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Riforma federalista: segnali di futura crisi

di Raffaele Ragni - 03/06/2008

 

Riforma federalista: segnali di futura crisi



In tema di riforme istituzionali, sembra prospettarsi un conflitto interno alla maggioranza, suscettibile di provocare, come avvenne col primo governo Berlusconi, un crescente malumore nella Lega Nord fino allo storico ribaltone. Si allarga infatti il fronte centralista. Alla performance del deputato napoletano Italo Bocchino (AN), che ha ripresentato a suo nome, ma probabilmente non di sua iniziativa, una proposta di riforma identica a quella avanzata dal centrosinistra nella precedente legislatura ed attribuita a Luciano Violante, nei giorni scorsi sono intervenute altre due analoghe prese di posizione, che sembrano delineare la nascita di uno schieramento bipartisan, che tende a rallentare, se non addirittura a frenare, l’attuazione del federalismo.
Il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, incontrando al Quirinale l’Unione delle province italiane, ha definito ineludibile il federalismo fiscale, ma ha auspicato che sia solidale ed unitario indicando, come base di partenza, il disegno di legge presentato dal governo Prodi. Il pugliese Raffaele Fitto, ministro dei rapporti con le Regioni, nel commentare l’episodio, ha fatto intendere che il testo base per procedere alle riforme istituzionali in senso federalista potrebbe non essere la proposta di legge della Regione Lombardia, che figura nel programma elettorale del Popolo della Libertà. Nell’auspicare il consenso di tutte le forze politiche, quindi soprattutto del partito di Walter Veltroni, ha dilazionato all’infinito i tempi della riforma, in risposta alle pressioni della Lega Nord che vuole risultati concreti entro l’estate.
Che tutti definiscano ineludibile il federalismo fiscale, è il meno che possiamo aspettarci da chi abbia un minimo di sensibilità politica, visto che se ne parla da quasi un ventennio, cioè dalle leggi di riforma delle autonomie locali (142/1990 e 241/1990). Considerato che le prime elezioni regionali si tennero nel 1970 - cioè a ben 22 anni dalla costituzione repubblicana (1948) che istituiva il regionalismo dopo un secolo di centralismo sabaudo e fascista - non dovremmo preoccuparci affatto, perché siamo nel pieno rispetto dei tempi standard italiani per realizzare le riforme urgenti. Tuttavia siamo meravigliati dal carattere reazionario delle posizioni espresse dai personaggi citati, non a caso tutti meridionali, sintomo di una conflittualità latente - interna alla maggioranza, con elementi di trasversalità - che non esiterà a manifestarsi a breve termine in forme più eclatanti.
Quando il presidente della Repubblica auspica un federalismo unitario, cade nel tipico luogo comune della propaganda centralista che presenta la devoluzione come un potenziale pericolo per l’unità nazionale. Si dimentica che i primi patrioti del risorgimento - Cesare Balbo, Vincenzo Gioberti, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari - volevano un’Italia federalista. Morirono tutti tra il 1852 ed il 1876, per cui non videro le disfunzioni di una patria comune, non unita, ma unificata dalla miope politica dei monarchi savoiardi. Rimase il sogno di una nazione federale, ripreso dagli autonomisti lombardi sul finire del secolo XIX e da illustri pensatori del sud (Luigi Sturzo, Antonio Gramsci, Gaetano Salvemini, Tommaso Fiore) che auspicavano lo sviluppo delle autonomie locali come soluzione all’arretratezza del Mezzogiorno, questione non atavica, ma prodotta dalla politica economica dei Savoia. Infatti, nel periodo di massimo sviluppo industriale (1883-1906), la maggior parte degli investimenti (63,6%) fu concentrato nell’Italia settentrionale e, tra questi, la quasi totalità (85,10%) in sole tre regioni (Piemonte, Lombardia, Liguria). Quindi è il centralismo che ha spaccato l’Italia, non il federalismo.
Se poi Giorgio Napolitano parla di federalismo solidale, sinceramente non capiamo a cosa si riferisca. Il termine, applicato all’idea federale, può avere significati diversi. Può essere inteso innanzitutto come sinonimo di federalismo sociale, che riguarda la progressiva estensione agli enti locali delle competenze in materia di sicurezza sociale e può arrivare a comprendere forme di concertazione decentrata in materia di politiche del lavoro. È un’idea ancora nebulosa, ma meritevole di essere approfondita. In secondo luogo può essere riferito all’esperienza di alcuni Paesi, segmentati al loro interno dall’esistenza di varie comunità - etniche, linguistiche, religiose - che ha portato alcuni studiosi, come l’olandese Arend Lijphart, ad applicare l’idea federale alla società multirazziale. Tale regime viene definito democrazia consociativa. E’ una forma di autonomia per segmenti, in quanto le diverse componenti sociali, generalmente rappresentate in parlamento da partiti etnici e/o confessionali, si impegnano a governare congiuntamente il Paese stabilendo, in base a norme costituzionali o per prassi, alcune precise garanzie a vantaggio delle parti. Ci auguriamo di non arrivare mai a questa forma distorta di federalismo.
Se poi Giorgio Napolitano sbandiera la solidarietà per paventare il pericolo che un regionalismo differenziato, invece di innescare una proficua concorrenza tra regioni virtuose, si risolva nel penalizzare alcuni governatori di regioni meridionali, meno efficienti perchè corrotti ed incapaci, allora ricade nel paradigma centralista, adombrando stavolta anche interessi di parte. È invece legittimo che il presidente della repubblica auspichi, come base di partenza, il disegno di legge del centrosinistra in materia di federalismo fiscale. Sia perché deve comportarsi da istituzione super partes, sia perché - se si riferisce al Codice delle Autonomie - questo è effettivamente un testo che merita attenzione. Tra l’altro, esso disciplina le tanto auspicate città metropolitane - istituite con la legge 142/1990, ma non ancora operative - e definisce il comune come ente di governo di prossimità e la provincia come ente di governo di area vasta.
Il problema è proprio sulle Province, la cui abolizione viene spesso prospettata come soluzione agli sprechi prodotti dai cosiddetti costi della politica, espressione astutamente utilizzata da coloro che non distinguono la pubblica amministrazione dal potere politico, ed enfatizzano gli sprechi di quest’ultimo minimizzando le risorse dilapidate da altre caste, come quelle di finanza, sport, spettacolo. Tuttavia Giorgio Napolitano, parlando ai presidenti delle province italiane, sfiora appena il problema. Parla di contenimento delle spese e sembra prendersela solo con la proliferazione delle province, non con quelle storiche, ricordando la sua isolata opposizione, da ministro dell’interno, all’istituzione di nuove province.
Così la questione rimbalza all’interno della maggioranza di governo, dove si profila un conflitto latente anche su questo punto. Infatti la Lega Nord difende giustamente il ruolo delle province come ente di governo intermedio tra comune e regione, imputando gli sprechi ai residui del parastato, a livello nazionale e locale (ato, bacini, consorzi, agenzie, sovrintendenze). Silvio Berlusconi invece, quando al conclave degli imprenditori afferma che il programma di Confindustria sarà il suo programma, sembra dimenticare che, nel documento Montezemolo pubblicato in piena campagna elettorale ed intitolato “La crescita economica verso il bene comune, le proposte di Confindustria”, è auspicata l’abolizione progressiva delle province partendo dalle aree metropolitane, cioè il contrario di quanto chiede il suo fedele alleato di governo. Su questa posizione sono allineati alcuni ambienti del Pdl, in particolare di AN, non tanto perché eredi del centralismo fascista, quanto per la speranza di legittimarsi nei confronti degli industriali, anche in materie diverse dalla riforma Biagi di cui sono apologeti. Rispettando, ed in parte condividendo, le opinioni del presidente della repubblica, non vale la pena di intrattenersi a commentare le meno autorevoli posizioni di Fitto e Bocchino. A costoro basta ricordare che nel documento intitolato “7 missioni per l’Italia”, che rappresenta il programma elettorale del loro nascente comune partito d’appartenenza, al punto 6 è scritto che, al fine di attuare il federalismo fiscale, è prevista l’approvazione da parte del Parlamento della proposta di legge “Nuove norme per l’attuazione dell’art. 119 della Costituzione” adottata dal Consiglio Regionale della Lombardia il 19 giugno 2007”. Non capiamo esattamente a che gioco stiano giocando i deputati citati. Ma possiamo immaginarlo.
Ai rigurgiti reazionari di un centralismo c’a pummarola n’coppa, destinato ad essere sconfitto proprio dall’ineludibilità del federalismo di cui tutti parlano, ha risposto il ministro delle riforme Umberto Bossi, presentando tempestivamente un proprio disegno di legge per dare concretamente seguito alla revisione del titolo V della Costituzione, attauata nel 2001 e rimasta incompleta nei suoi aspetti operativi. È quanto mai necessario accelerare il cammino delle riforme, giacché i ritardi finora accumulati hanno tenuto in vita un modello di finanziamento degli enti territoriali derivato, cioè dipendente dal bilancio statale, anziché autonomo. Ciò comporta gravi disfunzioni nel rapporto tra politica ed azione amministrativa, nonché perduranti inefficienze nell’utilizzo delle risorse pubbliche.
Per valorizzare il ruolo delle regioni come enti di programmazione, sono previste fonti tributarie di entrata quantitativamente rilevanti rispetto alle necessità di spesa. Ai governi regionali andrebbero attribuite quote consistenti dell’IRPEF e dell’IVA, l’intero gettito delle accise, delle imposte sui tabacchi e di quelle sui giochi. Potrebbero altresì tassare autonomamente i redditi fondiari. L’esigenza solidaristica, invocata dal presidente Napolitano, verrebbe soddisfatta dalla previsione di un fondo perequativo a sostegno delle regioni con minori capacità fiscale, purché l’aiuto delle regioni più forti serva alle più deboli a sviluppare le proprie economie e non a compensare le proprie inefficienze. Per assicurare un assetto stabile e condiviso delle relazioni finanziarie tra centro e periferia, sul modello di altre esperienze federali, è prevista un’apposita commissione tecnica composta dai rappresentanti di Stato, regioni ed enti locali.
Il disegno di legge proposto dal ministro Bossi, sicuramente emendabile, è quello più conforme al programma elettorale della coalizione che ha vinto le ultime elezioni politiche. Ci auguriamo che non venga tradito per le trame ordite dai soliti gregari di oscuri padroni, i cui interessi economici sono in aperto conflitto con il vero sviluppo, endogeno e sostenibile, di tutte le regioni italiane.