come sia stato possibile che un’analisi tanto lucida sia rimasta inascoltata. E, più che altro, se possa essere ancora valida la speranza di un nuovo rinascimento spirituale, affidata da Solzenicyn alle ultime righe del suo discorso: « Nessuno, sulla Terra, ha altra via d’uscita che questa: andare più in alto » .
 Già nel 1978 l’esule aveva ben chiara la deriva della difesa dei diritti umani: «Per l’Occidente è giunto il momento d’affermare i doveri dei cittadini»
Il consumismo non può essere un’alternativa al socialismo reale, perché ne condivide l’assunto materialista e non sa contrastarlo nello spirito