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L'amore di carità ispirato dalla Grazia è il fulcro della nostra vita soprannaturale

di Francesco Lamendola - 02/06/2008

Ci sembra che esista un autentico abuso, sia nel linguaggio comune, sia - spesso - anche nella saggistica filosofica, dell'espressione "Io". Si dice: «Io ho fame»; «Io ho visto un bel giardino»; «Io ti amo» Ma chi è quell'Io che afferma di aver fame, di aver visto un determinato oggetto, di amare una certa persona: è sempre lo stesso Io?

E quale grado di fiducia dobbiamo accordare alle sue affermazioni?

Per quanto riguarda la seconda domanda, ce ne siamo occupati nel precedente saggio L'eterna lotta fra impulso di morte e capacità di amare nella riflessione di Gabriel Marcel (consultabile sul sito di Arianna Editrice), in cui, sulle orme del filosofo francese, abbiamo constatato che esiste un Io anteriore al "me", ossia anteriore alla dualità di soggetto pensante e di oggetto pensato. Di conseguenza, ci siamo resi conto che l'essere si rivela alla coscienza ben prima che essa, mediante l'autocoscienza, produca una distinzione di soggetto e oggetto; e che il pensiero partecipa dell'essere in una unità originaria che è misteriosa, in quanto non oggettivabile e non verificabile. E ciò avviene per la buona ragione che la riflessione non può avere per oggetto l'essere, dato che essa è interna all'essere. Pertanto, l'essere ha un primato nei confronti del conoscere, perché è l'essere che si afferma in me, ben prima che io affermi l'essere.

Ne abbiamo concluso che noi non dovremmo dire: «Io ho fame»; «Io ho visto un bel giardino»; «Io ti amo»; perché noi partecipiamo all'essere, ma non lo possediamo affatto.

Giustamente Marcel, a questo proposito, osserva che (Ernesto Balducci, Storia del pensiero umano (Edizioni Cremonese, 1986, vol. 3, pp. 295-296):

 

…La sfera dell'oggettivo è la sfera dell'avere, che si contrappone a quella dell'essere. La ragione problematica  è omogenea al mondo delle cose: perché io possa avere una cosa, essa deve stare dinanzi a me, esistere indipendentemente da me. Questa reificazione può investire anche la mia interiorità, come quando dico che io ho una sofferenza, ho un desiderio: allora io scindo dal mio essere un suo momento particolare e lo tratto come oggetto.

Lo scivolamento dall'autenticità dell'essere alla inautenticità dell'avere accade alle radici stesse del processo conoscitivo, là dove la sensazione si inscrive nel sentimento della mia corporeità. Infatti, prima di essere un effetto in me prodotto da uno stimolo esterno, la sensazione è il puro fatto del sentire, al di là di tutte le possibili determinazioni. Il sentire puro è il mistero della mia partecipazione  a un universo che, impressionandomi, mi crea.  Ecco perché il dato centrale della metafisica è, per Marcel, il sentimento del mio corpo, l'incarnazione. Quando dico che io ho un corpo, mi sono già posto fuori dell'asse ontologico: la verità prima è che io sono il mio corpo, o meglio, io sono in quanto incarnato in questo corpo.(…)

Tra il mio corpo e me non c'è dunque né separazione né fusione e nemmeno relazione, c'è partecipazione: l'esistenzialità è la partecipazione, in quanto essa non è oggettivabile. Nel momento in cui il mio corpo è considerato come oggetto di scienza, io esulo infinitamente da esso.

Quello che si è detto del corpo, vale per l'universo intero. Come il mio corpo, nemmeno l'universo può diventare un oggetto per me, né io posso comprendere, per via di ragione, quale sia il legame che mi unisce ad esso. (…)

 

Perciò, ci sembra che sarebbe più giusto adoperare espressioni come le seguenti: «L'essere, che è in me e a cui partecipo, fa l'esperienza della fame»; «L'essere che è in me, e a cui partecipo, fa l'esperienza di  un bel giardino»; «L'essere che è in me, e a cui partecipo, fa l'esperienza di amarti»; e così via.

Non si tratta - si badi - di pignoleria filologica o di astratta velleità intellettualistica; al contrario: si tratta di compiere un atto di umiltà e di lealtà, di riconoscere che noi partecipiamo all'essere, ma non lo possediamo né, meno ancora, siamo l'essere. Questo dovrebbe renderci più pazienti nelle piccole e grandi avversità della vita (non sono Io ad avere un forte dolore di testa, ma l'essere che è in me ne fa l'esperienza); e, al tempo stesso, più modesti e capaci di senso della misura, nei momenti felici (non sono Io ad aver riportato questo o quel successo, ad aver conquistato quel traguardo, ma l'essere che è in me e a cui partecipo).

Questo, per quanto riguarda la seconda domanda che ci eravamo posta, ossia quale grado di fiducia dobbiamo accordare alle affermazioni dell'Io che dice di avere (cioè di possedere) questa o quella sensazione, questa o quella percezione, questo o quel sentimento.

Per quanto riguarda, invece, la prima domanda, ossia se quell'Io che afferma di aver fame, di aver visto un determinato oggetto, di amare una certa persona, sia sempre lo stesso Io, e chi egli sia in definitiva, tenteremo di rispondervi adesso.

 

L'uomo comune - e, spesso, anche il filosofo (almeno di questi tempi…) tende a parlare dell'Io individuale, e a pensarlo - se pure vi pensa - come se fosse scontato che egli costituisce una unità indifferenziata; ma scontato non lo è affatto.

Molto ha contribuito, a ciò, il sofisma del cogito cartesiano. Tuttavia abbiamo visto che l'Io, quando dice: «Io penso», pone un "me" quale oggetto del mio pensare, che si giustifica bensì sul piano della razionalità astratta, ma non sul piano dell'esperienza intuitiva. Intuitivamente, ciascuno di noi sa benissimo che c'è un Io anteriore al "me", ossia anteriore alla dualità di soggetto pensante e di oggetto pensato dal soggetto. È impossibile, quindi, che l'Io si ponga di fronte alle proprie operazioni mentali, come se queste fossero distinte da lui: l'essere, infatti, si rivela alla coscienza ben prima che essa, mediante la riflessione su se stessa, produca una distinzione di soggetto e oggetto.

Dunque, l'Io individuale non può essere pensato separatamente dalle proprie operazioni: dal fatto di sentire, di percepire, di provare sentimenti, ecc.; e nemmeno può essere pensato come una unità indifferenziata, dato che a funzioni diverse devono presiedere, di necessità, livelli di coscienza diversi. L'Io non avverte le sensazioni con la mente, né i pensieri con il corpo fisico: questo è certo. D'altra parte, è quasi superfluo precisare che stiamo parlando per semplificazioni; perché, nella vita concreta della coscienza, le diverse funzioni sono sempre correlate, e non si dà una separazione radicale e assoluta fra esse.

Esistono, dunque, piani o livelli di coscienza diversi: come una casa che, pur essendo una, si organizza su differenti piani: seminterrato, piano terra, primo piano, secondo piano, solaio. È chiaro che essi possono, anzi, devono, comunicare tra loro, affinché l'inquilino della casa possa muoversi liberamente al suo interno. Se vivesse perennemente al livello del seminterrato, sarebbe un recluso (e molte persone, in effetti, vivono così la propria vita…); ma, anche da recluso, non potrebbe fare a meno di provare caldo o freddo, a seconda che il riscaldamento funzioni, oppure no; di sentire silenzio o rumore, a seconda che, ai piani superiori, vi sia attività o non ve ne sia. Inoltre, non potrebbe ricevere l'acqua dal rubinetto, se vi fosse un guasto nelle tubature ai piani superiori; né ottenere l'illuminazione, se l'impianto elettrico fosse stato danneggiato; e così via.

Quali sono, dunque, i principali livelli della coscienza, attorno ai quali si organizza la struttura dinamica della nostra personalità?

Ci sembra che il modello elaborato dalla teoria psico-dinamica, così come è stata formulata da  eminenti studiosi quali il Lersch, il Thomae, il Mounier, e arricchito da aspetti delle teorie di Jung (specie per quanto riguarda l'integrazione del Sé), Fromm e  Minkowski, offra l'immagine che possiamo considerare più soddisfacente, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze. Tuttavia, ci prendiamo la libertà di apportare a quel modello una modifica, estendendo alla coscienza, e all'Io medesimo, quanto esso riferisce solo alla struttura della personalità.

In base a tale schema o modello, noi dobbiamo immaginarci la vita della coscienza (riprendendo la similitudine della casa) come un edificio a quattro piani, certo comunicanti fra loro, ma destinati ciascuno ad una funzione specifica, e caratterizzati da un grado notevole di "addestramento" nei confronti di essa.

I teosofi e gli antroposofi non parlano di livelli, ma di "corpi"; e ne postulano sette e non quattro. Noi, però, restiamo fedeli alla logica del "rasoio di Ockham" e pensiamo che non si debba moltiplicare il numero degli enti senza che ne sia una autentica necessità: anche nell'ambito di ciò che è complesso, l'essere non esprime ridondanza, ma essenzialità. E quanto alla terminologia, perché dare adito a possibili equivoci, parlando di "corpi", come se fossero strati successivi, quasi rivestimenti che avvolgono l'Io uno sopra l'altro, quando invece si tratta di ambiti distinti ed autonomi, benché correlati, di un'unica realtà?

È possibile spingersi ancora oltre, imboccando la strada opposta; e, invece di moltiplicare a piacere le varie sfere dell'Io, si può sostenere che un Io non esiste affatto. In suo luogo, è possibile ipotizzare o l'esistenza di un complesso di operazioni mentali sempre cangianti, oppure una quantità di piccoli 'io' temporanei, sempre in lotta tra loro per la supremazia e, sovente, gli uni all'oscuro di quanto pensano e fanno gli altri. La prima posizione è quella di alcune correnti filosofiche del buddhismo Theravada; la seconda, quella del pensatore e occultista Georges Ivanovic Gurdjieff. Ci siamo già occupati di entrambe le posizioni in apposita sede (cfr. F. Lamendola, Esiste l'anima dell'uomo nella filosofia buddhista?; e L'uomo, secondo Gurdjieff, è una pluralità, e il suo nome è legione, sul sito di Arianna Editrice); per cui non ci dilungheremo su di esse, rimandando il lettore a quei precedenti lavori.

 

Dunque, il primo piano o livello - quello inferiore - corrisponde alla sfera della vita vegetativa ed istintiva dell'individuo. Ciò non significa che si esaurisca nelle funzioni del corpo, poiché, anche se è caratterizzato dai sistemi parziali dell'organismo (a partire dai cinque sensi), esso contribuisce, nella formazione della personalità, alla sfera dell'istinto, del temperamento e dell'umore. E sappiamo quanto l'istinto, il temperamento e l'umore tendano a predominare nelle personalità meno evolute, ad es. in quella del bambino. L'espressione: «ho fame», che andrebbe corretta con quella: «l'essere,  che è in me, fa l'esperienza della fame», giace su questo piano di coscienza.

Il secondo livello corrisponde alla sfera della vita psichica e abbraccia il mondo empirico delle cose e delle persone. Le sue funzioni essenziali sono la percezione  e il necessario adattamento dell'Io al mondo esterno. Mano a mano che il bambino, crescendo, allarga l'ambito del mondo esterno di cui fa esperienza, la sua vita psichica si affina e si arricchisce; e, contemporaneamente, si trasforma sotto la continua azione di rimodellamento che opera su di sé. L'espressione, sbrigativa, «Io ho visto un bel giardino», giace su questo piano della coscienza.

Il terzo livello corrisponde alla sfera della vita mentale e abbraccia il mondo dei valori, delle idee e dei concetti. Le sue funzioni sono la ragione e i sentimenti superiori. Molti psicologi di tendenza materialistica desiderano tenere ben separata la sfera della ragione da quella dei sentimenti, ovviamente ponendo la prima al di sopra della seconda. Ma, se si guarda bene alla sfera dei sentimenti, è facile accorgersi che essa non può essere considerata in maniera unitaria; che occorre distinguere i sentimenti inferiori, poco più elaborati degli istinti o della semplice percezione, da quelli superiori, che denotano un alto grado di evoluzione della coscienza (e questo è uno dei pochi ambiti in cui l'uso del concetto di "evoluzione", così come quello di "sviluppo", ci sembra perfettamente legittimo). Di conseguenza, bisognerà convenire che esiste una maggiore affinità tra le operazioni della ragione ed i sentimenti superiori, che non fra questi ultimi e gli istinti o le percezioni. E ciò giustifica il fatto di "situare", nella nostra mappa immaginaria, la sfera dei sentimenti superiori e quella della ragione su di un unico livello della coscienza. L'espressione, invero approssimativa, «Io ti amo», appartiene al terzo livello.

 

Arrivati a questo punto, la maggior parte degli studiosi della personalità si fermano e ritengono di aver descritto l'ultimo piano dell'edificio, ossia quello più alto.

Noi crediamo che questo sia un grave errore; e che molte delle situazioni negative in cui l'Io viene a trovarsi, sia rispetto a sé stesso che rispetto al mondo, siano la conseguenza di una visione limitata e distorta della persona umana, che da tale errore deriva.

Che cosa manca, dunque, per completare lo schema dell'Io e della vita coscienziale che ne deriva? A nostro parere, manca l'ultimo livello dell'edificio, che si colloca su di un piano soprannaturale e che, per ciò stesso, tende ad essere ignorato dai filosofi e dagli psicologi di formazione materialista e immanentista. Dal momento che la vita soprannaturale della coscienza è il risultato di una forza superiore all'umana, che i cristiani chiamano Grazia, per gli studiosi che si pongono in una prospettiva atea od agnostica, di essa non esiste alcuna prova evidente e si rifiutano di ammetterne l'esistenza, e sia pure come semplice ipotesi di lavoro. Non si vede, dunque non c'è: questo è il loro credo il quale, come appare evidente, testimonia il perdurare di una mentalità rozzamente positivistica che, giunta al culmine verso la fine del XIX secolo, non si è affatto attenuata nella sua essenza, benché taluni suoi esponenti, per opportunità o per temperamento, tendano oggi a presentarla in maniera meno brusca e meno dogmatica.

Affermiamo, dunque, che l'ultimo piano dell'edificio dell'Io, quello che riceve più aria e luce e che si affaccia sul panorama più ampio, spaziando liberamente fin verso l'estremo orizzonte, corrisponde alla sfera della vita soprannaturale, le cui manifestazioni fondamentali sono la Grazia e la risposta che, ad essa, liberamente dà la persona.

Lo ripetiamo: la cultura moderna ha tirato un tratto di penna sull'esistenza di questo livello dell'Io, negando puramente e semplicemente che esistano piani di realtà superiori a quelli esperibili mediante l'istinto, la percezione, i sentimenti e la ragione (cfr. i nostri precedenti articoli: Possiamo contare solo su noi stessi per realizzare l'oltre-uomo?; e Voltar le  spalle  alla  Grazia: il  peccato  d'origine  della  modernità, entrambi consultabili sul sito di Arianna Editrice). Ma, così facendo, la cultura moderna si è preclusa una esatta conoscenza proprio di quell'Io che essa ha assolutizzato e quasi divinizzato, facendone il centro dell'universo.

 

Tra gli studiosi i quali, invece, hanno tenuto aperta la comunicazione con la sfera della vita umana soprannaturale, si segnala il francese Georges Cruchon, autore di una Introduzione alla psicodinamica (titolo originale: Initiation à la psychologie dynamique, Maison Marne, Paris-Tours, 1963; traduzione italiana di Luigi Derla, La Scuola, Brescia).

Dopo aver considerato le varie forme che può assumere un legame affettuoso, dalle meno elevate a quelle più alte - la cooperazione e il cameratismo; l'affezione per i luoghi e per le cose; l'affezione non sessuale alle persone della famiglia; l'amore sessualizzato; l'amore d'amicizia liberato dall'interesse e dalla sessualità, l'Autore giunge a considerare l'amore di carità ispirato da Dio e incondizionato.

Si tratta di un "livello" o stadio dell'amore che gli psicologi di formazione materialistica non potrebbero neanche ammettere, dato che non possono ammettere l'idea di Dio o, quanto meno, l'idea che dalla sfera del divino partano delle forze capaci di influenzare la psiche umana. E come lo potrebbero, se non sono nemmeno in grado di ammettere - nello studio dei fenomeni parapsicologici - che la mente umana possa esercitare un'azione diretta sulla realtà esterna, o sulla mente di un altro individuo?

Eppure, la sfera della Grazia è proprio questa; e, se la si vuol negare, si amputa irrimediabilmente l'immagine della persona e quella delle sue funzioni spirituali.

Scrive, dunque, il Cruchon (Op. cit., pp. 169-174):

 

Al termine e al vertice dell'unione con gli alti vi è l'amore di carità puramente spirituale, che trascende le capacità specifiche dell'uomo e deriva dall'amore perfetto di Dio. Esso si distingue dall'amore d'amicizia  umano per le seguenti caratteristiche.

Anzitutto è più puro e più casto, più sciolto dai legami sensibili; ciò non significa che li rifiuti, giacché esso tende soprattutto a ciò che è amabile negli altri; ma non ne è motivato, come nell'amore d'amicizia umano. Infatti, esso supera questa considerazione e tende elettivamente a quei valori spirituali della persona che sfuggono ai sensi, ma che la grazia dischiude allo spirito. È così che la pura carità può farci amare esseri fisicamente e moralmente scostanti, perché si rivolge soprattutto a quell'immagine ideale dell'uomo che il male fisico o morale ha potuto deformare, ma che essa tende a ricostruire e a ricreare in sé; trasformazione che l'uomo solo non saprebbe operare, ma che la carità crede possibile all'amore divino di cui è portatrice. «Essa tutto crede, tutto spera», come dice s. Paolo e, di fatto, opera miracoli.

L'amore di carità presuppone così un dono più perfetto di sé, non indietreggia di fronte alla morte né alle ingratitudini e alle delusioni che può incontrare sulla propria via. È così, del resto, che si manifesta il suo carattere gratuito e di amore incondizionato: non si tratta, come ha creduto Freud, di amare il prossimo perché è nostro nemico, ma benché lo sia.

Tale amore è anche più universale e si estende a tutti, senza distinzione di razza o di cultura, ma anche, cosa ancor più notevole, agli stessi nemici. E così esso può disarmare l'odio, salvo essere vittima. Dice ancora s. Paolo che esso «tutto soffre e sopporta» (I Cor., 13, 7).

Esso è inoltre caratterizzato da una maggiore intimità e "comunione" dello spirito e del cuore, poiché non riserva nulla a se stesso e non mira affatto ad impadronirsi degli altri. Nessuna forma d'amore rispetta altrettanto la libertà del prossimo, né è così umile e paziente, senza nulla imporre  altrui che sia il frutto di una coercizione, senza costringere ad amare se non liberando dall'egoismo grazie al fascino che esercita dall'intimo sulla natura umana.  (…)

L'amore di carità, come ha giustamente rilevato lo Jankélévitch nel suo Traité des vertus (cap. XI), non dispensa dalle esigenze della giustizia, ma, al contrario, ne presuppone la realizzazione per un motivo che spinge ad andare ancora più oltre e a dare senza alcun calcolo. Per questo Aristotele diceva anche che, là dove esiste l'amicizia, non c'è più bisogno di giustizia, ma che, là dove vige la giustizia, v'è ancora bisogno dell'amicizia (Etica Nic., VIII, 1, 4).

Infine, l'amore di carità, se è motivato dall'amore divino da cui deriva, non dispensa più dall'amare le persone per se stesse; infatti esso si riversa sull'altrui persona, che si ama per tutte le qualità che la rendono amabile, e che sono infinite, poiché essa è amata infinitamente da Dio. Si ama allora l'altrui persona per la sua bellezza reale, che le è stata donata da Dio e che si vorrebbe ancora più perfetta, senza limiti. Per mezzo di codesta trasfigurazione operata dall'amore, si ama Dio in lei e la sia ama in Dio, senza possibilità di dissociazione, giacché solo questa unione con Dio può arricchirla. Non si potrebbe del resto amarla, sfigurata e decaduta, se non amandola trasfigurata in speranza dall'amore di Dio, e trovandola tanto più degna d'amore quanto più è compassionevole ed infelice. Onde questo amore, pur rivolgendosi alla persona naturale dell'uomo, l'avvolge in quanto essa è trasfigurata dall'amore divino, e quindi si rivolge anche a Dio in essa. E solo credendo a queste possibilità di trasformazione degli altri mediante l'amore che portiamo loro, e che Dio prima di tutti gli porta, possiamo enucleare in essi le possibilità d'amore che sono ala base della loro trasformazione. Accade un poco, qui, quello che si verifica nella tecnica del Rogers, il psicologo che crede, ma su un piano puramente naturale, alla potenza di trasformazione operata da una piena fiducia  manifestata ad un'altra persona, che dubita di se stessa, in occasione delle difficoltà che le si permette di esprimere senza biasimarnela.

L'amore di Dio, che ci consente così di amare gli altri, non toglie nulla all'altrui persona, e non rende indifferenti ad essa; al contrario, crea legami più saldi ed efficaci verso di essa, l'arricchisce di nuovi valori, che non le sono estranei poiché fanno parte delle sue possibilità e delle intenzioni di Dio su di essa. Egli rende questo amore per il prossimo più stabile dell'amore che si può provare per delle persone virtuose, e non fondava la sua stabilità che sulla stabilità della virtù, questo amore di carità rivolto all'uomo in virtù dell'amore divino resta inalterato, attraverso ogni prova. (…)

È sottinteso ce u tale amore unisce le persone a un grado che non sarebbe raggiunto da alcun amore umano, da nessun incontro sul piano delle idee, dei sentimenti o dell'ideale, quale è stato descritto dalle filosofie e dalle terapie dell'incontro (Begegnung). Certo, queste forme di incontro sono già notevolmente al disopra del legame puramente carnale, o di quelle forme di comunicazione e di scambio che costituiscono il livello comune delle conversazioni fra uomo e uomo, in cui ci si trasmettono informazioni sugli altri o sulle cose più che su se stessi e la propria esperienza della vita. Si tratta qui di un incontro al livello del centro stesso della persona e della sua libertà creatrice, dove non si sposano le proprie idee e affezioni, ma quel nucleo ancora più profondo da cui scaturiscono i bisogni più alti di affermazione di sé e di amore del prossimo, suscettibili, se fecondati e favoriti dall'amore (e non più ostacolati dalla paura e dal male) di rinnovare interamente la condotta dell'uomo perché esso si affermi nel modo più libero, integrale ed autentico possibile. È in realtà la sola unione che lascia ciascuno perfettamente libero, pur unendolo intimamente ad un altro essere; è la realizzazione perfetta dell'ama et fac quod vis, in cui, senza alcuna costrizione, l'amante e l'amato non potrebbero fare alcuna cosa che dispiacesse all'altro, pur avendo piena iniziativa. Comunicando in virtù del principio spirituale della loro attività, grazie all'amore che si portano, e non solo di regole comuni che si sono imposte, ess agiscono in virtù di quella identificazione del loro essere spirituale, che li fa volere le stesse cose.

Non occorrono lunghe spiegazioni per dimostrare come l'unione con gli altri, a questo livello,  e così ispirata, non differisca dall'amore puro che noi possiamo e dobbiamo nutrire per Dio. Dio è infatti l'Essere perfetto nel quale possono svilupparsi tutte le nostre facoltà d'amare e di comunicare. Anzi, non possiamo amare gli altri di un amore perfettamente purificato e illimitato se non abbiamo preventivamente sperimentato , per noi stessi, gli effetti di quell'amore infinito e misericordioso. «L'amore discende dall'alto e viene dal Padre», dice s. Giacomo (1, 7), e comunicandosi al nostro spirito, facendoci comprendere come esso possa trasformarsi senza costringerci e assorbirci, ci insegna ad amare anche gli altri dello stesso amore, affinché siamo tutti uno, noi in Dio e Dio in noi, nell'unità di uno stesso Spirito. Ma anche le esperienze d'amore spirituale, che facciamo con gli altri, ci fanno scoprire le ricchezze insondabili dell'amore di Dio, presente in ciascuno di noi, e ci rimandano costantemente alla fonte da cui procedono.

 

L'amore di carità ispirato da Dio, di cui parla Georges Cruchon, è, in sostanza - il lettore lo avrà capito - la medesima cosa dell'amicizia spirituale di cui parlava, nel Medioevo, Aelredo di Rievaulx, e della quale ci siamo occupati in un recente saggio intitolato Bellezza, bontà e verità dell'amicizia spirituale nel pensiero di Aelredo di Rievaulx, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).

Ci ripromettiamo, comunque, di tornare ancora - e non occasionalmente - sul tema dell'amore di carità ispirato da Dio, perché ci sembra che qui e proprio qui si giuochi la partita decisiva per una esatta comprensione dell'uomo, del mondo e del significato della nostra vita.

Non vogliamo, adesso, per ragioni di spazio, dilungarci oltre.

Ci limiteremo a fare una sola, semplice osservazione. Quanto sono lontani, i materialisti d'ogni scuola e gradazione, dal poter anche solo intravedere la reale natura dell'Essere e del suo autentico rapporto con gli enti che ne ricevono vita e significato. Scrive molto bene il Crouchon che la carità crede possibile all'amore divino, di cui è portatrice, quella trasformazione integrale della persona  che, umanamente, appare impossibile, anche nelle forme più alte di amore spirituale; e aggiunge:   «Essa tutto crede, tutto spera», come dice s. Paolo e, di fatto, opera miracoli.

Opera miracoli!

Perché, se l'amore è una specie di miracolo dell'esistenza - l'amore, diciamo, quanto più esso diviene puro e disinteressato: quale miracolo più grande della Grazia, che ci rende possibile amare anche un corpo brutto e un'anima deformata, in virtù dell'amore che Dio non cessa di dispensare a ogni creatura e del suo instancabile venire incontro ad essa, con fede incrollabile nella sua possibile redenzione e trasfigurazione?

Con buona pace di Voltaire, che nel suo Dizionario filosofico su fa beffe della possibilità del  miracolo, in quanto presunto sovvertimento delle leggi naturali, il miracolo esiste, ed è spettacolo quotidiano dell'esistenza. Senonché, per essere in grado di vederlo, ci vogliono occhi liberi dal fumo del pregiudizio ideologico, dell'orgoglio intellettuale e della nostra pretesa di una assoluta autonomia e autosuffcienza dell'uomo.