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Germania: un modello alternativo di gestione dei flussi migratori

di Gabriele Natalizia - 02/06/2008

Fonte: geopolitica







Il XVII rapporto della Caritas/Migrantes ha registrato circa 28 milioni di extracomunitari sul territorio della Ue a ventisette membri. Il dato andrebbe decisamente corretto al rialzo, fino a 50 milioni, se venissero inclusi quanti, nel frattempo, hanno acquisito il diritto di cittadinanza. L’incidenza degli immigrati ammonta al 5,6 per cento della popolazione complessiva, con variazioni notevoli: lo 0,5 per cento in Romania e Bulgaria, tra il 4 e l’8 per cento negli Stati dell’Unione a quindici. Contrasti simili vengono riproposti anche a livello intra-nazionale: nel Regno Unito oltre un terzo degli stranieri vive nell’area metropolitana di Londra; in Francia il 40 per cento degli stranieri risiede nell’area di Parigi; in Spagna circa la metà degli immigrati si concentra tra Madrid e la Catalogna. In Italia, al contrario, è più marcata la diffusione territoriale e solo un quinto degli immigrati si è insediata nelle province di Roma e Milano.

Se le mete tradizionali delle migrazioni internazionali registrano un flusso stabile o in lieve flessione, come in Germania, i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, come l’Italia e la Spagna, ne conoscono l’incremento. Le comunità più cospicue presenti in Gran Bretagna sono quelle provenienti dal subcontinente indiano (Pakistan, India e Bangladesh), che un tempo era stato il fiore all’occhiello dell’impero di Sua Maestà. In Francia e in Spagna i flussi migratori provengono, in buona parte, dall’Africa (Marocco, Algeria e Tunisia), quasi si trattasse di una sorta di eredità del rapporto coloniale che legava in passato il Maghreb ai due paesi. Madrid, inoltre, continua ad amministrare direttamente, ma con difficoltà sempre maggiori per i continui assalti subiti, l’arcipelago delle Canarie e le enclavi in territorio marocchino di Ceuta e Melilla. La Germania, infine, rappresenta la destinazione principale degli arrivi dalla ex-Jugoslavia, dai paesi dell’ex Patto di Varsavia e, storicamente, dalla Turchia. La Bundesrepublik ha recentemente censito 7,3 milioni di stranieri (tra cui 1,8 milioni di turchi e 560.000 jugoslavi) su 75 milioni di tedeschi, corrispondenti al 9% della popolazione complessiva.

STRANIERO vs. CITTADINO
I paesi europei meta di immigrazione hanno tentato di arginare gli arrivi indiscriminati per giungere ad una ricomposizione dei flussi. Le principali strade battute riguardano l’adozione di politiche restrittive, come quelle relative ai ricongiungimenti familiari, il controllo dei nuovi arrivi ed il contrasto dell’immigrazione clandestina, nonché incentivi all’integrazione ed intensificazione delle politiche di collaborazione con i paesi del sud del mondo (come il Partenariato euro-mediterraneo), per prevenire l’affluenza di maree umane intenzionate a correre qualsiasi rischio pur di lasciarsi alle spalle realtà di miseria estrema. Sotto il profilo culturale il fenomeno mette in crisi l’identità politica e collettiva che risponde a quesiti apparentemente semplici, ma dai risvolti molto profondi, come «chi siamo?» e «chi sono loro? ». «Cittadini» è la prima risposta, indicando un senso di appartenenza ad una particolare realtà territorialmente delimitata che comporta sia la serie di diritti fondamentali che gli europei hanno conseguito nel corso dei secoli nei confronti dello Stato, che quella dei loro obblighi reciproci. La seconda risposta è «non cittadini» o, più semplicemente, «stranieri». L’identità, quindi, appare costituita dal riconoscimento e, nel medesimo tempo, dal mancato riconoscimento e dal misconoscimento. La figura dello straniero appare, riprendendo Georg Simmel, definita dal suo rapporto con lo spazio: a differenza del viaggiatore, che oggi arriva e domani partirà, lo straniero è colui che oggi arriva e domani resterà. Questi elementi, quindi, immettono nel sistema di razionalizzazione delle fratture politiche e sociali tipiche della democrazia, un elemento potenzialmente disgregante. I governi dell’Europa occidentale hanno dovuto elaborare modelli specifici per affrontare quella che appare una delle sfide più complesse del terzo millennio. Il ruolo che ogni paese ha offerto all’immigrazione rappresenta una peculiarità dei processi di consolidamento e riaffermazione delle singole identità nazionali. Si passa dal multiculturalismo inglese all’assimilazionismo francese, per arrivare all’integrazionismo della minority policy olandese.

IL DIRITTO DEL SANGUE, OVVERO AFFERMAZIONE DELL’ETNOS
Caso del tutto particolare nel contesto europeo, dove la concessione della cittadinanza segue in via generale il principio romano dello ius soli (che lega il momento della nascita al “suolo”, ovvero al territorio amministrato dallo Stato) è costituito dal modello tedesco. In Germania prevale storicamente il principio etnico-tribale dello ius sanguinis fondato sull’elemento della discendenza o della filiazione. Per tale ragione le autorità di Berlino, fino allo scorso decennio, negavano ufficialmente l’esistenza del fenomeno dell’immigrazione, nonostante nella stessa capitale il quartiere di Kreuzeberg fosse stato da tempo ribattezzato la “piccola Istanbul”. In questa prospettiva si può parlare di due modelli antagonisti di cittadinanza che si sono imposti nei secoli in Francia e in Germania. La prima è caratterizzata dalla concezione di demos, ovvero l’insieme di individui compartecipanti alla vita politica della società, che si è sviluppato a partire dalla Rivoluzione del 1789. La seconda è stata connotata dal prevalere dell’idea di etnos, definito come unità organica pre-politica fondata sulla regola della discendenza che delinea l’identità differenziandola irrimediabilmente dalle altre. Ne derivano una concezione inclusiva nel caso francese ed una esclusiva in quello tedesco.

Ma questo assioma apparentemente semplice conosce alcune falle. Il primo modello può creare distanze orizzontali incolmabili, originate da differenze culturali che, se talvolta attribuiscono alla persona di origine straniera un certo prestigio sociale, più di frequente lo marchia con una sorta di lettera scarlatta relegandolo in un duplice ghetto tanto sociale quanto etnico. Il secondo, viceversa, ha determinato una pratica di veloce naturalizzazione in favore di milioni di tedeschi che, a causa dei riassetti territoriali seguiti alle due guerre mondiali, si sono trovati a risiedere al di fuori dei confini della madrepatria. Si tratta degli Spätaussiedler, gli oriundi tedeschi provenienti dall’Europa dell’Est. Dopo la conclusione della Guerra Fredda, ammontano a 2,9 milioni i rimpatriati dall’ex-Unione Sovietica e dai paesi del Patto di Varsavia, con un picco di arrivi (all’incirca 400.000) registrato nel 1990. Queste dinamiche affondano le loro radici in due diverse concezioni di nazione. La Francia ha elaborato il concetto di Stato-nazione fondato su una libera scelta e sull’affermazione rivoluzionaria della sovranità nazionale. Consolidatosi con la battaglia di Valmy del 1792 e la decapitazione di Luigi XVI del 1793, si incentra sull’omogeneità dell’apparato amministrativo pubblico e sulla staticità dei confini. La Germania, dal canto suo, ha prediletto l’immagine di Kulturnation, basata sulla comunità etnica, linguistica e culturale del popolo tedesco inteso come un’unità di destino che supera il concetto angusto di nazione per affermare quello di Heimat, concepito dal romanticismo del XIX secolo ed esasperato dalla frantumazione dell’impero guglielmino con il Trattato di Versailles del 1919.

Una modifica a questa tradizionale impostazione è stata apportata con una legge varata dalla coalizione di governo rosso-verde di Gerard Schroeder (ora rimpiazzata da quella di centro-destra di Angela Merkel) che, a partire dal 1 gennaio del 2000, ha introdotto nell’ordinamento tedesco alcuni elementi di “diritto del suolo”, per cui in presenza di determinate condizioni un bambino può acquisire la cittadinanza tedesca se nasce nella Repubblica Federale di Germania anche se entrambi i genitori sono cittadini stranieri. Questa normativa non stravolge, ma completa, quella del 1913: se il principio di territorialità è riuscito a sfondare il muro dell’ordinamento nazionale, altrettanto non è avvenuto per quello della doppia cittadinanza. Una nuova riforma, entrata in vigore il 1 gennaio 2008, impone ai giovani stranieri in possesso di doppio passaporto di optare per la naturalizzazione o per il mantenimento della propria provenienza originaria: la mancata risposta comporterebbe l’automatica perdita della cittadinanza tedesca con il ritiro del passaporto al compimento del ventitreesimo anno di età. L’opposizione alla doppia cittadinanza si fonda sull’idea che solo la rinuncia ad ogni altra identità nazionale possa rappresentare un genuino segno della professione di lealtà verso il paese, considerata condizione necessaria per l’integrità nazionale su cui si fonda la società.

IL LAVORATORE IMMIGRATO COME OSPITE
La popolazione straniera regolarmente residente in Germania, gli Ausländerbevölkerung, è composta da individui con status diversi. Da un lato figurano i rifugiati politici, che nel corso degli ultimi decenni si sono messi in salvo dall’instaurazione o dall’implosione dei regimi nella loro terra di origine. La quota dei rifugiati (Kontingentflüchtlinge) è formata dagli esuli arrivati negli anni Settanta dall’Indocina, negli anni Ottanta da Iran e Iraq e dal flusso ininterrotto proveniente dall’Europa sud-orientale iniziato con il processo di disintegrazione della ex-Jugoslavia dei primi anni Novanta. Dall’altro si trovano quei lavoratori a contratto (Werkvertragsarbeitnehmer) il cui ingresso, tra il 1955 e il 1973, veniva regolato da accordi bilaterali molto restrittivi incentrati sulla figura del Gastarbeiter, il lavoratore ospite, che riceveva un permesso di soggiorno temporaneo di durata variabile tra uno e cinque anni. Allo scadere di questo termine, qualora il permesso non fosse stato rinnovato, lo straniero era costretto a far ritorno al proprio paese, determinando un sistema di impiego a rotazione che non legittimava alcuna richiesta di diritti politici da parte degli immigrati. Tra gli Ausländer, inoltre, non bisogna dimenticare quella fetta cospicua di persone che raggiungono irregolarmente il paese come i clandestini e gli zingari, a cui non è mai stato concesso la status di asilanti, e i “profughi minorenni non accompagnati”, inviati dalle famiglie o immigrati per iniziativa autonoma.

In seguito ai numerosi ricongiungimenti familiari avvenuti, al “Programma di Azione per l’impiego di Manodopera immigrante” del 1973 ed alle leggi sugli stranieri del 1991 e del 2000, oggi il termine Gastarbeiter non risulta più idoneo a definire la condizione di individui che, divenuti residenti permanenti, non possono più essere considerati “ospiti”, anche se non sono cittadini a tutti gli effetti. Un ulteriore tentativo di allargare le maglie di un sistema di controllo degli ingressi divenuto troppo rigido per le richieste del mercato del lavoro, è stato introdotto con il doppio regime che distingue tra gli immigrati ad alta qualificazione e quelli destinati ad impieghi con basso capitale umano. La macchina produttiva tedesca non di rado conosceva una carenza di offerta per occupazioni con skill molto specializzati nel settore tecnologico: i primi potranno ottenere un permesso di soggiorno e di lavoro illimitato, mentre ai secondi spetterà un permesso a termine, rinnovabile in base all’andamento della congiuntura economica. Ciò nonostante il modello tedesco di gestione dell’immigrazione resta imperniato sul concetto di “esclusione differenziata”, che, garantendo agli stranieri la permanenza nel paese in quanto funzionali allo sviluppo dell’economia nazionale, nella sostanza conferisce loro diritti sociali ma non diritti politici. In futuro, per ottenere la cittadinanza, gli immigrati dovranno superare un test di lingua e seguire un corso di cultura tedesca e di educazione civica, che hanno come obiettivo principale quello di fornire conoscenze sui temi-chiave per una corretta integrazione: la democrazia, lo stato di diritto, la divisione dei poteri, la soluzione di conflitti nelle società occidentali. Al centro di questo schema figura la volontà di evitare la creazione e il consolidamento di comunità basate su “identità incorporate” che, secondo il sociologo statunitense Charles Tilly, hanno costituito in Europa un puntello utilizzato da quanti sognano di scardinare i sistemi democratici.

(maggio 2008)