Sul "Corriere Economia"di ieri è apparso a pagina 8 un servizio sui "nuovi pivot di Boston". Chi sono? Sono i giovani economisti italiani che studiano al Mit, età media 33 anni. Quelli che un giorno, come titola enfaticamente il "Corriere", "saranno famosi".
La sua lettura è interessante perché spiega, soprattutto "tra le righe", quali sono i criteri di legittimazione accademica, i contenuti degli studi, e infine le aspirazioni dei futuri quadri dirigenti universitari, ma anche bancari, finanziari, politici e imprenditoriali.
In primo luogo, del campione "significativo" offerto al lettori (10 giovani "assistent professor", 7 uomini e 3 donne), solo 1 non ha frequentato la Bocconi. Università privata per eccellenza, nota roccaforte teorica della sintesi neoclassica ( teoria dell'equilibrio economico + frammenti di Keynes, come dire: mercato + lievi e occasionali correttivi, che rendano l'equilibrio di sottoccupazione tollerabile), e dove ancora gli studenti si preparano sul "Manuale" del Samuelson, che ne rappresenta la fondamentale vulgata. Inoltre la formazione bocconiana fa nascere nello studente la consapevolezza di appartenere a una élite, che trova la sua consacrazione (come senso di appartenenza a una classe internazionale e privilegiata di tecnocrati, unici depositari dei segreti dell'economia) proprio nel decisivo periodo di studio al Mit, come culmine di un moderno cursus honorum, e punto di partenza per la successiva carriera di "funzionari" del capitale privato.
In secondo luogo, i giovani professori dichiarano di ammirare Franco Modigliani: un keynesiano di destra, premio Nobel, ferreo difensore del capitalismo e ovviamente della sintesi neoclassica, deciso sostenitore delle privatizzazioni e dell'importanza economica di un sistema creditizio completamente privato. Una piccola curiosità per capire il "personaggio" (scomparso nel 2003): nel 2000 Modigliani fu testimonial della campagna pubblicitaria per favorire la vendita degli immobili pubblici italiani, tutta giocata sullo slogan "Un premio per l'economia", accompagnato da foto e firma (R. Ippolito, L'Italia dell'economia. Fatti e protagonisti del 2000 , Editori Laterza 2000, p. 109).
In terzo luogo, come nota (entusiasticamente) l'articolista, i giovani studiosi si occupano solo di "economia micro, neuro-comportamentale, statistico-quantitiva, dei giochi, dei rischi". Insomma, è impossibile trovarne uno che si occupi di economia ecologica, teoria del valore economico, storia dell'economia. Per tutti l'unica realtà da studiare a fondo è quella rappresentata dal mercato, come somma di decisioni individuali, delle quali l'economista deve studiare i meccanismi mentali, i coefficienti di rischio, le serie storiche (ad esempio per quello che riguarda meccanismi e rischi del mercato borsistico). I grandi aggregati, come la spesa pubblica, sono analizzati, ma solo dal punto di vista dei meccanismi monetari e creditizi capaci di favorirne la progressiva riduzione.
Quali conclusioni? I giovani economisti che non studiano in prestigiose università private ( sotto l'occhio attento del capitale privato e dei suoi sacerdoti-docenti), che non condividono la vulgata neoclassica, e soprattutto che non celebrano le privatizzazioni, difficilmente verranno cooptati e faranno carriera.
In questo modo il sistema capitalistico si autoriproduce sociologicamente, attraverso la formazione di quadri fidati, accuratamente indottrinati, e dunque politicamente "sicuri".
A costo però di ignorare intenzionalmente i grandi problemi ecologici, sociali e politici.
Fino a quando?