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La Russia e il nuovo ordine americano

di Giovanni Petrosillo - 04/06/2008

 

Vladimir Putin, nel suo viaggio in Francia dei giorni scorsi, ha rilasciato un’intervista a Le Monde ribadendo, a chiare lettere e con uno suo stile asciutto, quel che pensa dei tentativi americani di cooptare Georgia e Ucraina nell’Alleanza Atlantica.

Per il Primo Ministro russo, quella americana non è solo una provocazione, ma qualcosa di molto più serio che mette a repentaglio la stessa stabilità delle relazioni tra Bruxelles, Washington e Mosca. Si tratta, in sostanza, di un attacco diretto ed inequivocabile nei confronti del suo paese che sta tentando di risalire la china dopo anni di reiterate umiliazioni.

Gli americani portano scientemente avanti un disegno di accerchiamento del gigante caucasico attraverso una strategia multivariata (lo scudo spaziale piazzato alle porte di casa, l’allargamento della Nato ad est al fine di inglobare i paesi tradizionalmente ricadenti nell’orbita egemonica di Mosca, gli intralci alle compagnie estrattive russe per impedire che queste possano controllare le vie energetiche in Europa). Per questo Putin ha rievocato la cortina di ferro e il muro di Berlino: “Allargare la Nato significa erigere nuove frontiere in Europa, nuovi muri di Berlino, stavolta invisibili ma non meno pericolosi”.

Scenario verosimile e, comunque, non diversamente interpretabile stando a come gli Usa cercano di raggiungere i propri obiettivi, utilizzando la tecnica degli accordi separati con i vari governi, siano quelli delle ex repubbliche sovietiche - desiderose di scrollarsi di dosso l’influenza di un vicino da sempre percepito come troppo “invadente” - o di alleati tradizionali come l’Italia che, abusando dell’assenza di una politica di difesa comune dell’Europa, svendono la loro sovranità pregiudicando non solo la libertà propria ma quella dell’intero continente. Con un linguaggio diplomatico, ma molto pungente, Putin ha lanciato la sua invettiva ai governi occidentali: “Ammettiamo che la Nato debba lottare contro le nuove minacce: la proliferazione nucleare, il terrorismo, le epidemie, la criminalità internazionale, il traffico di stupefacenti. Pensate che si possono risolvere questi problemi in seno ad un blocco militare-politico chiuso? No devono essere risolti sulla base di una vasta cooperazione, con un approccio globale e non seguendo la logica dei blocchi”, perché questo modus operandi conduce “a una limitazione della sovranità di tutti i paesi membri con l’imposizione di una disciplina interna, come in una caserma”. Discorso chiarissimo che suona come un monito per chi, in Europa, spera di cavarsela con la tecnica del bastone e della carota. La carota della cooperazione economica tra Europa e Russia (principio cardine di una globalizzazione che è l’arma ideologica più potente nelle mani del governo americano) non sarà mai sostitutiva di una visione comune di più ampio respiro, atta a contemplare non solo gli accordi commerciali ma anche quelli politici e militari. Questa Europa irresponsabile militarmente, completamente delegante per quanto concerne il suo sistema di difesa, nonché politicamente in preda alle più servili classi dirigenti, esprime tutta la sua incompetenza, temporeggiando e affidandosi alla evoluzione “spontanea” degli eventi, in un momento in cui servirebbe maggiore coraggio e decisionismo.

Se dovessi riassumere con una istantanea la perdita d’indipendenza dell’Europa e la devastazione della sua identità penserei alla conferenza stampa di Palazzo Chigi del 21 febbraio scorso, quando Prodi e D’Alema, chiamati (dagli americani) a riconoscere l’enclave yankee nel cuore dei Balcani, in spregio al diritto internazionale, adottarono in pieno la tipica doppiezza europea: “Il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo non toglie nulla alla Serbia”. Precisamente, sarebbe come dire “oggi vi tagliamo un braccio ma avete sempre l’altro per stringerci la mano e concludere accordi di buon vicinato”. Ed è appunto la stessa stolta posizione politica con la quale l’UE vuole blandire la Russia: “non muoviamo un dito contro l’unilateralismo americano che cerca di destabilizzarvi ma le nostre relazioni commerciali e diplomatiche con voi resteranno su un terreno di amicizia”.

Non c’è che dire, se gli Stati Uniti sono il pugno di ferro che colpisce a destra e a manca, l’Europa è il guanto di velluto che fa apparire quella forza aggressiva come il meglio del multilateralismo pluralista. Eppure di materiale per criticare l’operato americano ad Est ce ne a iosa, così come ce n’era per impedire che si arrivasse all’indebita aggressione dell’Iraq. Quest’ultima costituisce un precedente di non poco conto. Fondata su una colossale mistificazione della realtà, può ben essere definita come la prima guerra “a strati di menzogna sovrapposti”, da portare in superficie a seconda degli umori dell’opinione pubblica e del suo grado di credulità. La guerra contro il regime di Saddam Hussein fu preceduta dalle balle sui presunti legami tra Al Qaida e Bagdad, per poi passare alle armi di distruzione di massa, pronte ad essere utilizzate dal dittatore contro tutto l’occidente. Nonostante la brusca virata dalle motivazioni iniziali quasi nessuno si è opposto ai diktat dello “sceriffo” del mondo (chi non ricorderà Colin Powell all’Onu, nel 2003, mentre mostra una fiala di Antrace di provenienza irakena dimostratasi presto un falso?) facendo prevalere il solito teorema che terroristi sono sempre gli altri.

Oggi, con una nuova impalcatura ideologica, messa in piedi ad arte, vogliono far bere alla Russia che lo scudo spaziale serve a proteggere il mondo libero dall’Iran e dagli altri rogue states, i quali starebbero attentando alla sicurezza del pianeta. Non entro nelle questioni più squisitamente militari (per esempio, portata e gittata dei missili attualmente in uso presso questi sedicenti Stati canaglia e sugli scopi, civili o militari, delle ricerche nel settore nucleare da parte di questi stessi paesi) rinviandovi all’ottimo articolo di Daniele Scalea “Lo scudo antimissile e il suo obiettivo” (byebyeunclesam.files.wordpress.com), molto puntuale nella descrizione degli rapporti di forza tra potenze regionali e globali. Tuttavia, vorrei fare qualche altra precisazione in quanto, a prescindere dagli aspetti strategico-militari evidenziati da Scalea, non è in atto nessuna minaccia immediata da parte dell’Iran nei confronti dell’Occidente per le ragioni che passiamo subito a spiegare.

In primo luogo, l’Iran potrebbe essere un potenziale alleato degli Usa per la presenza nel tessuto sociale e politico di quella nazione di una serie di fattori che una guerra preventiva o “pro-attiva” incauta renderebbero inutilizzabili. Tra i paesi del Medio-Oriente, la Repubblica dell’Iran è quella dove il potere religioso ha sì grande influenza ma si trova adeguatamente fronteggiato da un potere politico, eletto dal popolo, molto combattivo nei confronti del clero. Per esempio, il presidente Ahmadinejad ha dovuto resistere ai religiosi in più di una occasione (si pensi alla lotta alla corruzione condotta da costui contro le alte gerarchie clericali), ma sono altrettanto noti i suoi problemi con i vertici militari regolari (per le sue frequentazioni di Pasdaran e Basij).

Inoltre, la maggior parte del popolo che ha votato per Ahmadinejad, ha percepito la sua vittoria come la fine del “regime” dei mullah, a testimonianza di come la società iraniana sia mentalmente più aperta per gli standard generali dell’area. Anzi, semmai il Presidente ha da arginare l’eccessiva diffusione dei costumi occidentali, tanto in voga in alcuni settori sociali (elite e studenti), che indeboliscono lo spirito nazionalistico sul quale Ahmadinejad punta per serrare i ranghi contro chi vorrebbe vedere l’Iran ridotto ad un’ennesima provincia americana. Tutto ciò depone a favore dell’ipotesi per cui un attacco dell’Iran agli Usa non porterebbe ad alcun compattamento del popolo dietro il suo leader, mentre è esattamente vero il contrario, un attacco americano farebbe cadere ogni diatriba tra le varie anime della classe dirigente iraniana e aumenterebbe l’odio nei confronti degli Usa in quella terra (e nei paesi vicini).

Secondo voi, ad un paese come questo, con una intellighenzia viva ed una società civile tutt’altro che addormentata, con un grado di alfabetizzazione femminile superiore al 72% (caso raro per un paese islamico mediorientale), con una massa di giovani che amano i films americani e con una situazione politica tutt’altro che omogenea, è meglio muovere una guerra nucleare oppure ricercare vie di destabilizzazione più sofisticate e “democratizzanti”? A quel punto, anche un Iran nucleare non sarebbe un guaio (perché tutti noi sappiamo che il vero discrimine con il quale si dividono gli Stati tra terroristi da quelli democratici sta tutto nella loro minore o maggiore vicinanza agli Usa) e, in ogni caso, tale fatto potrebbe essere utile a giustificare una più massiccia presenza delle forze statunitensi in tutto il Medio-Oriente.

Per concludere, se le cose che abbiamo detto hanno un minimo di fondatezza, a che (o sarebbe più opportuno dire a chi?) serve lo scudo spaziale collocato tra Repubblica Ceca e Polonia? E l’invito ad entrare nella Nato per Georgia e Ucraina? Una mezza idea dovremmo essercela fatta, tanto che le parole di Putin dovrebbero ora sembrarci molto meno campate in aria.