Terrore USA contro terrorismo internazionale
di Piero Visani - 24/01/2006
Fonte: lineaquotidiano.it
Enduring freedom, una lunga serie di violazioni del diritto internazionale e dei singoli diritti nazionali
Non deve essere una cosa da
poco la questione delle extraordinary
renditions, vale a
dire del sistema di “consegne straordinarie”
allestito dal governo americano
dalla Cia per gestire (a modo loro) la
lotta al terrorismo, se, qualche giorno
fa, il Parlamento europeo ha sentito
l’esigenza di istituire una commissione
d’inchiesta in materia. In effetti, se
organismi dalla reattività prossima allo
zero assoluto come l’Europarlamento
sentono la necessità di fare qualcosa,
sia pure limitata ai soli aspetti di facciata,
lo scandalo deve essere piuttosto
grande e delicato.
Come si è appreso dalla stampa già nel
recente passato, dopo l’11 settembre
2001 e con sempre maggiore insistenza
negli anni successivi, la Cia e varie
altre agenzie federali statunitensi si
sono dimostrate particolarmente attive
nel condurre la lotta contro il terrorismo
internazionale per mezzo di
sequestri di persona, trasferimenti di
prigionieri” all’insaputa delle competenti
autorità degli Stati nazionali,
creazione di carceri segrete utili ad
aggirare la legislazione americana che
vieta la pratica della tortura (quanto
meno in patria), e così via.
La questione è di cruciale importanza
si riferisce in primo luogo a come
sviluppare la “guerra al terrorismo”:
l’oggetto del contendere è se tale guerra
possa essere condotta con metodi
che di fatto assimilano chi li pratica
alla barbarie dei loro nemici o se non
debba essere combattuta avendo bene
in mente che è proprio sul fondamentale
operative dell’avversario che tale conflitto
acquisisce una decisa superiorità
morale e, a lungo andare, anche politica.
La visione dell’amministrazione Bush
è che la guerra contro il “terrorismo
internazionale” (definizione quanto
mai generica e impropria) debba essere
combattuta senza esclusione di colpi,
ma non sono pochi, anche all’interno
degli Stati Uniti, coloro che si rendono
conto che il ricorso a pratiche
operative per nulla diverse da quelle
terroristiche, se talvolta è in grado di
ottenere significativi risultati immediati,
si dimostra in realtà esiziale sotto il
profilo della legittimazione della politica
americana, in particolare nei confronti
del mondo arabo, nei riguardi
del quale la ricerca di acquisizione di
consensi sarebbe certamente più proficua
della semplice diffusione di odio.
Si è giunti così alla messa in opera della
pratica del “rapimento umanitario”,
che assomiglia, in tutto e per tutto, a
quella del “conflitto umanitario” e che
ne condivide illusioni ed errori. Come
la teoria del “conflitto umanitario” è
frutto di una visione manichea, che
divide il mondo in buoni e cattivi, e
non esita a conferire piena legittimazione
alla guerra in quanto strumento
con cui le forze del Bene esercitano
una “sacrosanta” repressione a carico
di quelle del Male, così la pratica del
“rapimento umanitario” muove dalle
medesime premesse teoriche: compiamo
un atto terribile – sia esso un rapimento
o un arresto senza mandato o
una condanna senza processo o una
tortura - ma lo facciamo
segue dalla prima
(…) per il bene dell’umanità,
per sconfiggerne i nemici, che
sono nemici di tutti, in quanto
si pongono deliberatamente
contro di noi e dunque (questo
il passaggio cruciale) al di
fuori del consesso umano.
Questa esasperazione concettuale,
già di per sé marcata e
per nulla condivisibile, si è
tradotta sul piano giuridico in
una serie infinita di gravi violazioni
del diritto internazionale
e dei singoli diritti nazionali,
quasi sempre compiuta in
tacita combutta con i governi
interessati e talvolta – se reputato
necessario – anche in
segreto o calpestando senza
problemi diritti ed interessi di
Paesi amici ed alleati. A dimostrazione,
non solo sul piano
giuridico, ma anche su quello
politico, che l’unico diritto in
cui gli Stati Uniti credono è, al
di là delle loro altisonanti
dichiarazioni di principio, il
diritto del più forte.
La nomina di una Commissione
d’inchiesta da parte del
Parlamento europeo non
approderà ovviamente ad
alcunché, ma è apprezzabile
come atto di implicita denuncia
di metodi inaccettabili. Più
inaccettabili ancora, tuttavia,
sono il moralismo e il malinteso
atteggiamento da Herrenvolk
che animano la politica
estera statunitense: quest’ultima,
in nome della difesa dei
“diritti dell’umanità” ha già
compiuto una significativa
serie di nefandezze, tutte
andate più o meno a buon fine
grazie alle “ragioni della forza”.
Ora però, con la pratica
dei “rapimenti umanitari”, si è
spinta a livelli mai raggiunti in
passato, arrivando ad una
preoccupante saldatura tra
comportamenti aggressivi sul
piano pubblico e su quello privato,
ad una sorta di “delinquenza
di Stato” che lascia
trasparire pericolosi sbandamenti.
Nessuno intende fare l’“anima
bella”. Le ragioni della politica
- la cosiddetta “ragion di
Stato” – si sono sempre mosse
in base a logiche assolutamente
proprie, in cui lo spazio per
l’etica era puramente formale
e quello per il diritto assolutamente
flessibile. Ma questi
erano anche gli aspetti più
deteriori delle pratiche del realismo
politico, quelli maggiormente
criticati proprio dai fautori
dei “diritti umani”. Vedere
ora questi ultimi passare senza
problemi dalla legittimazione
della “guerra giusta” alla santificazione
(o quasi) delle pratiche
da delinquenza comune,
purché ovviamente messe in
atto per tutelare le “forze del
Bene”, è una deriva francamente
inaccettabile.
Il Parlamento europeo ovviamente
non lo farà, perché non
ha la forza e nemmeno l’autorevolezza
politica per farlo,
ma sarebbe bene che i popoli
del Vecchio Continente e le
loro classi dirigenti si dessero
da fare per respingere teorie e
pratiche deplorevoli. Le concezioni
politiche e giuridiche
dei “fratelli della costa” di
piratesca memoria paiono aver
avuto – come si ricorderà – un
ruolo di un qualche rilievo nei
fondamenti teorici della Costituzione
americana ed è comprensibile
che ciò possa talvolta
riemergere, ma il vero problema,
oggi, non è quello di
lasciarsi coinvolgere nelle
polemiche e negli scontri ideologici,
cui pure va riconosciuto
un giusto peso, quanto quello
di elaborare una politica che
possa debellare le minacce che
gravano su di noi. Da questo
punto di vista, l’esercizio di
una violenza indiscriminata e
da Far West a carico di soggetti
di cui non sempre è acclarata
la natura di terroristi, è un
errore politico grave, poiché
affida alla sola forza il compito
di ottenere la vittoria contro
un nemico che è destinato a
diventare tanto più forte quanto
più in grado di attivare a
proprio favore una grande rete
di solidarietà. Le azioni da
cow-boys paiono servire proprio
a questo, a scatenare un
classico caso di eterogenesi
dei fini: colpire un nemico,
talvolta addirittura a caso, per
far sì che altre cento persone,
magari in precedenza incerte,
diventino come lui. Il tutto
passando sopra come carri
armati (nella fattispecie M-1
Abrams) su diritti, sovranità,
legalità, garanzie giuridiche.
Se questa è la lotta al terrorismo,
è già perduta: l’ossessione
per la sicurezza nazionale
non può che portare alla nascita
del Garrison State, all’interno
del quale, tra tutori dell’umanità
autonominatisi tali e
perdita progressiva delle libertà
fondamentali e dei diritti di
cittadinanza, non ci sarà bisogno
di aspettare Bin Laden per
sapere che cosa sia una dittatura.