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Aron, la bestia nera del Sessantotto

di Antonio Carioti - 02/06/2008

Contestò i contestatori. E Sartre lo definì «indegno di insegnare»

Demistificare e dissacrare sono di solito gli scopi che si propongono innovatori e rivoluzionari nei riguardi delle istituzioni antiche e venerande, difese dai conservatori. Ma a volte i ruoli s'invertono. Così, nell'estate del 1968, a prefiggersi di sloggiare dagli altari la contestazione studentesca parigina, che aveva celebrato i suoi fasti nel maggio precedente e ormai stava entrando nel mito, fu uno studioso moderato nelle idee come nei toni, Raymond Aron. Ne nacque un libro di vigorosa polemica, La rivoluzione introvabile, solo adesso finalmente tradotto dall'editore Rubbettino grazie al lodevole impegno dei curatori Alessandro Campi e Giulio De Ligio.
L'aspro giudizio di Aron sul Sessantotto lo tramutò nella bestia nera degli ambienti progressisti, che già non lo amavano per il modo in cui li aveva fustigati, tredici anni prima, nel libro L'oppio degli intellettuali (appena riedito in Italia da Lindau, pp. 427, e 24). A botta calda il filosofo Jean-Paul Sartre, suo ex compagno di studi, definì Aron «indegno di fare il professore», dipingendolo come un accademico tronfio e arrogante, portatore di un sapere fossilizzato. E il settimanale Le Nouvel Observateur lo additò come il simbolo di una «ragione fuorviante». In seguito, placatisi gli ardori iniziali, prese piede l'immagine del brillante sociologo di origine ebraica quale paladino dell'università tradizionale, sordo alle istanze di cambiamento degli studenti.
In realtà, sottolinea giustamente Campi nella presentazione del volume, si tratta di uno stereotipo infondato. Da sempre critico verso le istituzioni accademiche francesi, Aron ebbe anzi buon gioco nel punzecchiare i docenti refrattari alle sue precedenti proposte di riforma, che adesso lo avevano «superato spensieratamente» sull'onda della ribellione giovanile: «Ignoravo, lo ammetto, che tra i miei colleghi si nascondessero così tanti rivoluzionari». E qui si coglie anche il senso profondo della sua polemica, il cui bersaglio non erano soltanto i ragazzi convinti di poter rivoltare la società come un calzino, da lui bollati come «barbari inconsapevoli della propria barbarie», ma anche e soprattutto gli adulti che erano venuti meno al loro compito di freno e indirizzo, cedendo alle suggestioni di un «nichilismo da esteti».
In Aron era fortissimo il senso della responsabilità spettante allo studioso, che proprio per via dell'esperienza e delle conoscenze acquisite ha il dovere di farsi sentire quando dilagano le semplificazioni arbitrarie, le utopie a buon mercato e gli entusiasmi puerili, richiamando tutti all'esigenza di un sano realismo. Non sopportava il conformismo di chi asseconda la corrente: «Una volta ancora — notava sarcastico — intellettuali di indubbio prestigio si sono lasciati estasiare da testi adatti al massimo per le scuole elementari».
Un'altra preoccupazione ribadita più volte — nel dialogo di Aron con Alain Duhamel che costituisce la spina dorsale del libro — riguarda la fragilità dell'ordine liberale di fronte alle spinte populiste, soprattutto quando la classe dirigente ha la coscienza sporca e non sente l'orgoglio del proprio ruolo. Un fenomeno ben noto in Italia (si pensi al modo in cui un intero sistema politico crollò all'inizio degli anni Novanta) e che nella Francia dell'epoca era acuito dall'accentramento del potere nelle mani del generale Charles de Gaulle, che aveva dato una netta impronta personalistica al proprio stile di governo dopo la fondazione della Quinta Repubblica.
Fra le accuse rivolte ad Aron ci fu anche quella di essere salito sul carro del vincitore, dopo che la maestosa sfilata dei francesi moderati sugli Champs Elisées, il 30 maggio, e le elezioni tenute in giugno avevano segnato la rivincita del gollismo. Ma a parte il fatto che lo studioso liberale era uscito allo scoperto sin dal 15 maggio (con il primo degli articoli sul quotidiano Le Figaro poi inclusi nel volume), quando la situazione era ben diversa, nelle sue pagine non c'è traccia di un allineamento sulle posizioni del presidente. Al contrario, Aron ribadisce le sue critiche alla politica estera di de Gaulle, che considerava inutilmente ostile agli Stati Uniti e troppo compiacente verso Mosca; lo accusa di aver «rafforzato in modo considerevole i difetti strutturali della società francese», in particolare il deleterio centralismo burocratico; lo definisce senza mezzi termini «ignorante in economia», bocciando i suoi ambiziosi progetti di riforma come dannosi per le imprese; ne biasima la presunzione, ironizzando sulla sua «infinita saggezza», e lo scarso rispetto per i cittadini. Insomma, ai carri dei vincitori — fossero guidati da giovani ribelli scapigliati o da anziani statisti — Aron era inguaribilmente allergico. Preferiva procedere appiedato, con l'andatura serena di chi obbedisce soltanto al proprio spirito libero.