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I rapporti Usa-Israele e la diplomazia di Carter

di Sergio Romano - 30/05/2008

 
 

 

Il Corriere ha ospitato un articolo che critica fortemente l'ex presidente degli Stati Uniti Carter per il suo viaggio in Medio Oriente, accusandolo di essere mosso soltanto da vanità, senilità e oscurantismo religioso.
Carter ha scritto un libro sulla Palestina che contiene valutazioni forse opinabili che però, a mio parere, meriterebbero una confutazione basata su argomenti razionali e non solo invettive. È possibile una serena discussione sulle opinioni e sugli argomenti del libro di Carter?
Alessandro Figà Talamanca

 

 

Risponde Sergio Romano: Caro Figà Talamanca,
Come lei ricorda, Carter ha scritto un libro severo in cui non ha esitato a denunciare la politica degli israeliani verso i palestinesi come una forma di apartheid. Più recentemente ha fatto un viaggio in Medio Oriente nel corso del quale ha trattato Hamas come un legittimo interlocutore politico e ha cercato di coinvolgere l'organizzazione in una tregua che permetterebbe la ripresa dei contatti politici. Al ritorno dal viaggio ha scritto un lungo articolo per il New York Times in cui ha giustificato la sua iniziativa con argomenti che mi sono parsi comprensibili e sensati. Ha ricordato in particolare che il Carter Center (l'organizzazione umanitaria per la pace e la conciliazione internazionale, creata alla fine della sua presidenza) ha avuto un ruolo ispettivo in alcune elezioni palestinesi, fra cui quelle del gennaio 2006, trionfalmente vinte da Hamas, e ne ha constatato la correttezza.
Carter ha ragione: fra tutte le consultazioni elettorali dei Paesi arabi dell'ultimo decennio, quelle palestinesi sono state le più democratiche. E ha ragione anche quando osserva che l'autorità di Hamas non è basata sulle sue operazioni terroristiche, ma sulla popolarità di cui gode nei territori occupati. Parlare con Mahmud Abbas, presidente dell'Autorità palestinese, è necessario ma non sufficiente. Non è possibile predicare la democrazia agli arabi, come ha fatto la presidenza Bush in questi anni, e ignorare che le elezioni palestinesi sono state molto più trasparenti di quelle egiziane. E credo che sia stato un errore infine respingere certi segnali di disponibilità lanciati da Hamas o trascurare i tentativi di mediazione dell'Arabia Saudita. Per questa ragione il viaggio di Carter mi è parso utile e opportuno.
Nel quadro dei rapporti fra Israele e gli Stati Uniti Jimmy Carter appare, a prima vista, come una eccentrica anomalia. Il suo viaggio non è piaciuto né al governo di Gerusalemme, che ha trattato l'ex presidente con grande freddezza, né al Dipartimento di Stato. Eppure vale forse la pena di ricordare che Carter non è un fenomeno isolato e che gli Stati Uniti furono in molte occasioni alquanto critici della politica israeliana. Nel 1956, all'epoca della spedizione di Suez, minacciarono di adottare sanzioni contro Israele per il suo ruolo nella spedizione anglo-francese contro l'Egitto di Nasser. E fino al 1967 rifiutarono di assicurare forniture importanti alle forze armate israeliane. La situazione cambiò dopo la guerra del Sei giorni quando Israele divenne il maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione e poté contare su cospicui aiuti finanziari e forniture di armi. Ma in un articolo pubblicato dal Wall Street Journal del 7 maggio uno studioso israeliano, Michael B. Oren, ricorda che Ronald Reagan condannò il bombardamento israeliano del reattore nucleare iracheno e l'assedio di Beirut l'anno successivo; mentre Bush sr. interruppe i finanziamenti americani in segno di protesta per la creazione d'insediamenti israeliani nei territori occupati destinati agli immigrati russi. Sono atteggiamenti critici che potrebbero divenire nuovamente attuali se Barak Obama venisse eletto alla presidenza degli Stati Uniti.