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Decrescita e potere

di Michele Orsini - 02/06/2008

 

 

Il modello di sviluppo liberista è un’ideologia, anzi una vera e propria utopia, poiché si basa su convinzioni irrazionalmente ottimistiche. Per quest’ideologia si può indicare una data di nascita precisa, il 20 gennaio 1949, quando nel discorso inaugurale di fronte al Congresso degli Stati Uniti, il presidente Truman affermava “una maggior produzione è la chiave della prosperità e della pace”.

Quest’idea segnava la via che tutti i paesi del mondo avrebbero dovuto, volenti o nolenti, seguire da quel momento in poi: i modi di vivere altri rispetto allo sviluppo, ovvero all’american way of life, diventavano sottosviluppati e, quindi, andavano eliminati.

Gli Stati Uniti poterono così mascherare i loro interessi come generosità, promettendo una politica capace d’aumentare il tenore di vita delle popolazioni dei paesi sottosviluppati, mentre il loro vero interesse era trovare nuovi mercati ed espandere o rafforzare la loro influenza in zone sempre più vaste del globo: il colonialismo lasciava così posto al ben peggiore neocolonialismo.

Lo sviluppo è un dogma irrazionale e falso, poiché rifiuta di tener conto dei problemi dell’esaurimento delle materie prime e dei rischi ecologici intrinseci al modello: i suoi profeti hanno sempre tentato di ridicolizzare come cassandre coloro che lanciavano allarmi oppure, in tempi recenti, hanno affermato che tutte le soluzioni verranno dall’innovazione tecnologica. Tra questi profeti un altro presidente degli Stati Uniti, George W. Bush che il 14 febbraio 2002, davanti all’Amministrazione americana della meteorologia, ha dichiarato che “la crescita è la chiave del progresso dell’ambiente, poiché fornisce le risorse che permettono di investire nelle tecnologie pulite; rappresenta la soluzione e non il problema”. Quello che qui non si dice è che la ricerca scientifica può produrre tutte le eco-tecnologie possibili ed immaginabili, ma per la salvaguardia dell’ambiente ciò che serve è che il loro utilizzo venga implementato da precise scelte politiche: lasciar fare al mercato non serve a nulla, perché una tecnologia inquinante, ma che abbatte i costi, verrà sempre preferita.

La stessa amministrazione Bush ha già ampiamente dimostrato, del resto, di non essere disponibile alle scelte politiche necessarie allo scopo.

La forza della teoria dello sviluppo economico sta nel fatto che la sua applicazione ha effettivamente permesso di creare, in Occidente, una ricchezza che poi è stata, in un primo periodo, ridistribuita, assicurando un certo benessere ad ampi strati della popolazione. Il prezzo pagato è stato però altissimo da un punto di vista non solo ecologico, ma anche morale, poiché l’arricchimento occidentale è stato ottenuto sfruttando quanto più che si è potuto il resto del pianeta.

Il prezzo pagato concerne, inoltre, la distruzione delle culture mediante la globalizzazione o, più precisamente, l’americanizzazione.

Il benessere, pagato così a caro prezzo, ora sta finendo e forse si potrà, finalmente, metterne davvero in dubbio i presupposti ideologici dello sviluppo che l’ha reso possibile. Farlo prima, mettendone in dubbio l’eticità, piuttosto che l’efficacia, sarebbe stato più onorevole, ma tant’è.

Tra i più feroci critici dello sviluppo, che definisce “l’occidentalizzazione del mondo, la guerra economica e la depredazione della natura”, l’antropologo francese Serge Latouche, conosciuto come il “profeta” della decrescita. Questo tipo di fama ha portato a un sistematico fraintendimento del suo pensiero, quando per Latouche la parola decrescita è soltanto “uno slogan che raccoglie gruppi e individui che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo e interessati a individuare gli elementi di un progetto alternativo”.

L’idea di decrescita è stata spesso criticata come reazionaria, passatista, mentre Latouche dichiara che lo scopo è costruire una società che mantenga veramente quelle promesse di autonomia ed emancipazione che furono dell’Illuminismo: i suoi riferimenti al passato vogliono essere degli spunti, non anacronistiche proposte. Lo stesso si può dire per i suoi riferimenti a organizzazioni economiche attualmente esistenti in Africa, che spesso gli sono valse accuse di “terzomondismo”.

Altre critiche si rivelano poco più che mere dispute nominalistiche sul significato di parole come sviluppo, progresso o crescita.

Il limite dell’opera complessiva di Latouche è piuttosto quello individuato dal suo connazionale Alain de Benoist in Comunità e Decrescita, cioè la sottovalutazione della dimensione del potere: difatti se l’analisi critica dell’esistente è precisa, se l’obiettivo, per chi ha la pazienza di leggere attentamente i suoi libri, è chiaro, manca invece l’indicazione dell’agente del cambiamento auspicato nonché dei metodi da utilizzare per ottenerlo. Quali le ragioni di omissioni così evidenti? Forse una sensazione di impotenza, il timore che la persuasione democratica possa rivelarsi inefficace?

 

 

Pubblicato su: Opposta Direzione - Numero 6 (seconda edizione) - maggio 2008