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Non si dà, per l'etica di Max Scheler, amore del bene, ma solo amore della persona

di Francesco Lamendola - 05/06/2008

 

Max Scheler (Monaco, 1874 - Francoforte, 1928) volle essere l'esploratore dell'etica con le armi della fenomenologia, che il suo maestro Husserl aveva trascurato.

Influenzato, in gioventù, dalla filosofia di Dilthey, di Simmel e anche di Nietzsche, dedicò al problema etico le sue due opere più significative: Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valori, del 1916, ed Essenza e forme della simpatia, del 1923.

La concezione etica di Scheler si oppone sia all'empirismo e al naturalismo che al criticismo kantiano. Infatti, per lui l'etica è fondata sul mondo dei valori e, quindi, non può essere che un'etica materiale, contrapposta all'etica formale di Kant. Quest'ultimo aveva sostenuto che un'etica materiale è impossibile perché il bene, che dovrebbe esserne il fondamento, sarebbe solo un fine desiderato, per cui le norme dell'etica assumerebbero la forma non dell'imperativo categorico («Tu devi»), ma dell'imperativo ipotetico («Se desideri questo, fa' quest'altro»). Ma Scheler dimostra che Kant è caduto in una confusione tra il concetto di fine e il concetto di valore. Quest'ultimo si presenta come un oggetto assoluto che ciascuno afferra, mediante l'intuizione emotiva, nel suo ordine preferenziale. Se i valori fossero riducibili semplicemente a dei fini, sia l'universalità che l'autonomia dell'etica andrebbero smarrite; mentre i valori non sono affatto prodotti dagli uomini, ma esistono come realtà assolutamente oggettive.

Né si devono confondere i valori con i beni. I beni non sono altro che gli oggetti fisici i quali incorporano in sé i valori. Ma che cosa significa affermare che i valori sono del tutto oggettivi? Significa che essi sono autonomi rispetto agli atti mediante i quali vengono appresi e, quindi, che sono assoluti ed eterni (come le Idee di Platone). L'esperienza emozionale pura, che è l'unica maniera in cui li si può cogliere, differisce in modo radicale sia dalla razionalità che dalla sensibilità empirica: la sua caratteristica fondamentale è, nel senso husserliano del termine, l'intenzionalità della coscienza.

Se l'esperienza emotiva, nella quale il valore si rivela alla coscienza, fosse la pura e semplice emozione, ad esempio un piacere o un dolore sensibile, evidentemente l'apprendimento del valore resterebbe confinato a una sfera del tutto soggettiva; invece essa è eminentemente intenzionale, e il suo valore le è dato  direttamente. Lo stesso rapporto che esiste fra un dato concetto o una rappresentazione con il loro oggetto, esiste anche fra l'intuizione emotiva e il valore. Ne consegue, come abbiamo detto, che il mondo dei valori esiste oggettivamente e indipendentemente dall'atto mediante il quale essi vengono, di volta in volta, appresi.

Se è un mondo oggettivo, ciò significa che è retto da proprie leggi a priori, le quali stabiliscono una gerarchia fra i valori; gerarchia che non ha nulla a che fare con i modi e le attività mediante i quali essi vengono, più o meno, realizzati concretamente. La coscienza, da parte sua, coglie i rapporti fra i valori non mediante l'atto empirico dello scegliere fra beni diversi (un valore non è riconducibile semplicemente ad un bene), ma per mezzo dell'atto puro del preferire, ovvero dell'anteporre o posporre, un valore rispetto ad un altro.

Le modalità dei valori individuate da Max Scheler sono quattro.

La prima corrisponde alla serie di ciò che è percepito come gradevole oppure sgradevole, che nella sfera della sensibilità corrisponde alle funzioni del godere o del soffrire.

La seconda modalità è quella dei valori vitali (un gradino più in su di quelli puramente sensibili), che corrispondono ai modi del sentimento vitale: salute e malattia, esuberanza e decadenza, ecc. Le categorie del «buono» e del «cattivo» appartengono a questa modalità, ma solo nel senso dell'efficienza e dell'abilità, ad esempio nell'espressione "un buon falegname" o "un cattivo musicista".

La terza modalità corrisponde a quella dei valori spirituali, i quali vengono appresi dalla coscienza mediante il sentire spirituale.

 

Scrivono Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero in Filosofi e filosofie nella storia (Paravia, Torino, 1992, vol. 3, p.514):

 

Appartengono a questa categoria i valori estetici (bello e brutto), i valori giuridici che costituiscono il fondamento di ogni ordinamento giuridico, in quanto è indipendente da ogni legge positiva dello stato o della comunità; i valori della scienza pura, quali tenta di realizzarli la filosofia che, a differenza della scienza, non è guidata dallo scopo di dominare i fatti naturali. Approvare e disapprovare, stimare e disistimare, simpatizzare spiritualmente, sono alcuni degli ati soggettivi in cui si apprendono questi valori.

 

Infine, la quarta modalità è quella dei valori, che operano un discrimine tra la sfera del profano e quella del sacro. La beatitudine e la disperazione sono espressione di tale modalità, ma non devono essere confuse con la felicità o l'infelicità delle quali parla il linguaggio ordinario; infatti, la beatitudine esprime la vicinanza della persona alla sfera del sacro, la disperazione esprime la lontananza da essa.

Il fondamento della intuizione dei valori è l'amore.

I valori del sacro, in ogni caso, vengono appresi mediante una particolare modalità di amore: non l'amore del bene, ma l'amore della persona. Per Scheler, nella sfera del sacro il valore genuino è un valore personale, e dunque anche l'amore non può che essere un amore personale: da persona a persona, e in quanto rivolto alla persona in se stessa.

 

Importante è anche la distinzione, operata da Max Scheler, fra il concetto di simpatia e quello di amore.

Schopenhauer, ad esempio, a causa della sua concezione generale fortemente pessimistica, non ha rilevato la differenza che corre fra simpatia e amore, né l'intrinseca superiorità del secondo rispetto alla prima. La simpatia è reattiva, l'amore è creativo. Con la simpatia, fa osservare Scheler, io posso voler bene anche a una persona che desidera il male, ad esempio il male di se stessa; con l'amore, questo sarebbe impossibile. Nell'amore, non si può che desiderare il bene dell'altro, in quanto esso si accorda con il suo bene oggettivo.

Ancora: mediante la simpatia è possibile rivivere i sentimenti altrui (ad es., gioire o soffrire con loro), sempre, però, restando  nella sfera dell'io psichico. Perciò non si è in grado di cogliere il valore dell'altro in tutta la sua pienezza, ossia nel suo essere persona. L'amore - come osserva giustamente Antonio Da Re (in Dizionario delle opere filosofiche, a cura di Franco Volpi) - è un movimento attivo, grazie al quale l'altro mi si dà come persona, nel suo essere spirituale, nella sua unicità, nella sua inoggettivabilità. Il legame che esiste fra l'amore e la persona è un legame originario e inscindibile. Perciò ha sbagliato, e di molto, Freud nel formulare la sua teoria naturalistica dell'amore.

 

Giunti a questo punto, ci sembra utile ascoltare le parole stesse con le quali Max Scheler distingue   l'«amore del bene» dall'«amore della persona per la persona stessa». È un concetto che lo ha notevolmente avvicinato al cristianesimo, all'idea di un rapporto d'amore personale fra l'uomo e Dio; anche se poi, nel suo inquieto e vulcanico percorso speculativo, il filosofo tedesco ha elaborato una concezione di tipo panteistico e storicistico, secondo la quale Dio perde i suoi caratteri personali e tende a realizzarsi progressivamente nel corso della storia umana.

Scrive, dunque, in Essenza e forme della simpatia (titolo originario: Wesen und Formen der Sympathien, traduzione italiana di Lucio Pusci, Città Nuova Editrice, 1980, pp. 244-252):

 

L'amore, in generale, è in relazione con gli oggetti dell'intero regno dei valori. Ma non tutti i tipi dei valori, per il cui tramite l'amore si indirizza agli oggetti, conferiscono all'atto un carattere moralmente dotato di valore. Or si potrebbe pensare che l'amore del bello, ad esempio l'amore della conoscenza, non sia un atto moralmente dotato di valore; che lo sia, invece, l'amore del bene.  Ma ciò sarebbe assai erroneo. Qual altro valore, infatti, dovrebbe avere l'amore del bello e della conoscenza, se non un valore morale? L'amore del bello non è esso stesso bello, e l'amore della conoscenza non ha alcun valore conoscitivo. Anche queste specie di amore sono portatrici di valori morali, in quanto gli atti di amore vengono intesi come atti della persona. E non consiste più che mai in questo l'amore del bene? Ma la questione è prima di tutto: Esiste veramente un amore del bene? Sta qui - come ho dimostrato in altra sede (Da Ressentiment im Aufbau der Moralen) - l'importante punto di inversione dall'idea antica a quella cristiana dell'amore. Secondo l'idea antica dell'amore, si dà un amore del "bene", secondo quella cristiana l'amore è il portatore del valore "buono" nel senso più originario. Io rispondo pertanto alla domanda con un no! Si dà un amore per tutti i valori, o meglio per tutti gli oggetti «in ragione» - in ragione di tutti i valori - ma non si dà alcun «amore del bene»! Anzi l'amore del bene quale bene è in se steso cattivo, ché è necessariamente fariseismo; la formula del fariseismo, infatti, è data dalla proposizione: «ama i buoni», ovvero: «ama gli uomini in quanto sono buoni», e: «odia il male, ovvero gli uomini in quanto sono malvagi». Il principio cristiano, invece, è a ragione questo: «ama tutti in quanto sono portatori di valori - e i malvagi perfino in modo particolare»!

Ma perché questo? Per il semplice motivo che la "bontà" morale  d'una persona (nel suo senso originale) - ed anche esclusivamente per la sfera assoluta - si definisce secondo la misura dell'amore che essa ha; anche il valore morale d'una "comunità" , ad es., si definisce secondo la misura dell'amore in essa assolutamente investito. Non può darsi affatto, dunque, alcun amore per un "bene" che posa diventare oggettivo per l'amore medesimo, e ciò appunto perché l'amore - tra gli atti - è portatore del valore «moralmente buono» in senso eminente ed originalissimo. Se fosse quindi possibile qualcosa come un autentico amore per il bene, allora l'amore stesso non potrebbe mai essere portatore del valore moralmente buono nel senso più originale. L'amore, invece, è (tra gli atti) il portatore più originale del "bene". Proprio in questo movimento dal valore più basso a quello più alto il valore "buono" si presenta nel modo più originale. Così è anche escluso che si ami la propria bontà; non si può infatti amare l'amor proprio di un'altra persona.  Mettiamoci nei panni di uno che affermi di «amare il bene»! aiuterà egli, ad esempio, uno della cui bontà morale non sia anzitutto convinto? Ma chi dice che - se lo trova "malvagio" in un qualche senso - questo uomo sarebbe "malvagio", se solo fosse stato amato a sufficienza? sia da se stesso sia dagli altri! Chi dice che nell'atto e attraverso l'atto dell'amore egli non sarebbe diventato migliore? Sta qui la linea che divide nettamente la morale genuina da quella farisaica! In altra parte abbiamo dimostrato  che non si dà nemmeno un «volere il bene per il bene»! Chi aiuta un altro «non come se gli importasse qualcosa  del suo bene o della sua salvezza» - come dice Kant -, ma solo per essere "buono"; chi considera l'altra persona come un'occasione per «esser buono» egli stesso, per «agire bene», ecc., questi non è buono né si comporta bene, ma solo si comporta in modo che, senza l'effettiva comparsa  del valore "buono" nel suo essere, voler, agire, «possa giudicare» semplicemente così: «Io sono buono». Il mondo non è - secondo una battuta di Shaw - un ginnasio morale, esistente al fine di correggere il nostro carattere!  Il fariseo vuole "apparire" buono a se stesso  - o "apparire" buono agli altri o a Dio; ma i tal modo egli non è affatto buono. Ed io ho dimostrato che non si dà alcun «voler-rendere-buono-l'altro», e ciò per il semplice motivo che "buono" è un valore essenzialmente ed esclusivamente legato ad atti liberi e spontanei e all'essere della persona, che sono essenzialmente immuni da ogni influenza dall'esterno. La stessa cosa, precisamente, si ha qui! Nel compimento dell'atto d'amore appare, rifulge nell'amante il valore "buono" nel senso più originale"!  Ogni presunta oggettivazione "del" bene nell'amore è sempre d due specie: o è un'illusione che sia il "bene" ciò che noi rendiamo oggettivo, e non un altro valore; ovvero è l'illusione che sia l'amore nel quale in bene ci appare, e non un altro atto, ad esempio la mera rappresentazione o la percezione del bene, il rallegrarsi del bene, ecc.

Ciò vale anche rispetto a Dio. La forma suprema dell'amore di Dio non è l'amore "di Dio" come bene infinito, cioè come una cosa, bensì la co-attuazione dell'amore di Dio per il mondo (amare mundum in Deo) e per se stesso (amare Deum in Deo)., vale a dire ciò che gli scolastici, i mistici e ancor prima di questi Agostino chiamarono «amare in Dio». Se vogliamo attribuire a Dio la suprema qualità morale secondo il modo dell'essere infinito, possiamo farlo solo se dell'amore (con Giovanni ed Agostino) facciamo la sua essenza più intima e diciamo che questa è «amore infinito». Solo a questo nucleo centrale del centro dell'atto divino sono legati come" attributi" la sua «bontà infinita»e la sua perfezione morale assoluta. C'è pertanto una sola relazione morale fondamentale tra "buoni": la sequela mediante imitazione e co-amore.

Da questo fatto e dal principio, indipendente dall'esperienza, secondo il quale ogni amore (comunque venga esperito) pone un contraccambio dell'amore e quindi porta alla ribalta un nuovo bene morale - ché anche l'«amore ricambiato» è a sua volta, in quanto amore, portatore di «moralmente buono» - risulta un principio che noi vogliamo chiamare principio della solidarietà di tutti gli esseri morali. Questo principio afferma che, in linea di principio, ognuno per tutti e tutti per ognuno sono corresponsabili di ciò che hanno di moralmente valido; che "sono" «tutti per uno» e «uno per tutti», in quanto si tratta della responsabilità globale dell'umanità, in quanto portatrice di tutti i valori morali, davanti all'idea dell'essenza moralmente perfetta; che quindi ognuno è anche "correo" della "colpa" di un altro, e che ognuno è originariamente partecipe de valori morali positivi di tutti gli altri.

Questo principio è una conseguenza del fato che non si dà alcun amore del bene: che quindi l'esistenza d'un male è sempre - lo sii possa o no dimostrare empiricamente - e a un tempo fondata sulla colpevole mancanza d'amore di tutti per il portatore del male. Infatti, poiché l'amore determina un contraccambio d'amore, nella misura in cui l'amore viene percepito - comunque possa essere essenzialmente secondo le leggi della possibile comprensione degli altri, senza una previa posizione della particolare realtà corporea degli esseri e della loro azione causale reciproca-, così anche ogni esistenza d'un male è necessariamente condizionata dalla mancanza di un contraccambio di amore, e questo dalla mancanza di un amore originario. Questi principi sono del tutto indipendenti dai contatti empirici effettivi degli uomini l'un con l'altro; sono anche indipendenti da chi in concreto abbia questa colpa e chi no, da chi abbia i meriti morali e chi no. Sono anche indipendenti dall'uomo in quanto casuale essere vivente sulla terra. C'è dunque una colpa morale globale ed un merito morale globale della comunità morale esistenziale delle persone come tali, e tale colpa e tale merito globale non è mai la semplice somma dei valori morali dei singoli esseri.

Ma se l'amore morale non è l'amore del bene, come si definisce allora l'amore morale? È certo, infatti, che non ogni amore in generale è un atto moralmente valido, benché sia sempre un atto di valore positivo, per esempio l'amore del bello, della conoscenza, della natura, dell'arte, di tutti i valori oggettivi. È certo che questi atti non sono immediatamente portatori di valori morali, quantunque possano essere valori di atti spirituali, la cui superiorità rispetto ai valori inferiori rende a sua volta moralmente più perfetti i loro portatori personali. A ciò io risponde: l'amore ha questo particolare valore in quanto è amore della persona per la persona medesima. (…)
Vi sono tipi di valore che stanno in rapporto essenziale con il valore "persona" e che possono competere esclusivamente ad una persona; tali sono, ad esempio, i «valori della virtù». Oltre a questi v'è però anche il valore della persona come persona medesima, ossia come portatore essenziale di questi valori di virtù. L'amore per il valore della persona, cioè per la persona come realtà attraverso il valore della persona, è l'amore morale in senso pregnante. In altra parte (in Der Formalismus in der Etik) ho esposto esaurientemente il concetto di "persona". Qui voglio solamente richiamare l'attenzione sul fatto che l'amore moralmente valido è quello che amando non fissa lo sguardo sulla persona perché essa ha queste o quelle proprietà ed esplica queste o quelle attività, perché ha questa o quella "dote", perché è "bella", ha delle virtù, ma è quell'amore che coimplica nel suo oggetto  quelle proprietà, attività, doti, per il fatto che esse appartengono a questa persona individuale. Soltanto questo, pertanto, è anche amore assoluto, giacché non dipende dal possibile mutamento di queste proprietà, attività.

Ovunque ci siano dati degli individui, ci è dato anche un ultimo, che non può in alcun modo risultare da caratteristiche, proprietà, attività. Viceversa, in quella considerazione che verte esclusivamente sugli individui, sono sempre le caratteristiche, le proprietà, le attività che hanno solo un carattere astratto e generale, tanto che non sappiamo di quale individuo siano caratteristiche, proprietà. Ora, però, per la persona individuale si ha che essa ci è data assolutamente solo attraverso e nell'atto dell'amore, che quindi anche il suo valore in quanto individuo ci è dato solamente nello svolgimento di questo atto. L'oggettività come «oggetto dell'amore» è come il luogo in cui solamente esiste la persona  e in cui dunque può anche emergere. Proprio per questa ragione è anche un "razionalismo" affatto erroneo il voler fondare l'amore per una persona individuale in qualche altro modo, ad esempio sulle sue proprietà, azioni, opere, metodi di comportamento. Nel tentativo, appunto, di intraprendere questa fondazione, ci imbattiamo decisamente nel fenomeno dell'amore della persona individuale. Sempre ci accorgiamo, infatti, di poter pensare ad ognuna di queste cose come cangiante e sfuggente, senza tuttavia poter cessare in alcun modo di amare questa persona; constatiamo, inoltre, che la somma dei valori che hanno per noi le proprietà e le attività della persona, ove consideriamo queste proprietà e attività separatamente e ad esse sommiamo i nostro atti tendenziali, non può coprire, e per molto, il nostro amore per la persona. Resta sempre un'eccedenza "ingiustificabile". (La stessa cosa vale ovviamente anche per l'odio). Anche lo straordinario cangiamento nelle giustificazioni che siamo soliti dare noi stessi del "perché" amiamo qualcuno, mostra che questi motivi vengono tutti ricercati solo a posteriori e che nessuno di essi è la "ragione" vera e propria.

In che modo, inoltre, ci è datala persona nell'amore? Cerchiamo anzitutto di chiarirci questo: benché l'amore in quanto comportamento personale sia un comportamento assolutamente oggettivo, "oggettivo" in quanto e nel senso che noi usciamo fuori di esso (in modo sovranormale) da ogni chiusura nei nostri propri "interessi", "desideri", "idee", nondimeno ciò che in un uomo è persona  non può mai esserci dato come "oggetto". Né nell'amore né in altri "atti" autentici , siano pure "atti cognitivi", è possibile oggettivare le persone. La persona è l'unità sostanziale ignota di tutti gli atti, unità sostanziale esperita individualmente e che mai può essere data nel "sapere"; è l'unità sostanziale di tutti gli atti che un essere compie. Non è quindi un "oggetto", e tanto meno una "cosa". Ciò che può essermi dato oggettivamente, dunque, è sempre e solamente: 1. il corpo dell'altro, 2. l'unità corporea; 3. l'Io e la rispettiva "anima" (vitale). Ciò vale anche per ognuno rispetto a se stesso. La persona può essermi data solamente in quanto io ne  co-eseguo gli atti - cognitivamente nel "comprendere" e nel "rivivere" la sua esperienza, moralmente invece nella "sequela". Il nucleo morale della persona di Gesù, ad esempio, è data ad uno solamente: al suo discepolo. Solo la discepolanza apre la porta a questo dato. La discepolanza può ben esser data ad un discepolo che di lui non sa proprio nulla di "storico", niente della sua vita esterna, anzi che non sa niente nemmeno della sua essenza storica; già il sapersi discepolo, infatti - che presuppone naturalmente la conoscenza dell'esistenza storica del Maestro - , è altra cosa che l'esser discepolo. Questa discepolanza, al contrario, non può mai e poi mai esser data al teologo in quanto teologo, qualunque sia la conoscenza che egli ha della vita di Gesù (incluse anche le sue esperienze psichiche): ai suoi occhi essa è necessariamente "trascendente". Questo lo dimentica ogni giorno il nostro intellettualismo teologico dotto!

Tutti i valori connessi alla materia, al copro, all'anima, possono esserci dati anche oggettivamente; anche nell'amore per questi portatori di valori. Non così i puri valori della persona, ossia il valore della persona medesima. Ogni qual volta noi "oggettiviamo" in qualche modo un uomo, la sua persona ci sfugge di mano, ed altro non resta che il suo mero involucro. Possiamo tuttavia amare oggettivamente i valori non-morali d'una persona, ad esempio il suo valore come intelletto o come potenza artistica, che noi cogliamo nel rivivere la sua vita; questi portatori di valori diventano per noi "oggettivi" anche attraverso il rivivere la loro vita. Ma giammai possiamo cogliere in questo modo il valore puramente morale della persona, ché di questo è originariamente portatore esclusivamente l'atto del suo amore. Questo ultimissimo valore morale della persona ci è dato dunque solamente nella co-esecuzione del suo stesso atto di amore. Noi dobbiamo amare quello che ama il nostro modello, nel "co-amore", affinché possiamo avere come un dato questo valore morale. C'è ancora una sola cosa, attraverso la quale il suo Sé - ma non la persona medesima - può esserci dato oggettivamente, e precisamente in altro modo rispetto a quel che può verificarsi immediatamente attraverso i fenomeni dell'espressione. Ogni qual volta la persona amata viene da noi percepita  come di molto superiore, si presenta il fenomeno che noi ci impossessiamo del suo esser-persona per il fato che "co-eseguiamo" gli atti del suo stesso amor di sé e volgiamo il nostro sguardo a ciò che ci è dato  in questi atti co-eseguiti. Questa partecipazione amorosa, ad es., nell'amore con cui Dio ama Se stesso,  è quel che Franz Brentano ha volto di recente trovare (?) nel suo libro su Aristotele, già nella metafisica di Aristotele e che alcuni mistici e scolastici hanno chiamato amare Deum in Deo. Un fatto analogo ci è però ben noto anche tra gli uomini.  In determinate circostanze noi possiamo amare un uomo ancor più di quanto egli stesso si ami. Molto, ad esempio, che odiano sé stessi, vengono amati, ed ogni partecipazione attiva ai loro atti dell'odio di sé stessi sarebbe un "odiarli". Si danno però dei casi in cui l'odio di sé di un uomo si dissolve grazie al discorso di uno che lo ama e che al contempo ne è riamato in un contraccambio d'amore: «Non si può odiare tanto chi è tanto amato - dall'amante». Là dove un uomo non odia se stesso, ma ama se stesso, la "co-esecuzione" del suo amore di sé è certamente una delle forme che può assumere l'amore degli altri.

 

Riassumendo, tre ci sembrano i punti veramente originali e qualificanti, nella concezione dell'amore propria di Max Scher.

Il primo è l'idea che non si dà, genericamente, amore del bene, ma sempre e soltanto amore della persona e per la persona. Questo principio bandisce dall'etica ogni residuo di intellettualismo e ci riconduce alla dimensione concreta della vita vissuta. Certo, i valori esistono in se stessi, sono una realtà oggettiva e universale; ma, nell'amore, noi non cogliamo i valori allo stato "puro", bensì li cogliamo incarnati, per così dire, nella persona dell'altro, né possiamo separarli da lui, se non mediante un atto di astrazione mentale.

Il secondo punto, che è una conseguenza del primo, è la decisa affermazione della responsabilità globale dell'umanità, in quanto portatrice di tutti i valori morali, davanti all'idea dell'essenza moralmente perfetta; e che, pertanto, ognuno è corresponsabile della "colpa" di un altro, poiché  ognuno è originariamente partecipe de valori morali positivi di tutti gli altri. Un corollario di questo principio è che il malvagio, forse, è divenuto tale per insufficienza di amore da parte degli altri, di tutti gli altri: infatti, la legge dell'amore è basata sul principio del contraccambio: amor che a nullo amato amar perdona, come dice Dante. Ricevere molto amore, significa sentirsi spronati a esplicitare quella potenzialità di amore che noi tutti portiamo nel profondo del nostro essere; e, dunque, a "restituire" l'amore ricevuto.

Il terzo punto è quello in cui Scheler sostiene che l'amore morale in senso pregnante è quello in cui l'amante, amando, non fissa lo sguardo sulla persona perché essa ha queste o quelle proprietà ed esplica queste o quelle attività, perché possiede certe doti (come la bellezza) o certe virtù, ma è quell'amore che coimplica nel suo oggetto quelle proprietà, attività, doti, per il fatto che esse appartengono proprio a questa persona, unica e irripetibile. Soltanto questo, pertanto, è anche amore assoluto, giacché non dipende dal possibile mutamento di queste proprietà, attività.

In altri termini, Scheler è convinto che i nostri atti e le nostre qualità non esauriscano il nostro valore come persone; e che gli atti e le qualità che ci rendono amabili, non sono la ragione per cui noi possiamo essere amati, bensì delle caratteristiche che si accompagnano a un "ultimo", a un fondo essenziale, che non è affatto il risultante di determinate caratteristiche, proprietà, attività. Per usare il linguaggio di Scheler, le qualità e gli atti che ci contraddistinguano vengono co-implicati dall'amore di colui che ci ama, ma non ne sono la ragione essenziale. Infatti, se tali qualità o tali atti si modificano nel tempo, l'amore di tipo più elevato non cessa per questo.

Come si può facilmente vedere, tutta la concezione etica dell'amore si fonda, nel pensiero di Max Scheler, su una visione profondamente disinteressata delle relazioni umane, ove non conta quel che l'altro può offrirci, ma il suo valore essenziale e irriducibile di persona.

Inoltre, l'idea che il vero amore si fonda sull'amore assoluto di Dio, che lo rende "perfetto" (idea dalla quale, in seguito, il filosofo tedesco si sarebbe allontanato, come abbiamo sopra accennato), presenta forti analogie sia con quella di Aelredo di Rievaulx, sia con quella, propria di Georges Cruchon e altri, che vede nell'amore di carità, ispirato da Dio, la forma più alta e più pura di affetto umano (cfr. F. Lamendola, Bellezza, bontà e verità dell'amicizia spirituale nel pensiero di Aelredo di Rievaulx; e L'amore di carità ispirato dalla Grazia è il fulcro della nostra vita soprannaturale, entrambi sul sito di Arianna Editrice).

Da tale concezione generale, improntata a un ottimismo antropologico che ricorda, per certi aspetti, quello di Socrate (sembra che, per Scheler, non vi sarebbero persone cattive, se tutte ricevessero una sufficiente quantità di amore) deriva una visione fortemente critica della civiltà moderna, basata sulla logica dell'utilitarismo. In particolare, a giudizio di Max Scheler la civiltà moderna sembra incapace di elaborare un sapere disinteressato, tutta presa, com'è, dalla volontà di dominio sul mondo perseguito mediante la scienza. Viceversa, solo quando una società è capace di perseguire valori "nobili", ossia non di tipo esclusivamente o prevalentemente utilitario, può darsi una dimensione armoniosa e completa. Ora come ora, la civiltà moderna appare alquanto monca e drammaticamente sbilanciata.

Un giudizio, questo del filosofo tedesco, che ci appare oggi, all'inizio del terzo millennio, più che mai attuale, e che dovrebbe indurci a rivedere i valori in funzione dei quali abbiamo costruito il mito del progresso.

 

Tuttavia, il suo maggiore titolo di merito, nel panorama della filosofia novecentesca, è stato - a nostro avviso - aver recuperato la centralità del concetto di persona.

Per lui, la persona non s'identifica con l'anima, né con la sostanza, né con l'oggetto; essa è la «concreta unità d'essere di atti», e perciò è nella esecuzione dei suoi atti, ma non si risolve in essi. Le sue caratteristiche fondamentali sono la spiritualità, l'individualità e l'autonomia.

E, da ciò, ben si vede anche il debito di Scheler nei confronti di Kierkegaard.

 

Ha scritto di lui Michele Federico Sciacca (in La filosofia oggi, vol. 1, Marzorati, Milano, 1958, p. 229):

 

Scheler resta il filosofo della persona e, come tale, ha influenzato il pensiero contemporaneo. Fenomenologo in maniera personale, segna il punto di passaggio dalla fenomenologia all'esistenzialismo. Nella patria del trascendentalismo egli rappresenta la più energica ed efficace protesta contro il trascendentalismo stesso, una delle voci più robuste e più vive in favore dell'essenza della persona, della trascendenza e personalità del divino; nella patria del vitalismo, o almeno dove il vitalismo ha raggiunto le sue forme più paradossali e primitive, egli ha difeso energicamente la distinzione fra vita biologica e vita spirituale, fra valori vitali e valori spirituali e religiosi ed il primato di questi ultimi; nella patria negatrice del vero spirito del cristianesimo e della sua etica (Nietzsche), egli ha posto il valore del Sacro al culmine della gerarchia dei valori; nella patria di Hegel (che ammazza l'uomo nell'Idea e l'idea nel dialettismo storicista) e di Marx (che ammazza l'uomo nell'«economico», rappresenta il più efficace ritorno all'uomo e all'umano, tanto caratteristico del nostro tempo, pur così inumano.