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L'Urss da Lenin in poi: una tirannia «asiatica»

di Ernesto Galli Della Loggia - 02/06/2008



È abbastanza raro per la storiografia italiana, e quindi da salutare con compiacimento, un libro come questo di Andrea Graziosi ( L'Urss di Lenin e Stalin. Storia dell'Unione Sovietica 1914-1945, Il Mulino); un libro che per la sua importanza merita dunque un discorso ulteriore più ampio di quelli che lo hanno riguardato finora. È uno di quei testi, fra l'altro, che per solito la nostra editoria è costretta a tradurre dall'inglese perché da noi non si scrivono: e cioè il racconto di un grande nodo di storia mondiale, di carattere divulgativo sì, ma, come si usa dire, di alta divulgazione e frutto, oltre che di una amplissima bibliografia, di ricerche di prima mano negli archivi.
Un libro godibile, tutto fatti, spesso ignoti anche al pubblico colto, e che tra i filoni d'indagine fa posto anche a dimensioni di solito trascurate, quali per esempio il rapporto tra i generi (la condizione femminile fu tra le prime vittime della rivoluzione), i quanto mai eloquenti andamenti demografici, l'intricato problema delle nazionalità. Il tutto sorretto da un robusto impianto interpretativo, al cui centro sta un'ipotesi certo non comune tra gli addetti ai lavori. L'ipotesi cioè che il regime comunista russo non sia stato in realtà un totalitarismo, come oggi quasi universalmente si dice, ma piuttosto un caso particolarmente brutale di «dispotismo asiatico» (viene in mente la celebre definizione buchariniana di Stalin come «un Gengis khan col telefono »), dunque non un a suo modo modernissimo regime di massa, ma assai più un «ancien régime di tipo nuovo», un regime dove, per dirne solo una, che però serve a far capire di che si trattava, in tutto il periodo considerato la regola fu sempre quella di tenere la popolazione all'oscuro dei provvedimenti adottati dal potere.
Una delle conclusioni apparentemente sorprendenti a cui ci costringe la lettura delle pagine di Graziosi è che è difficile trovare negli ultimi due secoli un regime che abbia attuato una criminalizzazione altrettanto sistematica della classe operaia e dei contadini come quella messa in opera dal bolscevismo in Russia. Sapevamo già, naturalmente, della repressione politica, delle stragi di massa durante la collettivizzazione delle campagne, della carestia artificiale in Ucraina, ma ignoravamo per esempio che negli anni Trenta fu di fatto cancellata qualunque legislazione sul lavoro come qualunque presenza sindacale; che l'«emulazione socialista» prevedeva un inferno di 12 ore di lavoro quotidiano con nessun riposo festivo; che in un anno-tipo come il 1929-30 i licenziamenti per assenteismo potevano arrivare a colpire il 30 per cento (il 30 per cento!) della forza lavoro occupata. Né conoscevamo, per fare un altro esempio, quali fossero (ovviamente per le classi popolari, non di certo per la nomenklatura) le terrificanti condizioni abitative a Mosca circa vent'anni dopo l'Ottobre: con il 40 per cento degli inquilini che risiedeva in una sola stanza, il 23,6 in «parte di una stanza», il 5 per cento in una cucina o in un corridoio, e la bellezza del 25 per cento in dormitori (in dormitori!).
Era questo uno dei tanti esiti paradossali di una «rivoluzione proletaria» destinata in realtà a segnare la catastrofe non solo della grande tradizione rivoluzionaria russa, ma dello stesso movimento operaio di quel Paese (non a caso tuttora inesistente), e più ancora delle radici contadine dell'una e dell'altro.
L'idea di trapiantare un'ideologia industrialista- statalista, com'era quella che animava fanaticamente Lenin e il gruppo dirigente bolscevico, entro una società per tre quarti formata di contadini unicamente desiderosi di diventare proprietari ebbe fin dall'inizio conseguenze devastanti. Ciò che infatti mostra questo libro è che, contrariamente ad una leggenda ancora oggi dura a morire, un'età d'oro della Rivoluzione e del Comunismo in Russia in realtà non vi fu mai. Così come fin dalle prime settimane, infatti, il nuovo regime diede il via ad una dura repressione poliziesca contro qualunque genere d'oppositori, allo stesso modo esso prese a colpire le campagne. Sta qui il punto centrale dell'impianto interpretativo di Graziosi. Egli vede tutto il primo ventennio della storia sovietica dominato da una vera e propria guerra mossa dallo Stato contro i contadini: una lotta tanto più crudele in quanto dominata dall'impossibilità di un compromesso. A parte ogni pregiudizio ideologico, infatti, per i bolscevichi consentire al desiderio contadino di proprietà della terra avrebbe voluto dire né più né meno che rinunciare di fatto a stabilire nelle campagne una qualunque rete capillare di controllo politico-sociale da parte dello Stato- partito. Non solo: lasciare le campagne nelle mani di milioni di piccoli-medi proprietari (oltre tutto padroni del sostentamento delle città) sarebbe equivalso altresì alla necessità di continuare a far esistere il mercato, e quindi la moneta, cioè esattamente le due cose nell'abolizione delle quali i bolscevichi pensavano che dovesse consistere il comunismo.
Da qui l'impeto barbarico con il quale i bolscevichi si avventarono sulle campagne fin dal 1918: dapprima allo scopo di farsi consegnare a viva forza il grano, in seguito per imporvi il proprio assoluto dominio culminante alla metà degli anni Trenta nella definitiva collettivizzazione della terra. Lenin — il «buon» Lenin, non il «cattivo» Stalin del sempre evocato «stalinismo » da parte di quelli che vogliono salvare l'onore del comunismo non pronunciandone il nome — Lenin, dicevo, non arretrò di fonte a nulla: reparti «di sterminio» (sì, si chiamavano così, senza falsi pudori), deportazioni e impiccagioni in massa, incendi di villaggi, torture di massa, fucilazioni di ostaggi fino alla misura di cinquanta a uno, bombardamenti aerei pure con l'uso di gas asfissianti, addirittura il ritorno alle fustigazioni in massa, una delle più odiose pratiche repressive dello zarismo. Giustamente Graziosi, che in queste pagine come in tutto il libro si basa esclusivamente su dati ufficiali o su documenti d'archivio, parla di «sfruttamento genocidiario » dei contadini, riportati di fatto alla condizione di servi della gleba (non a caso saranno sottoposti pure all'obbligo delle corvée),
e invano protagonisti, nel solo primo semestre del 1932, di ben milleseicento insurrezioni nelle campagne.
Fu su questa pratica collaudata di violenza «sterminazionista» leniniana, replicata già a suo tempo da sanguinose operazioni repressivo- militari di tipo coloniale nel Caucaso e in Asia centrale, che Stalin innestò poi quello che l'autore chiama un «terrore categoriale e preventivo». Il risultato stupefacente fu, alla fine, uno Stato edificato «contro» la propria società, «contro» il proprio popolo, e dunque fisiologicamente incapace di fare a meno di quello che una volta un contadino, rivolgendosi a Kalinin, osò definire «il partito revolver ». Un partito che già durante la rivoluzione aveva cominciato ad attingere per i suoi quadri all'ampio serbatoio plebeo-criminale prodotto dalla disgregazione sociale circostante, e che via via conobbe perciò una profonda trasformazione antropologica dei propri gruppi dirigenti, nei quali da un certo punto in avanti l'alcolismo, la brutalità, il cinismo, la corruzione e il più violento maschilismo divennero la regola. Fino al vertice simbolico difficilmente eguagliabile della replica di Pjatakov, alla fine degli anni Venti capo della banca di Stato, il quale a coloro che alla sua proposta di vendere per fare cassa i quadri dei musei russi — e per primo lo «schifoso Botticelli» — obiettavano che così si precipitava nella barbarie, non esitò a rispondere: «Ma io sono per la barbarie!».
L'analisi
Questo libro smentisce una leggenda ancora oggi dura a morire: a Mosca non ci fu mai un'età d'oro della Rivoluzione e del Comunismo L'opera
Il libro di Andrea Graziosi «L'Urss di Lenin e Stalin» (Il Mulino, pp. 630, e
30) è il primo di due volumi sulla storia dell'Urss. Il secondo, che arriva fino al 1991, uscirà in settembre