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Tutti fascisti: pure Mao, Lenin e Stalin

di Stenio Solinas - 02/06/2008

Questa storia di quello che è di sinistra, ma siccome è violento allora è «un fascista che si ignora», fa un po’ ridere e però fa anche riflettere. È la sorte che attende quelli che trasformano il loro credere ideologico nello stereotipo che più li appaga, e caricano il credo avverso di una negatività senza rimedio. Contenti loro, viene da dire... Certo è che si accontentano di poco.
Intervistato dal Corriere della sera, il professor Luciano Canfora, di cui comunque noi restiamo allievi deferenti qualsiasi cosa dica, afferma che «chi usa spranghe per farsi giustizia è politicamente un violento e il suo cuore batte sicuramente a destra, nonostante dichiari il contrario». La tesi è bislacca e Canfora, quando avrà smaltito il fastidio del dover esternare fra un papiro di Artemidoro e una tiella di patate riso e cozze converrà con noi. Da quando la violenza è tout court di destra? C’è una scala di valori per cui se si usa la spranga ci si situa in un certo ambito e se si spara alla nuca come ai tempi della Lubianka in un altro? La Rivoluzione francese, nelle figure di Marat, Saint-Just, Robespierre, è bassa macelleria che ignora la sua anima destrorsa, oppure ci si deve rassegnare all’idea che quando si mette di mezzo la passione politica persone per bene, intelligenti, di solito ragionevoli, perdono la testa? Senza bisogno di ghigliottina, oltretutto.
C’è anche chi, in maniera più o meno corriva, nei giorni scorsi ha stabilito l’equazione, se non altro storicamente più limitata, che equipara il fascismo alla violenza in quanto tale, e anche qui bisogna mettersi d’accordo. Il fascismo, si sa, è una creazione, anche lessicale, del Novecento. Ora, nei milleottocento anni dopo Cristo che all’incirca ci separano da questa realtà storica, politica, ideologica, e senza voler parlare dell’epoca pre-cristiana, che poi vuol dire Roma, Atene, gli imperi, il concetto di demos, come saranno riusciti quei poveri disgraziati di pensatori, filosofi, politici, storici, a raccontare il loro tempo senza dare all’avversario di turno l’epiteto prêt-à-porter, senza il quale noi invece non riusciamo a pensare? Come si definiva, insomma un violento, uno che faceva un uso, passionale e/o scientifico, della forza, in un’epoca in cui il fascismo era ancora in mente Dei? E se ogni atto violento è, propter hoc, da noi contemporanei derubricato con sdegno, e quindi, per tornare ai tempi nostri, è fascista Mao, come lo era Lenin, e naturalmente Stalin, non sarebbe ora di tornare a ragionare in termini di dottrine politiche e lasciare stare queste chiacchiere da bar, nel migliore dei casi, da ahimè prestigiose cattedre universitarie e direzioni di giornali nei peggiori? Va da sé che la violenza come levatrice della storia è farina di Marx, è pane quotidiano di Croce, fascisti anche loro, magari fascisti per caso...
Al di là di queste stupidaggini, che fanno il paio con chi all’università di Roma, in nome della libertà di pensiero e della democrazia giudica un affronto, da respingere con democratica, naturalmente, violenza, chi pensandola in modo diverso voglia perciò esprimere la propria opinione, nella vicenda romana del Pigneto c’è un elemento che chi a sinistra ancora crede che destra e sinistra abbiano un senso, dovrebbe valutare con attenzione. Questo elemento non riguarda tanto il fatto che il protagonista del raid assurto agli onori delle cronache si consideri, appunto, di sinistra mentre gli intellettuali della sua parte lo ricacciano fra gli appestati della destra, quanto nel fatto che delinquenza, racket, prostituzione, violenza metropolitana, immigrazione non controllata, paura, raccontano una realtà nella quale la dicotomia di un passato puramente ideologico non basta più. Da vent’anni almeno a questa parte, c’è in Occidente un travaso elettorale di voti che vede i ceti più deboli, operai, artigiani, piccola borghesia, passare da quelli che erano un tempo i tradizionali partiti di massa socialisti e comunisti che li rappresentavano, a formazioni, vecchie e nuove, che di sinistra non sono, ma che sul loro fatto di essere ipso facto
di destra occorrerebbe interrogarsi. Qualsiasi realtà populista in Europa, la Lega è da noi una di queste, racconta uno spostamento progressivo del consenso in cui è la politica quotidiana, ovvero la vita, a gestire le scelte.
Chiusa nella sua torre d’avorio intellettuale fatta, non sempre, di buoni libri e di buon gusto, di certo di un tenore di vita che le permette di non sapere che cosa sia una periferia, un campo nomadi, un lavoro precario, la paura di perdere il posto, la sinistra italiana continua pervicacemente a ritrarre un Paese che non esiste più, scollegato dalla realtà. Avrebbe forse, un senso, se si trattasse di una sorta di aristocrazia dei migliori, anche se, francamente, fa ridere l’idea di una forza popolare e di massa che si riscopre antidemocratica, reazionaria, anti-egualitaria, ma sta di fatto che non è nemmeno così e più semplicemente siamo all’eutanasia di un pensiero. Ciò che rimane è, purtroppo, lo stereotipo. E per chi proviene da una filosofia che il mondo sognava di cambiarlo, è troppo poco.