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Mitologia maschile della forza e psicopatia nel «Peer Gynt» di Henrik Ibsen

di Francesco Lamendola - 02/06/2008

Ci eravamo recentemente occupati, nell'anniversario della morte della povera Claudia Bianchi, del mito maschile della forza e dell'invulnerabilità, che pare aver contagiato molte donne e il cui effetto è la progressiva distruzione delle differenze di genere fra la psicologia maschile e quella femminile (cfr. F. Lamendola, Nel dramma dimenticato di Claudia Bianchi, il grido d'aiuto di una femminilità infelice, consultabile sul sito di Arianna Editrice).

In quella sede, avevamo osservato che il body building in generale, e quello femminile in particolare - almeno nelle sue forme estreme e tendenzialmente autodistruttive - esprime, in sostanza,  il rifiuto di accettare lo stato di vulnerabilità che è proprio della condizione contingente dell'essere umano; e, nel caso delle donne, il tentativo, in ultima analisi paranoico, di perseguire il sogno alchimistico dell'androgino, ma in un senso grossolanamente materiale.

Non solo di tendenza paranoica, ma di autentica sindrome psicopatica, parlava una ventina d'anni or  sono Arno Gruen in un articolo intitolato:  Il mito maschile. Disprezzare la debolezza (sulla rivista Psicologia contemporanea, Firenze, Giunti, marzo-aprile 1990, n. 98, pp. 18-23). La tesi centrale in esso sostenuta era che agli esseri umani, specialmente di sesso maschile, fin da quando sono piccoli viene insegnato a disprezzare e a combattere strenuamente sentimenti quali il dolore, l'impotenza e la compassione, allo scopo di acquisire un dominio sempre più saldo sulla realtà, sia dentro che fuori di sé.

D'altra parte, Gruen faceva osservare che il mito virile della forza e della superiorità ad ogni costo - oggi, significativamente, inseguito anche da un numero crescente di donne - impedisce, per sua natura, il confronto delle persone con quel sentimento di vulnerabilità che, invece, deve essere considerato fondamentale per lo sviluppo e la maturazione della personalità, mediante una migliore conoscenza e accettazione di se stessi.

Fare proprio, acriticamente, il mito maschile della forza e del disprezzo della compassione, infatti, significa allontanarsi pericolosamente dal proprio nucleo interiore. Eppure, solo l'accesso alla sfera più intima dell'Io può consentirci di elaborare le strategie necessarie a sopportare gli urti del dolore che la vita, inevitabilmente, ci infligge e ad attingere alla forza necessaria per far fronte all'impotenza (dovuta a una malattia, ad una perdita affettiva e simili); nonché per instaurare un legame di solidarietà e mutuo appoggio con il prossimo, invece di vedere in lui una creatura debole e infelice, da rifiutare con disprezzo.

In particolare, secondo Gruen, è la madre che deve trasmettere al figlio piccolo la capacità di sperimentare il dolore e di viverlo come un aspetto ineliminabile della condizione umana. Se questo non avviene - e un numero sempre maggiore di donne, come si diceva, tendono a introiettare il mito maschile della forza e dell'invulnerabilità - l'umanità è destinata a perire. Nel bambino, infatti, educato nel culto maschile della forza, lo sviluppo dell'accettazione del dolore, della solidarietà e dell'empatia per i suoi simili, viene gravemente disturbato, e il risultato è il precoce soffocamento della capacità di provare compassione per sé e per gli altri, ossia - a ben guardare - la distruzione della propria umanità.

Scriveva Arno Gruen a questo proposito (Op. cit., p.  20):

 

Una madre che abbia adottato l'ottica maschile può diventarne a tal punto prigioniera da basare la sua stessa autostima sul principio maschile del potere e non più sulla capacità di aprirsi alla vita e alla gioia di tutto ciò che è vivente. John Antill e e John Cunningham, per esempio, hanno trovato in un gruppo di studentesse universitarie che i tratti femminili, oblativi, finalizzati alla vita, presentavano un significato negativo ai fini della stima di sé, mentre la «virilità» contrassegnata da efficienza, potere e successo, era il fondamento di un'immagine positiva di se stessa.

 

Il che, tradotto in linguaggio terra terra, significa che un numero sempre crescente di donne, almeno nella società americana - ma anche in tutte le altre società le quali, avendola presa a modello, hanno divinizzato l'ideale competitivo - si sentono tanto più realizzate e soddisfatte di sé, quanto più si identificano, psicologicamente, con il maschio, anzi, con il maschio stupidamente aggressivo e  dominatore; mentre, viceversa, si sentono tanto più "fallite" e inadeguate, quanto più si riconoscono nei valori 'femminili' dell'apertura, dell'ascolto e della disponibilità.

Un bel risultato davvero; e, giorno dopo giorno, valanghe di film, telefilm, romanzi, fumetti e immagini pubblicitarie, si sforzano in ogni maniera di rafforzarlo, ampliarlo, consolidarlo, con tutta l'apparente autorevolezza di cui sono forniti.

Da parte sua, il bambino allevato da una madre dominata dal mito maschile, che lo ha adorato in quanto maschio e che lo ha fatto sentire tanto più eccezionale, quanto più si conformava a quel modello, tenderà a sviluppare strategie di adattamento per ricevere l'approvazione materna. Tali strategie diverranno in lui, alla lunga, una sorta di seconda natura: una maschera che lo porterà  a venerare non l'immagine reale della madre, ma la sua immagine astratta e idealizzata; e, per converso, a disprezzare tutte le alte figure femminili, caratterizzate dagli attributi della debolezza, dell'impotenza, ma anche della dolcezza e della compassione. In realtà, non sono tanto quelle figure femminili l'oggetto del suo odio, quanto la parte più intima e segreta di se stesso: quella che è, o che era, capace di provare e accettare il dolore e l'impotenza, e che potrebbe ricavarne una lezione di umana simpatia e solidarietà verso il prossimo.

Possiamo, infatti, porci le due seguenti domande: quante persone adulte, in realtà, odiano il prossimo, semplicemente perché non hanno il coraggio di odiare consapevolmente se stesse? E quante persone odiano inconsapevolmente se stesse, perché un modello educativo distorto ha sacrificato alcune funzioni naturali della loro personalità, obbligandole a svilupparne artificialmente, e ipertroficamente,  talune altre?

Scrive ancora Arno Gruen (Op. cit., p. 22):

 

Il mito del potere e del dominio, come assoluta necessità, rinnega il dolore e l'impotenza che sono il fondamento di un legame di amore tra gli individui. Per esempio, se il bambino si accorge che gli adulti vanno in collera quando reagisce al dolore rinchiudendosi abbattuto in se stesso, mentre si inteneriscono se finge le lacrime, si instaura coi genitori un tipo di rapporto che consiste i un gioco di potere: il bambino impara a simulare il dolore per manipolare coloro che in realtà gli infliggono dolore.

In un'educazione di questo tipo la falsità e il disprezzo di sé e degli altri diventano atteggiamenti socialmente riconosciuti:  si impara a influenzare le aspettative, giocando con la speranza dell'altro. E ben presto si impara anche a sfruttare nel proprio interesse i dubbi che sono in agguato sotto le pretese autoritarie degli adulti. Una tale "realtà" dei rapporti interpersonali copre il sentimento distruttivo di vendicarsi contro l'amore agognato e mai ottenuto. Da qui lo sviluppo di una struttura di comportamento caratteristica degli psicopatici.

 

Gruen puntualizza di adoperare il termine "psicopatico" in una accezione un po' personale, ossia per indicare una forma esasperata di conformismo, a sua volta basato sulla sottomissione al mito maschile e, quindi, a una esagerata paura della debolezza e dell'impotenza.

L'autore aggiunge che la natura dello psicopatico, in questo senso ben preciso del termine, si trova rappresentata esclusivamente, oltre che nel libro The Mask of Sanity dello psichiatra americano Hervey Cleckley,  all'interno di opere letterarie, come nel personaggio dell'assassino Niels Heinrich Engelschall, nel romanzo Christian Wahnschaffe di Jakob Wassermann, e in una serie di personaggi delle opere di Joseph Conrad.

Ad essi vorremmo aggiungere, da parte nostra, il personaggio di Stephen Rojack, protagonista del romanzo di Norman Mailer Un sogno americano: ma, per la complessità e la ricchezza di spunti psicologici e filosofici che tale opera presenta, ci ripromettiamo di riprendere questo discorso un'altra volta, in una sede apposita.

Ciò che qui interessa è che tutti questi personaggi appaiono caratterizzati da una maschera convincente di salute mentale, dietro la quale su cela una totale ignoranza dei veri rapporti di amore e una carica di furore latente, sempre pronta ad esplodere, rivolgendosi indiscriminatamente contro ogni forma di vita. Si tratta, perciò, di esseri umani che, di umano, non hanno conservato praticamente nulla; di individui che, pur essendo capaci di dominare perfettamente tutta la tastiera dei sentimenti, al proprio interno non odono null'altro che il sordo ruggito di una parossistica volontà di distruzione.

 

Fra tutti i personaggi letterari che illustrano la personalità dello psicopatico, forgiata da una erronea educazione basata sul culto maschile della forza e dell'insensibilità, Arno Gruen concentra la sua attenzione su quello di Peer Gynt, il protagonista dell'omonimo, celeberrimo dramma dello scrittore norvegese Henrik Ibsen (1828-1906). Ma, per meglio comprendere il significato di questa affermazione, non sarà male ricapitolare brevemente la trama del Peer Gynt, una di quelle grandi opere della  letteratura di tutti i tempi di cui ciascuno, probabilmente, ha sentito parlare almeno una volta, ma che pochi, in realtà, sono andati a leggersi o hanno avuto la possibilità di vederla rappresentata in teatro.

In primo luogo, va detto che Ibsen, nel comporre questo notevolissimo dramma in cinque atti, nel 1867, non creò dal nulla il personaggio di Peer Gynt, ma si ispirò a una fiaba popolare norvegese. Il protagonista della vicenda è un giovanotto spaccone che affronta innumerevoli avventure, disprezzando le virtù della vita quotidiana e perseguendo unicamente una sorta di superomistica volontà di essere se stesso. Ciò lo conduce a  vivere in una dimensione ambigua, sospesa fra realtà e sogno, e a illudere se stesso e gli altri, ad eccezione di sua madre, Aase, l'unica persona al mondo che riesce a seguirlo lucidamente nel suo mondo di sfrenata fantasia. 

Scrive l'Enciclopedia Garzanti di Letteratura edizione 2003, vol. 2, p. 1.460:

 

Gli episodi salienti del dramma tracciano un quadro simbolo dell'esistenza di Peer Gynt: Peer che, adulto, gioca con la madre come un bambino; Peer che rapisce una ragazza Ingrid) alla vigilia delle nozze e l'abbandona subito; Peer che fugge dal villaggio natio e s'imbatte nella figlia del Vecchio di Dovre, il re dei troll o trold, gli spiriti delle foreste. La principessa vuole sposare Peer e lo porta nel mondo dei troll dove Peer, allettato dalla prospettiva di potere, onori e ricchezze, sta per accettare di divenire troll a sua volta. Ma ci ripensa e riesce a fuggire. Muore la madre tra le sue braccia e Peer inizia a vagabondare per tutta la terra, rifiutando anche l'amore sincero che gli offre la dolce Solveig. I suoi viaggi lo portano nei paesi più remoti; si cimenta nelle più diverse esperienze e incontra personaggi misteriosi (di evidente significato simbolico, come il "fonditore di bottoni", il moralista che lo condanna). Alla fine Peer ritorna in patria, ma è giunto all'ultima parte della sua vita. Il Vecchio di Dovre gli dice che ha vissuto da troll, non da essere umano. Ma Peer ha un rifugio: Solveig che, ormai vecchia, lo ama ancora e lo ha sempre atteso, fedele. Accanto a lei, che lo culla teneramente, e gli canta una dolcissima nenia, Peer muore sereno.

 

Questa, la trama dell'opera dalla quale Ibsen si attendeva, finalmente, l'attenzione e il rispetto dei suoi connazionali; ma dalla quale ricevette soltanto critiche pesantissime e una aperta ostilità. I bravi Norvegesi non accettavano il ritratto che di loro, attraverso la figura del leggendario Peer Gynt, il drammaturgo aveva fatto; non volevano identificarsi con quel giovinastro imprevedibile e sbruffone, inguaribile sognatore e scansafatiche a tutta prova. Ibsen, amareggiato, si chiuse per alcuni ani in un silenzio doloroso.

Il tempo, però, è stato galantuomo, e sempre di più il Peer Gynt ci appare come una delle sue cose più belle, se non addirittura (come pensava, ad esempio, Otto Weininger) come il suo autentico capolavoro. Perfino drammi di straordinaria modernità, come Hedda Gabler e Il costruttore Solness ci appaiono, al paragone, come più legati alla contingenza, proprio perché allora erano "moderni" e, via via che gli anni passano, cominciano a mostrare qualche ruga, come una signora ancora bella, ma non più giovanissima.

Il Peer Gynt, no. Se ne sta saldo come una roccia, perché è stato pensato, e, soprattutto, sentito, non in funzione della modernità o di qualunque altra contingenza, e sia pure importante; ma nella prospettiva della eterna nostalgia dell'uomo verso la pienezza della vita.

 

Se, tuttavia, passiamo dal piano dell'arte a quello della psicologia, ci è dato intravedere nel carattere e nelle azioni di Peer Gynt, spirito perennemente irrequieto e più complesso di quanto non lascino supporre le sue stravaganti "ragazzate", una profonda sofferenza interiore, frutto di una disarmonia del suo sviluppo infantile.

Osserva, dunque, il Gruen (Op. cit., pp. 22-23):

 

… Il Peer Gynt di Ibsen (…) a mio avviso illustra con straordinaria chiarezza la dinamica dello psicopatico. Questo dramma mostra la sottomissione di un figlio che ha sacrificato se stessa al mondo del marito e si serve del figlio per sostenere la propria autostima che minaccia di crollare. Evidente risulta anche il legame fra la distruttività del figlio e il suo odio contro la madre, cosa che a sua volta rafforza il mito come "realtà".

Ase, la madre di Per Gynt, ha interiorizzato così perfettamente l'ideologia della superiorità e del potere maschile, che la sua stessa lotta per l'autorealizzazione diventa un'immagine speculare del mito maschile. Si lamenta della propria vita e del marito, che affoga tutto nell'alcol, ma la soluzione consiste solo nel dimenticare il proprio dolore. Questo oblio è un tradimento di se stessa: «Perché il mio uomo, devi sapere, era un beone che, a forza di botte e di chiacchiere in giro per tutta la parrocchia, ha tradito e calpestato in un attimo il nostro benessere, e intanto io e il piccolo Peer sedevamo in casa. Non sapevamo altro rimedio che dimenticare». E subito dopo dice chiaramente che la menzogna è diventata la sua salvezza allucinatoria: «… certi si mettono a bere, altri si mettono a mentire… e così siamo ricorsi alle fiabe: di principi e gnomi e bestie feroci, e anche di spose e rapimenti». La sua vendetta nella fantasia la consuma non contro l'uomo, ma contro la donna, debole ai suoi occhi, aderendo a quel mondo di violenza maschile che ha soggiogato lei stessa. E per attrarre Peer nel suo mondo di fantasia gli permette tutto, ma lo umilia e l'ostacola ogni volta che cerca di cavarsela da solo. Già nella prima scena vediamo come lo rimprovera per una zuffa, ammirandolo nello stesso tempo.

E Peer Gynt? Nel dramma di Ibsen presenta i caratteri che sono propri di ogni psicopatico: prima di tutto, una profonda scissione fra l'apparente tenerezza e sollecitudine verso la madre e l'odio che nello stesso tempo nutre per lei. Ma questa scissione nello psicopatico non fa che rendere evidente ciò che è implicito nel mito maschile: il disprezzo della donna. A questo si accompagna il rifiuto di qualunque responsabilità del maschio per il suo comportamento che mira al dominio e al possesso.

La corsa al dominio e al possesso, infatti, può avvenire solo passando sopra al dolore e alla disperazione dell'altro - come del resto alla propria. La responsabilità implica un fare i conti con se stesso. Jacob Wassermann la mette in questi termini: «Penso precisamente che il bene e il male non si distinguono nel commercio degli individui fra loro, ma esclusivamente nel rapporto dell'individuo con se stesso». Quando si rifiuta la compassione, e l'empatia su cui essa si basa, non si ha più alcun contatto con la propria interiorità e quindi nessuno scrupolo.

Così Ibsen ci mostra un uomo che per tutta la vita va in cerca di un luogo dove esercitare il suo dominio, per scoprire alla fine che il suo vero regno, unico e solo, era proprio quello che aveva sprezzato: se stesso.

Se la figura di Peer Gynt non ci appare palesemente quella di un folle, è perché nel suo continuo tendere a qualcosa fuori di sé esprime i nostri stessi desideri di potere, possesso e dominio…

 

La tesi di Arno Gruen è chiara: solo l'empatia, e i sentimenti che da essa derivano, possono consentire al bambino, e in seguito all'adulto, di sviluppare la propria autonomia. Altrimenti, il fatto che la sfera dei sentimenti più profondi venga tagliata fuori, dà origine a un Sé demoniaco, che risponde unicamente al richiamo del possesso e del dominio. L'inconscio di simili individui somiglia a un crogiolo infernale di odio e sete di vendetta: odio contro se stessi, derivante dalla perdita dell'autonomia; ma, inevitabilmente, odio che si riversa pesantemente contro gli altri. Molti milioni di persone vivono così, nella nostra società; e la circostanza che si tratti di una situazione largamente diffusa ci fa velo alla semplice evidenza, che siamo in presenza di altrettanti casi di psicopatologia.

L'unico modo di sottrarsi alla spirale perversa dell'ideale maschile della forza e dell'invulnerabilità, con tutte le sue disastrose conseguenze, è quello di accettare la fragilità e la mortalità della condizione umana. Solo facendo i conti sino in fondo con l'idea della debolezza, della malattia e della morte, noi possiamo conquistare tutta la nostra umanità, e vivere da uomini in mezzo ad altri esseri umani.

Ora, l'idea della morte è appunto quella che maggiormente si cerca di evitare, nelle condizioni poste dalla società occidentale moderna, basata sui miti del possesso e del dominio. Eppure, quanto più le persone rifiutano di misurarsi con essa, tanto più allontanano da sé ogni possibilità di rasserenamento e di recupero del proprio equilibrio spirituale.

 

Ne abbiamo già parlato in varie occasioni, e specialmente negli articoli L'ultimo nemico ad essere sconfitto sarà la morte; La  vocazione   alla  vita  degli  esseri si  realizza  attraverso il  paradosso della  morte; e Riflessione sulla morte: prepararsi a un congedo sereno, senza rimpianti (tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).

Il paradosso è questo: siamo fatti per la vita, eppure la morte ci chiama. Ma in fondo, a ben guardare, si tratta di un paradosso meno stridente di quel che potrebbe sembrare. Tutti conosciamo l'adagio secondo cui non si apprezza veramente il valore di una cosa, se non quando la si è perduta, o, quantomeno, si rischia di perderla. Ciò vale per tutte le cose.

Tuttavia potremmo integrarlo con una ulteriore osservazione, e cioè che soltanto allorché noi siamo pronti a separarci con animo lieto da ogni cosa, per ciò stesso diveniamo degni di ritrovarla e di possederla per sempre.

Sören Kierkegaard ne era convinto. Fu tale convincimento, fra l'altro, a dargli la forza di rompere il fidanzamento con Regina Olsen, pur amandola con tutto se stesso; e a sostenerlo, lungo tutta la vita che gli rimaneva da vivere, nella fede incrollabile che, in qualche maniera misteriosa, ella gli sarebbe stata restituita. Apparentemente, i fatti concreti gli diedero torto: Regina sposò un altro, e i due non si videro più - almeno in questa vita. Ma siamo sicuri che la realtà profonda delle cose è riconducibile unicamente a ciò che i nostri sensi vedono, odono e toccano?

In un contesto un po' diverso, il filosofo esistenzialista cristiano Gabriel Marcel affermava una delle sue convinzioni più alte, dicendo che amare veramente qualcuno significa dirgli: «Tu non morirai». Si tratta di una affermazione molto forte, addirittura esplosiva; e, al tempo stesso, tale da apparire enigmatica, se non decisamente utopistica.

Che cosa mai significa, infatti, sostenere che l'amore salva la creatura umana dall'abisso della morte?

Marcel scrive, testualmente, che

 

Amare qualcuno significa dire: Tu non morrai'. (…) Non si afferma l'indistruttibilità dell'essere amato da un punto di vista noumenico: l'indistruttibilità riguarda un certo legame, non un oggetto. Possiamo formulare nel modo seguente l'assicurazione profetica di cui parlavo poco fa: quali siano i cambiamenti che ciò che io ho sotto gli occhi potrà subire, io e te resteremo insieme; l'avvenimento accidentale che può sopraggiungere non può rendere caduca la promessa d'eternità inclusa nel nostro amore…

 

Certo, qui si tratta di decidere se riteniamo la morte come un precipitare nel nulla, oppure come un passaggio di stato, una "crisi" e una modificazione del nostro essere, che non implica, però, automaticamente, la sua distruzione.

Se la morte è la fine di tutto, allora la sentenza di Marcel non è che una pia illusione.

Se, invece, crediamo che la vita non sia frutto del caso, ma di un progetto amorevole dell'Essere, che ci ha chiamati all'esistenza per uno scopo ben preciso, uno ad uno, allora è proprio l'amore la forza che può riscattare la vita dalla morte, realizzando l'eterna vocazione umana a una vita piena, gloriosa, totale. La morte, la morte definitiva, ci appare, allora, non come un dato ineluttabile, ma  come una possibilità: solo colui che non ha mai amato e non ha mai saputo farsi amare rischia di cadere nel nero abisso senza fine. Ma, per chi ha saputo fare della propria vita, almeno in parte, una offerta di amore, ecco che quell'amore si trasforma in grazia sovrabbondante e lo riscatta dalle catene della morte, così come un tempo si riscattavano, in moneta sonante, le persone cadute accidentalmente in schiavitù.

In questa prospettiva, infatti, la morte perde il suo carattere di tremenda fatalità e ci appare come un accidente, ossia come un evento non deciso dal fato, ma provocato dalla nostra insufficienza di amore. La morte, questa ladra che ci terrorizza con la sua costante minaccia, è penetrata nel giardino della vita a causa di una manchevole risposta degli esseri umani alla chiamata dell'amore; e, per la stessa ragione, non potrà che battere in ritirata, quando tale risposta diverrà piena e convinta, incondizionata e totale.

In questo senso dicevamo, poc'anzi, che la persona diventa degna di ritrovare ogni cosa, solo allorché si mette nella prospettiva di rinunciare serenamente a tutto; e - aggiungiamo ora - di rinunciare in primo luogo all'attaccamento alle cose, alla smania del controllo, del possesso e del dominio. Come disse una volta, il volto animato da un sorriso buono e luminoso, il filosofo Raimon Panikkar, nel corso di una pacata conversazione: «Perché, dunque, ti vuoi aggrappare alle cose, uomo? Lasciati andare; lasciati andare».