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Kabul, Karzai assediato dai boiardi

di Giulietto Chiesa - 04/06/2008

 

 

 

La prima impressione, talvolta, non è quella che conta, ma in questo caso s’impone. Siamo alieni in questo Paese. Arrivare in centro dall’aeroporto, a bordo di auto blindate, dotati di giubbotto antiproiettile d’ordinanza, sotto la custodia di contractors privati, significa procedere a zig-zag, a passo d’uomo, attraverso decine di passaggi a livello d’acciaio, con sbarre doppie grandi come tronchi d’albero, navigando in mezzo a cavalli di frisia, contenitori di terra enormi, antiesplosioni, e muri di cemento armato che ostruiscono la vista da ogni parte salvo quella, in alto, del cielo azzurro e, a qualche svolta, quella dei picchi vertiginosi e innevati che circondano da lontano l’immensa valle di Kabul.

Come l’inferno è lastricato, talvolta, di buone intenzioni, questi blocchi di cemento riassumono plasticamente una situazione che non si può dire insostenibile solo perché le circostanze dicono che noi potremmo sostenerla anche per molti anni. A che prezzo? È un altro discorso. Siamo più forti, noi alieni, e siamo incomparabilmente più ricchi. Ma tutti avvertono, anche quelli che sentono di avere una missione da compiere, di essere in un «deserto di tartari» dove il cielo può farsi all’improvviso molto scuro, di sabbia, e allora non si sa più che fare, dove nascondersi, come impedire che ti accechi.

Il prezzo è alto. Non solo in termini del denaro che bisogna spendere per restare. Siamo qui da sette anni, ormai, e lo stillicidio dei morti è micidiale. Nei pochi giorni passati tra Kabul e Herat, tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio, sono i nuovi giornali dell’Afghanistan «liberato dai taleban», a scandire la conta del massacro. Lunedì 28 aprile, il giorno dopo l’attentato al presidente Karzai, il quadro è questo: «diversi morti» in combattimento nella provincia di Kunar; a Gardez un leader locale e il suo autista sono uccisi da una esplosione; combattimenti in corso a Paktia. Altri combattimenti vengono annunciati da Ghazni, con almeno 6 insorti uccisi, mentre di nuovo le cose vanno male per gli australiani, che segnalano un altro caduto e quattro feriti dopo un’imboscata nella provincia di Uruzgan. L’Isaf, la forza internazionale di sicurezza, cioè la Nato, lancia un’offensiva nella provincia del Sud-Ovest, di Helmand, proprio mentre un attacco suicida uccide 20 poliziotti afghani nella provincia di Nangarhar.

Ma a Kabul, mentre è in corso la caccia all’uomo contro i sopravvissuti all’attentato al presidente Karzai, corrono voci che gli attentatori potrebbero non essere taleban. E allora chi? Risposte certe nessuna, ma sia alcuni diplomatici occidentali sia diversi deputati della Wolesi Jirga, che altri della camera alta, la Meshrano Jirga, affermano che ci sarebbe la mano dello Hezb-i-Islami, il «partito» di Gulbuddin Heckmatyar, che ha la caratteristica ubiqua di avere, non ufficialmente s’intende, uomini nel governo di Karzai, nelle due Camere del Parlamento, mentre muove forze armate in diverse province del Paese. Ed è quello stesso Heckmatyar che fu tra i maggiori leader mujaheddin, di etnia pashtun, che conquistarono la Kabul che i sovietici, andandosene, avevano lasciato nelle mani di Najibullah.

Il 27 aprile, giorno dell’attentato a Karzai, si festeggiava appunto il 16° anniversario di quella vittoria. Un alto esponente tagiko, che non si può citare, è esplicito al riguardo: le forze dello Hezb-i-Islami «sono più numerose e meglio equipaggiate di quelle dei taleban». E si sa che Heckmatyar è ancora protetto, probabilmente finanziato, sicuramente armato dall’Isi pakistano, esattamente come lo fu durante tutta la jihad islamica contro i sovietici, quando combatteva fianco a fianco con Osama bin Laden. Colloquio dopo colloquio, emerge - seppure tra molte reticenze e mezze ammissioni - che non tutti i «taleban» sono taleban, che ci sono altri fronti e altri conflitti latenti e espliciti, che non tutti i taleban sono Al Qaeda. Anzi che Al Qaeda è qui cosa perfino più sfumata che altrove, sebbene questo «database» sia nato poco lontano da questi confini, a Peshawar, ai tempi della sconfitta sovietica, dopo quella sconfitta, e dunque non per combattere una guerra già vinta.

E, mentre tutti parlano di «afghanizzare» il problema afghano, gli stessi tutti - afghani e occidentali - sono convinti che, se gli occidentali se ne andassero, dopo un minuto tutto crollerebbe in un nuovo bagno di sangue. Dopo sette anni di guerra non è un grande risultato.

 

 

Pakistan, dagli attentatori un messaggio al nuovo governo di MARCO GUIDI mess 23

 

Sono tornate le bombe in Pakistan. E come sempre, ad ogni attentato, ci si interroga non soltanto sul chi lo abbia architettato ma anche sul messaggio (o sui messaggi) che gli attentatori hanno voluto lanciare. E anche a chi sia diretto il messaggio.

 

Iniziamo dall’obiettivo, l’ambasciata danese di Islamabad. Cioè la rappresentanza diplomatica del Paese dove sono state pubblicate le famigerate vignette satiriche sul profeta Maometto. In Danimarca si è appena iniziato il processo d’appello contro il quotidiano che ha pubblicato le vignette e la bomba (un’auto guidata da un pilota suicida) intendeva colpire proprio la nazione incolpata di uno dei massimi reati per i fondamentalisti. il vilipendio del profeta dell’Islam.

 

Ma l’autobomba ha certamente voluto rappresentare un altro messaggio, questa volta non diretto all’estero, ma al nuovo governo pakistano. quello composto dal partito Popolare che fu di Benazir Bhutto e dal Movimento islamico di Shanawaz Sharif.

 

La nuova compagine governativa sta, anche se non ufficialmente, aprendo una importante trattativa con il governo degli Stati Uniti. Il tema è il solito: come debellare o perlomeno controllare le milizie tribali, i talebani, gli uomini di Al Qaeda che operano, si addestrano, si ricostituiscono nelle zone tribali che costeggiano tutta la frontiera afghano-pakistana. Come noto nelle zone tribali (e anche più a nord, nello Swat) le milizie fondamentaliste trovano non solo appoggio, ma sono riuscite, de facto, a stabilire un vero e proprio governo che si è sostituito a quello legale pakistano. Da li partono i combattenti islamici che vanno in Afghanistan, di li transitano i rifornimenti di armi e di viveri, lì vanno a rifugiarsi i talebani quando sono inseguiti dalle forze occidentali. E lì, probabilmente, ha trovato asilo la dirigenza di Al Qaeda, Osama bin Laden e Ayman al Zawahiri in testa. Ma non è tutto, spalleggiati dai combattenti islamici e dai partiti fondamentalisti hanno lì le loro basi i cosiddetti talebani pakistani. Vale a dire le migliaia e migliaia di ex allievi delle madrase, le scuole coraniche, integraliste, finanziate anche con i fondi di Paesi arabi ufficialmente in lotta contro il terrorismo islamico. Lì la legge pakistana non vige, sostituita da una forma di sharia (legge coranica) interpretata nel modo più restrittivo possibile. Ora, contro queste zone, si sta pensando a una serie di azioni congiunte tra le forze armate del Pakistan e quelle americane. E le trattative, segrete (ma si tratta di un segreto ormai noto) sarebbero a buon punto.Ora è grave che, a pochissime ore dal filtrare delle notizie, sulle trattative i terroristi abbiano messo a segno un attentato. Dimostrando ancora una volta che, sebbene minoranza tra il popolo pakistano, essi sono in grado di colpire come, quando e dove vogliono. Anche nei luoghi della capitale tra i più protetti e vigilati, almeno ufficialmente.