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L’oscuro vizio dell’Occidente: intervista a Massimo Fini

di Simone Bedetti - 18/09/2005

Fonte: Arianna Editrice

L’oscuro vizio dell’Occidente

 

Intervista a Massimo Fini di Simone Bedetti

 

Nel suo libro, uno dei più acuti giornalisti e scrittori italiani (e uno dei pochi indipendenti) analizza in poche pagine  tutte le storture della megamacchina occidentale. Lo abbiamo intervistato.

di Simone Bedetti

 

Nel suo libro Il vizio oscuro dell’Occidente scrive: “Dio è stato sostituito dalla ruspa”. La sua critica abbraccia però tutti i monoteismi, da quelli religiosi a quelli economico-politici, non ultimo il marxismo. Il loro “vizio oscuro” è quello di “occupare l’intero pianeta”. Da dove nasce a suo parere questo desiderio o impulso di trasformare ogni “altro” in “sé”, di plasmare a propria somiglianza, anche con la violenza, ogni diversità? È sempre stato così o è un fenomeno storico?

Questa situazione nasce da una concezione autoriferita e totalitaria del vivere. Chi pensa di detenere i valori universali tende a imporli agli altri, storicamente è sempre avvenuto così. Le culture che non portano avanti visioni di questo genere purtroppo non sono aggressive, tendenzialmente non sono violente e quindi sono più fragili. La cultura totalitaria si afferma così sulle culture chiamiamole “relativiste”. In nuce questo totalitarismo occidentale è comunque già presente nell’evangelizzazione, nella cultura giudacio-cristiana. La Buona Novella è l’urgenza di trasmetterla agli altri. Il mondo pagano che lo precede e accompagna è molto meno totalitario. Per esempio l’impero romano era un impero aggressivo, conquistatore, ma lasciava che ogni cultura restasse come tale, e anche se di fatto si verificavano integrazioni, non esisteva concettualmente l’idea della necessità di portare la civiltà ai barbari. La cultura totalitaria si afferma invece successivamente, prima con l’eurocentrismo, poi con il colonialismo, ma anche con l’illuminismo e con lo stesso Internazionalismo proletario marxista. Tentativi di fatto falliti in senso politico e culturale. Quello che è ha avuto successo è il tipo di modello economico occidentale, quello attuale.

 

Il vizio oscuro dell’Occidente è proprio questo: non più in nome della Ragione, o di Dio, o della Classe, ma in nome della Democrazia e dell’Economia Liberista a essa (magicamente) affiancata, vengono imposti la propria cultura e i propri interessi economici, politici e storici. Si va al di là insomma di “imperialismo” o “impero”: non si parla solo di multinazionali e organizzazioni affini, ma di un “virus” culturale che noi occidentali ci portiamo dentro. È così?

Va di certo al di là del vecchio concetto di impero. È più che altro una convinzione ideologica accompagnata da una esigenza economica stringentissima: abbiamo bisogno di conquistare sempre nuovi mercati perché i nostri sono saturi e il modello si basa sulla crescita esponenziale, sulla crescita progressiva, quindi questa necessità di vendere diventa essenziale altrimenti il modello crolla su se stesso. Possiamo pertanto dire che si tratta di una convinzione ideologica accompagnata e spinta da una esigenza economica.

 

Nel suo libro cita un caso importante, quello africano…

Esatto. C’è un’Africa felice che non è solo quella precoloniale. È un’Africa in cui si vive a 500 giri anziché a 10.000, ma si tratta di un tipo di vita equilibrato, armonioso; è un tipo di cultura tradizionale che viveve in funzione del tempo e non  di questa nuova entità che è il denaro. Se si andava qualche anno fa in Africa, si potevano vedere dei campi ben coltivati ma coltivati solamente per la metà, perché per l’africano una volta garantita la sussistenza non è necessario altro, per l’africano l’importante è sviluppare altre sfere dell’esistenza, andare a ballare, fare all’amore, suonare. È un altro mondo.

 

Ma la “civilizzazione” non ha portato niente di buono?

Assolutamente, la civilizzazione non ha portato niente, nonostante avesse anche buone intenzioni. Uno dei fattori che ha distrutto l’Africa è la medicina occidentale, non dico la medicina delle multinazionali, cioè la medicina di rapina, criminale, ma la buona medicina occidentale che ha alterato gli equilibri demografici di quel continente. Anche quando ha buone intenzioni, l’Occidente distrugge le culture “altre”. Questa è una cosa secondo me che aveva intuito il Mullah Omar quando impedì che la televisione entrasse in Afghanistan. Ci sono degli elementi della cultura occidentale che la rendono una cultura miserabile.

 

Lei distingue tra globalizzazione e mondializzazione…

Be’, per la verità sono due aspetti dello stesso fenomeno, nel senso che la globalizzazione è quella dell’economia: si tratta di un unico modello di sviluppo economico caratterizzato da libero mercato, dall’impresa, etc.; la mondializzazione è sia la militarizzazione sia l’abbattimento del principio che vieta l’ingerenza nello stato sovrano. Secondo l’idea di mondializzazione non vi sono più gli stati, ma un’entita sovranazionale che decide per tutti.

 

Come è accaduto, per esempio, durante la guerra nell’ex Juguslavia.

La guerra, se si può, sarebbe meglio evitarla, ma in quel caso noi siamo andati a annientare l’elementare diritto dei popoli di farsi al guerra in santa pace senza supervisioni che vengono da 10.000 chilometri di distanza. D’altra parte, dopo aver fermato questo tabù della guerra imponendo la nostra pace come in Bosnia o in Somalia, quando è toccata a noi con l’11 settembre, allora la guerra non è più il tabù dei tabù e a quel punto diventa necessaria. Anzi, viene elaborata l’idea della gurra preventiva, un concetto nuovo nella storia dell’umanità. neppure l’impero romano, neppure Hitler aveva mai abbracciato un concetto così estremo. Anche in questo caso si vede come tutta una serie di pseudovalori sbandierati dagli americani siano posticci: l’Occidente parla sempre di pace, ma appena veniamo messi in pericolo noi, tutti questi valori crollano. Ma se questi istinti primordiali di guerra vengono posti sotto la maschera del bene, del diritto e della morale, allora è inaccettabile. Se paesi come gli Stati Uniti facessero la loro politica di potenza come sempre è stata fatta affermandola come tale, sarebbe più corretto. Con la guerra in Iraq abbiamo potuto vedere di che pasta sono fatti gli Stati Uniti: una natura aggressiva, violenta, totalmente anti-democratica per tutto ciò che è al di là dei loro confini, e soprattutto ipocrita. In pratica gli Stati Uniti si comportano come uno stato aggressore con un’idea totalitaria del mondo.

 

A che cosa si riferisce quando parla del suo libro come di un manifesto anitmoderno?

La modernità inizia con la rivoluzione industriale, legata all’Illuminismo. A due secoli e mezzo da questo periodo bisogna fare i conti con la ragione e vedere se il negativo ha superato il positivo e verificare se ci siamo costruiti un tipo di vita migliore di quella da cui volevamo scappare, oppure il contrario.

 

Ma non è peculiarità dell’uomo, sua specificità evolutiva, quella di contaminarsi, attraverso il suo fare e il suo modificare (e il suo distruggere), con la realtà? In questo senso Homo faber è anche Homo creativus, l’uomo che distrugge è anche l’uomo che crea, Prometeo è Pigmalione. La distruzione non va di pari passo con la creazione?

Be’, Prometeo intanto viene punito dagli dei per tutta l’eternità. Quello che lei dice è vero ma solo in parte: l’accrescimento dell’uomo è stato materiale, un tempo l’accrescimento era anche inteso come conoscenza di sé, come equilibrio con ciò che ci circonda; noi abbiamo trasformato l’esigenza dell’uomo a migliorarsi in una questione puramente material. Ed è stato questo il nostro fallimento, perché non è la ricchezza materiale che ci può dare un minimo di serenità (non dico felicità che è una parola proibita). È ovvio che l’uomo tende a modificare l’ambiente che lo circonda, però bisogna sapere riconoscere se si superano certi limiti si va incontro a un boomerang. I greci questo lo sapevano. Noi abbiamo superato questi limiti, ci siamo costruiti un mondo quasi tutto artificiale. La parte artefatta ha soggiogato la parte naturale. Un altro esempio è la non accettazione della morte, uno dei grandi tabù della nostra cultura. Altre culture l’avevano elaborata e la vivevano meglio. Noi invece siamo sempre alla ricerca di qualcosa che non abbiamo e questo è un po’ anche il nostro modello economico, basato sulla pulsione ad accumulare sempre nuove cose in una corsa che non ha mai fine. Questa è la molla del sistema. È davvero un sistema curioso, che riesce a far star male anche chi sta bene. Se nel Medioevo cristiano i nobili se la spassavano, nella nostra cultura chi ha il benessere in realtà sta male. Il paradosso è che non abbiamo mai tempo: il tempo lo riempiamo a costruirci altri strumenti per guadagnare tempo in un circolo vizioso che non ha mai fine.

 

La tecnologia dovrebbe liberarci tempo, in realtà assottigliandosi il tempo di produzione si viene obbligati a utilizzare il tempo “libero” per produrre ancora di più. Non ha senso.

Se io prendo tutto il denaro del mondo e lo butto nel cesso, l’umanità vive lo stesso. Bisogna liberarsi del modello, ma penso che il singolo non possa fare nulla. Finché il modello è questo è ineludibile perché anche se l’individuo singolo cerca di limitare non ci riesce. Io il computer non ce l’ho ma il mio è uno snobismo. Probabilmente non si può fermare questa ansia prometeica tecnologica, tuttavia potremmo utilizzare questi mezzi almento per riavere il tempo dalla nostra parte.