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A Luanda aspettando che scoppi la rivolta

di Ryszard Kapuscinski - 31/05/2008

  
Il Portogallo fu uno degli ultimi imperi a concedere l’indipendenza alle proprie colonie. Dopo la rivoluzione portoghese del 1974 contro il dittatore Salazar, maturarono le condizioni per l’indipendenza dell’Angola, che sarebbe stata proclamata l’11 novembre del 1975.
L’importanza strategica del paese e le sue risorse petrolifere lo resero terreno di un grave scontro fra i diversi movimenti indipendentisti, finanziati da potenze straniere appartenenti al blocco socialista e a quello occidentale.
Il reporter di guerra Ryszard Kapuscinski ci racconta la tensione della capitale Luanda alla vigilia degli scontri che avrebbero segnato la futura storia dell’Angola.


Ho trascorso tre mesi all’Hotel Tivoli di Luanda. Dalla mia finestra vedevo la baia e il porto. Lungo la costa stazionavano i mercantili delle linee oceaniche europee. I loro comandanti, in continuo contatto radio con l’Europa, sapevano quel che accadeva in Angola molto meglio di noi, rinchiusi nella città assediata. Quando le radio di tutto il mondo annunciavano l’imminenza della battaglia per la conquista di Luanda, le navi prendevano il largo e si fermavano sulla linea dell’orizzonte. Con loro si allontanava anche l’ultima speranza di salvezza: fuggire via terra era impossibile e, quanto all’aeroporto, correva voce che il nemico stesse per bombardarlo e chiuderlo. Poi si veniva a sapere che l’attacco a Luanda era stato rimandato e la flotta rientrava nella baia, riprendendo la sua interminabile attesa dei carichi di caffè e di cotone.
Il movimento delle navi era per me un’importante fonte di informazioni. Ogni volta che la baia si svuotava mi preparavo al peggio. Tendevo l’orecchio per spiare il rombo dei cannoni. Mi domandavo se non ci fosse del vero in ciò che si sussurrava tra i portoghesi, vale a dire che in città si tenessero nascosti duemila soldati di Holden Roberto, in attesa di un segnale per dare il via alla carneficina. Nel bel mezzo di tutte queste ansie, ecco che le navi rientravano in porto. Salutavo come liberatori quei marinai sconosciuti: per un po’ si poteva stare tranquilli. Nella camera accanto alla mia vivevano due anziani signori: dom Silva, mercante di diamanti, e sua moglie, doña Esmeralda, che stava morendo di cancro. Trascorreva i suoi ultimi giorni senza aiuti né cure, dato che gli ospedali erano chiusi e tutti i medici partiti. Il suo corpo, contorto dal dolore, sprofondava in una montagna di cuscini. Entrare in quella stanza mi faceva effetto. Un giorno bussai per chiedere se di notte il ticchettio della mia macchina da scrivere non la disturbasse troppo. La sua mente emerse dal dolore solo per il tempo necessario a rispondermi: «No, Ricardo, ormai niente può più impedirmi di arrivare alla fine». (...)
Di fronte a me abitava una giovane coppia, Arturo e Maria. Lui funzionario coloniale, lei una bionda calma e taciturna dallo sguardo velato e sensuale. Aspettavano di partire, ma prima dovevano cambiare i soldi angolani in valuta portoghese, cosa che, viste le code chilometriche davanti alle banche, richiedeva settimane. La nostra cameriera, una vivace e affettuosa vecchietta chiamata doña Cartagina, mi disse indignata all’orecchio che Arturo e Maria vivevano nel peccato. Come i neri, come quei senzadio dell’MPLA1 [...]. Nella sua scala di valori, era il massimo dell’infamia cui potesse spingersi un bianco. Anche doña Cartagina aspettava l’arrivo di Holden Roberto. Dato che nessuno sapeva dove fosse il suo esercito, me ne chiedeva notizie di nascosto. Mi chiedeva anche se nei miei servizi parlassi bene dell’FNLA (Fronte Nazionale per la Liberazione dell’Angola, ndr). «Benissimo» le rispondevo. «Anzi con entusiasmo!» In segno di gratitudine mi tirava a lucido la camera e, quando in città non si trovava niente da bere, mi portava - scovata chissà dove - una bottiglia d’acqua minerale.
Da quando le avevo detto che mi sarei trattenuto a Luanda fino all’11 novembre, giorno dell’indipendenza dell’Angola, Maria mi trattava come un uomo votato al suicidio. Secondo lei della città non sarebbe rimasta pietra su pietra. Sarebbero morti tutti e Luanda sarebbe diventata un grande cimitero abitato da iene e avvoltoi. Mi consigliava di partire il prima possibile. Scommettemmo una bottiglia di vino che sarei sopravvissuto e che alle diciassette del 15 novembre ci saremmo incontrati a Lisbona, nell’elegante Altis Hotel. Il giorno stabilito per l’appuntamento arrivai in ritardo, ma ad attendermi c’era un biglietto di Maria che diceva che mi aveva aspettato e che l’indomani lei e Arturo sarebbero partiti per il Brasile. Il Tivoli, stipato fino all’inverosimile, ricordava le stazioni ferroviarie polacche dell’immediato dopoguerra, stracolme di una folla, a seconda dei casi, apatica o nervosa e di cataste di fagotti legati alla meglio. Regnava ovunque un tanfo acido, l’ambiente era pervaso da un’afa soffocante e appiccicosa. La gente sudava di caldo e di paura. C’era un’aria da apocalisse, da attesa del giudizio universale. Qualcuno annunciò che quella notte avrebbero bombardato la città. Qualcun altro disse di aver saputo che nel suo quartiere i neri arrotavano i coltelli per usarli sulle gole dei portoghesi. Da un momento all’altro sarebbe scoppiata la rivolta. «Quale rivolta?» chiedevo, per trasmettere la notizia a Varsavia. Nessuno lo sapeva con certezza. Una rivolta: di che genere, lo si sarebbe visto dopo. Le dicerie esasperavano gli animi, logoravano il sistema nervoso, toglievano la capacità di pensare. Immersa in un’atmosfera d’isterismo, la città tremava di paura. Nessuno sapeva come affrontare, come spiegare o da che parte prendere la realtà che tutt’a un tratto si trovava davanti. [...]

1 MPLA: Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola, di orientamento socialista e appoggiato da Cuba e Urss.

Ryszard Kapuscinski, Ancora un giorno, Feltrinelli, pp. 144, euro 11.