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L'oggettualità del mondo e il ruolo della persona nel «realismo critico» di Nicolai Hartmann

di Francesco Lamendola - 06/06/2008

 

 

 

Abbiamo visto, nel precedente articolo Non si dà, per l'etica di Max Scheler, amore del bene, ma solo amore della persona (consultabile sul sito di Arianna Editrice), come la ricerca filosofica di Max Scheler si possa considerare alla stregua di una prosecuzione, nell'ambito dell'etica, della fenomenologia husserliana, ambito che il maestro aveva trascurato. E abbiamo anche visto come tale ricerca fosse approdata a degli esiti di tipo realistico, nel senso che Scheler era giunto ad affermare l'esistenza di un mondo oggettivo dei valori, i quali non sono affatto prodotti dagli uomini, ma esistono come realtà assolutamente indipendenti.

Ebbene, un percorso analogo è quello tracciato da un altro importante esponente della scuola di Marburgo, dalla quale si staccò per seguire una propria strada: Nicolai Hartmann (Riga, 1882 -Gottinga, 1950), che occupa una posizione autonoma e ben definita nel panorama della filosofia tedesca ed europea.

Le sue opere più importanti sono: La logica platonica dell'Essere (1909); Lineamenti di una metafisica della conoscenza (1921); La filosofia dell'idealismo tedesco (2 voll., 1923-29); Etica (1926); Il problema dell'essere spirituale (1933; quella che A. Banfi giudicava la più bella opera del filosofo); Per la fondazione dell'ontologia (1935); Possibilità e realtà (1938); La costruzione del mondo reale (1940); La nuova via dell'ontologia (1941);  Filosofia sistematica (1942); Filosofia della natura (1950); Estetica (1953, postuma).

Formatosi in ambito neokantiano e divenuto poi successore di Paul Natorp all'Università di Marburgo, si allontana dal neocriticismo per aderire alla fenomenologia di Husserl e insegna, successivamente, a Colonia, Berlino e Gottinga. Tuttavia Nicolai Hartmann, così come Max Scheler, pur riprendendo il metodo fenomenologico, in contrasto con l'indirizzo soggettivistico dello stesso Husserl e dei suoi successori, lo sviluppa in senso realistico. E, così come Scheler postula l'essere del valore, che è dato in modo diretto e immediato all'esperienza emotiva, così Hartmann si concentra sul problema ontologico e formula una teoria dell'essere, in base alla quale l'oggetto della conoscenza è una realtà che non viene modificata dalla relazione conoscitiva in cui viene posta dal soggetto conoscente.

Tutta l'impostazione di Hartmann circa il problema dell'essere denota l'esigenza di una ontologia realistica, per cui la sua ricerca si caratterizza in senso spiccatamente anti-idealistico. Egli sostiene che «La conoscenza non è un foggiare, un generare, un produrre l'oggetto come vuole l'idealismo antico e moderno, ma è un apprendere qualcosa che è presente anche prima ed indipendentemente da essa».  Ma come arriva, il filosofo tedesco, a giustificare criticamente una affermazione di questo genere?

Egli parte dall'osservare che, nell'atto conoscitivo, si trovano uno di fronte all'altro il soggetto e l'oggetto, il conoscente e il conosciuto. Il soggetto desidera apprendere ciò che sta fuori di lui, ossia l'oggetto, e si sforza di farlo mediante un atto della volontà (cfr. l'«intenzionalità della coscienza» di Max Scheler). E tuttavia, l'intenzionalità non è sufficiente a fondare ontologicamente l'oggetto, il quale potrebbe benissimo essere solo immaginato (e qui, non può non venire alla mente l'ipotesi cartesiana del diavoletto ingannatore, il quale ci vuole illudere circa l'esistenza di un mondo reale al di fuori di noi stessi). Il senso comune ci dice che esistono, indipendentemente da noi, gli oggetti che noi percepiamo; ma questo non può bastare al filosofo, bisogna andare oltre il dato del senso comune e fondare criticamente l'ontologia.

Per farlo, Hartmann introduce la fondamentale distinzione fra obbiettazione ed obbiettivazione: la prima consiste nella datità dell'oggetto di fronte al soggetto, nel suo essere irriducibile al soggetto, in quanto fondato nell'essere; la seconda è la trasformazione dell'elemento soggettivo in qualcosa di oggettivo.

Scrivono Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero in Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino, 1992, vol. 3, p. 513:

 

…La sua tesi fondamentale [di Hartmann] è che l'oggetto della conoscenza è una realtà che non viene modificata  dalla relazione conoscitiva in cui viene a trovarsi. "Essere oggetto" significa etimologicamente essere buttato contro, dato, offerto ad un soggetto. Ma questa "obbiettazione" non muta affatto la natura dell'oggetto che rimane quale era senza di essa. Obbiettazione non significa obbiettivazione, che è invece il processo opposto, per il quale qualcosa d soggettivo diventa oggettivo. L'obbiettazione ha invece il suo fondamento nell'oggetto, cioè nell'essere, non nel soggetto. L'essere, la realtà, rimane sempre al di là  della conoscenza anche quando diventa oggetto della coscienza.  La conoscenza è un atto trascendente, cioè un atto che va al di là della coscienza, verso la realtà indipendente che è l'oggetto della coscienza stessa.

Queste tesi di Hartmann costituiscono la forma tipica del realismo contemporaneo. Hartmann ha poi costruito un'intera metafisica della realtà trascendente, considerando l'essere stratificato in vari piani, che vanno dall'essere semplicemente ideale alla natura inorganica, alla natura organica, alla realtà psichica e alla realtà spirituale, e riconoscendo che in tali piani agiscono sia princìpi comuni a tutti i piani sia principi che sono propri a ciascun piano (La costruzione del mondo reale, 1940). Egli ha inoltre insistito sul fatto che ogni piano dell'essere è regolato dai princìpi o dalle categorie che gli presiedono in modo tale che tutto ciò che accade in esso è necessariamente determinato ad accadere (Possibilità e realtà, 1938).

 

Dunque, per Hartmann il conoscere trascende il soggetto e la coscienza, e giunge a cogliere il fenomeno, capovolgendo la posizione kantiana secondo la quale noi non possiamo conoscere la cosa in sé, il noumeno, ma solo il fenomeno. Hartmann, invece, sostiene che ciò che appare è un fenomeno, nel senso di "cosa in me", da cui si può inferire l'esistenza della "cosa in sé". Ne deriva un dualismo gnoseologico, per cui la conoscenza è apprensione di una realtà in noi, di un contenuto di coscienza, che è rappresentazione di una realtà che trascende la coscienza stessa (Baravalle). Il conoscere è una relazione trascendente, e l'apprensione del reale non è immediata - così come,  nell'etica di Scheler, il valore è dato direttamente alla coscienza nell'intuizione emotiva - bensì avviene in maniera mediata: dalla cosa in me alla cosa in sé.

Ne deriva che al momento fenomenologico, ossia puramente descrittivo, della conoscenza, Hartmann fa seguire un momento aporetico e un momento teorico: con il primo vengono mostrate le contraddizioni del fenomeno, col secondo si propongono soluzioni circa il problema del fondamento della conoscenza, ossia il problema dell'essere. Si realizza, pertanto, un pieno superamento della fenomenologia, poiché, muovendo da un atteggiamento puramente descrittivo del fenomeno, si procede alla fondazione di una vera e propria ontologia critica. Certo, non è possibile andare oltre l'aspetto probabilistico della conoscenza, in quanto l'esistenza oggettiva di una realtà che trascende la sua rappresentazione è postulata essenzialmente sulla base di criteri emozionali e affettivi.

A rigore, tutto quello che possiamo dire con certezza dell'oggetto, e quindi dell'essere, è che esso oppone una resistenza allo sforzo conoscitivo del soggetto, il quale ultimo può veder realizzata la sua aspirazione, ma può anche rimanere frustrato. Il soggetto, allora, fa l'esperienza della propria impotenza e percepisce l'essere come quell'ostacolo che si oppone alla sua aspettativa, al suo desiderio e alla sua speranza. La "cosa in sé" kantiana, il noumeno, mostra qui la sua duplice natura: da un lato si suppone costituisca il fondamento di una realtà oggettiva, irriducibile alla struttura trascendentale della coscienza; dall'altro è il limite, la soglia insuperabile della conoscenza stessa, lo scacco alla intenzionalità del conoscere.

 

Alcune importanti conseguenze scaturiscono da questa impostazione dell'atto conoscitivo e del fondamento dell'essere.

La prima è la doverosa accettazione del carattere necessariamente metafisico della filosofia. carattere metafisico che, tuttavia, esclude ogni approccio gnoseologico basato su conoscenze privilegiate o geniali intuizioni; mentre implica una ricerca puntuale e rigorosa, metodicamente fondata, dei vari "strati" (per usare l'espressione hartmanniana) dell'essere: dal fondamento materiale dell'esistenza naturale, su su, fino alla sfera dei valori, alle strutture soggettive della personalità, alla sfera delle più alte realtà spirituali.

La seconda conseguenza è che, nella prospettiva del realismo di Hartmann, si verifica un vero e proprio capovolgimento della concezione idealistica del mondo. Il campo delle realtà possibili e spirituali, infatti, non solo non eccede quello delle realtà effettuali, sia naturali che storiche, ma, anzi, si presenta come inferiore e sottoposto ad esso, e ciò per la buona ragione che la sfera del possibile è vista non come più vasta e ricca di quella effettuale, ma come espressione di una realtà parziale e incompleta.

La terza conseguenza è che la realtà è destinata a rimanere sempre, inevitabilmente, al di là della coscienza che cerca di afferrarla. Il soggetto, quindi, non riuscirà mai a padroneggiare pienamente l'oggetto; e nascerà, così, il "sentimento del problema", ovvero la consapevolezza che quanto noi possiamo conoscere sarà sempre inadeguato rispetto alla realtà.

La quarta conseguenza è che, per quanto l'ontologia si sforzi di allargare l'ambito della nostra conoscenza, la metafisica, intesa come scienza della totalità, è francamente irrealizzabile (e qui si attua una significativa convergenza con il criticismo, quasi un ritorno a Kant, dopo essersene decisamente distaccato nei passaggi precedenti).

Hartmann giunge così a una concezione pienamente anti-metafisica, che così commenta Giovanni Di Napoli (in Storia della Filosofia, Marietti, Torino, 1968, vol. 3, p. 263):

 

…Hartmann intende rivendicare, partendo dall'intenzionalità del conoscere, l'autonomia della realtà come ente; l'ontologia per lui deve essere alla base di tutte le discipline filosofiche e scientifiche; per tale dottrina la posizione dello Hartmann può venire qualificata come realismo.(…) Tuttavia egli afferma che il conoscere umano, pur potendo e dovendo costruire un'ontologia generale prima delle ontologie regionali, non può pervenire al significato fondamentale della realtà, come affermando un Principio assoluto o Creatore del reale; per lui la realtà è quella dell'esperienza, di cui l'ontologia studia gli aspetti generali, lasciando alle altre discipline la considerazione dei vari settori del reale; un'ontologia, o teoria dell'ente, è possibile e doverosa, mentre una metafisica, come dottrina della realtà come totalità avendo come orizzonte l'Assoluto, è impossibile.

 

Ma, se la metafisica, nel senso pregnante del termine, è impossibile, impossibile sarà anche la teologia, e il problema di Dio dovrà essere abbandonato.

Data quest'ultima affermazione, ci si potrebbe aspettare che la filosofia di Hartmann sfoci in un franco e dichiarato agnosticismo. Invece, in nome della assoluta autonomia dell'etica, che Hartmann mutua da Max Scheler - ma accentuando il carattere obiettivo e trascendente dei valori - il filosofo tedesco giunge ad un esplicito ateismo postulatorio. Egli, cioè, nega l'esistenza di Dio, perché se Dio esistesse, ciò annullerebbe la libertà della persona umana.

Ci riserviamo di riprendere questo punto della filosofia di Hartmann in una apposita sede, per l'importanza che esso riveste nel panorama del pensiero contemporaneo. Per ora, ci limitiamo a osservare che si tratta, a nostro avviso, di una conclusione che esorbita dalle premesse, in quanto la sua ontologia si basa proprio sulla sostanziale coincidenza, nell'essere, delle due categorie della possibilità e della necessità. Hartmann, pertanto, con l'affermazione dell'ateismo postulatorio, viene a porsi in grave contraddizione con se stesso, là dove aveva sostenuto - coerentemente con il suo realismo ontologico - che possibilità e necessità non sono due modi distinti e antitetici dell'essere, bensì modi relativi all'essere effettuale.

Scrive, in proposito, Gabriele Giannantoni (in la ricerca filosofica. Stria e testi, Loescher Editore, Torino, 1985, vol. 3, p. 437):

 

Hartmann sottolinea da un lato la" aporeticità", cioè la problematicità, della ricerca filosofica, e dall'altro la "trascendenza" dell'atto conoscitivo, che non esaurisce né il soggetto né l'oggetto e che, lasciando sussistere un "residuo transobbiettivo" (ciò che dell'oggetto non entra nel rapporto conoscitivo), offre la possibilità di costruire una "ontologia critica", diversa da quella tradizionale che considerava la sfera dell'essere identica a quella del pensiero. Dunque, contro l'intentio obliqua introdotta dall'idealismo (riduzione dell'oggetto al soggetto, ripiegamento della coscienza su se stessa), la fenomenologia ha avuto il merito di ristabilire l'intentio recta, della coscienza verso l'oggetto, ma il suo limite sta nel chiudersi nel fenomenico e nel precludersi l'essere. La filosofia invece non può studiare ed elaborare le categorie (secondo quanto insegnano i Greci) se non come categorie dell'essere e non del pensiero.  In questo senso Hartmann si rifà all'argomento "dominatore" del megarico Diodoro Crono per mostrare che la "possibilità" e la necessità" non sono altro che modi relativi dell'essere nella sua "effettualità", cioè nel suo essere semplicemente così com'è: «l'effettualità dell'effettuale consiste nell'essere insieme possibile e necessario… il reale effettuale a ogni tempo non può essere diverso da come è, e sebbene possa diventare diverso da come è, non può diventare diverso da come diventa». Con il che è esclusa la possibilità di concepire la libertà.

 

In un nostro precedente lavoro, Conversazioni filosofiche: Seconda parte, Ordine e disordine; quarto giorno: tempo e irreversibilità (sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice), avevamo riportato la precisa affermazione di Hartmann  (cit. in A. Pieretti, Storia del pensiero occidentale, vol. 6, Milano, 1975, p. 292): «sul piano dell'essere reale, la possibilità consiste nell'insieme delle condizioni che debbono essere soddisfatte perché esso esista di fatto. Essa coincide perciò con la necessità».

Se, dunque, il modo dell'essere effettuale è contemporaneamente possibilità e necessità, non si vede perché, nel campo dell'etica, la libertà dell'uomo dovrebbe contrapporsi alla necessità di Dio. Non dovrebbero porsi, invece, come due punti di vista - l'uno relativo, l'altro assoluto - di una medesima realtà effettuale?

Ma c'è un'altra conseguenza ancora, derivante dalla negazione della necessità di un Principio originario, e cioè l'irrazionalità del mondo.

Osserva S. Vanni Rovighi (in L'Ontologia di Niclai Hartmann, in Rivista di filosofia neoscolastica, XXXI, 1939:

 

[Hartmann] definisce inizialmente la necessità come dipendenza da altro; ora da questa concezione iniziale scaturisce logicamente l'affermazione che l'Assoluto è non necessario, contingente.

Ma cosa significa precisamente questa affermazione? Significa che nessuna cosa può avere in se stessa, nella sua natura, la giustificazione del suo essere. Ogni cosa spiegabile, per dir così, ha la sua spiegazione in un'altra da cui dipende, e quando si arriva al Primo ente, che non dipende da altri, ci si trova di fronte a qualche cosa che è casualmente, senza ragione.

Negare che esista un ente assolutamente necessario significa affermare che la realtà è nel suo fondo irrazionale.

Hartmann afferma questo senza alcuna giustificazione, poiché, come vedemmo, la sua teoria è già implicita nella definizione del necessario come necessario, auf Grund von etwas.

Ora possiamo domandarci: è lecito affermare così, inizialmente, senza giustificazione l'irrazionalità del reale?

 

Nonostante il suo fondo irrazionalistico e pessimistico, nonostante il suo ateismo e le sue implicazioni antimetafisiche, il pensiero di Nicolai Hartmann è un pensiero vivo e fecondo, dal quale si può ben dissentire, ma che non manca di stimolare e interrogare tutti coloro che lo avvicinino con mente aperta e con spirito costruttivo.

Hartmann, fra l'altro, è stato uno dei filosofi del Novecento che si sono preoccupati di dare una definizione di ciò che è persona e di indagare quale rapporto esista fra la persona e il soggetto da un lato, fra la persona e l'Io dall'altro.

Poiché riteniamo che molti degli aspetti negativi della modernità siano conseguenza dello scadimento del concetto di persona nel firmamento della speculazione contemporanea, ci piace riportare una pagina dedicata a questo argomento, tratta da una delle opere più ricche e penetranti di questo filosofo, Il problema dell'essere spirituale (titolo originale: Das Problem des geistigen Seins, Walter de Gruyter & Co., Berlin,  1933; traduzione italiana di Alfredo marini, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1971, pp. 167-170).

 

Mentre è ancora possibile considerare il soggetto come se fosse solo nel mondo che rende oggetto per sé, nel caso della persona ciò non è più possibile, se non in un'astrazione la quale dovrebbe necessariamente ignorare quella che, della persona, è l'essenza vera. Le persone coesistono già sempre in una comune sfera spirituale nella quale si muovono ed entrano in relazione. Ma questa sfera, a sua volta, non è più caratterizzabile in base alla personalità, perché comprende le persone a un livello obbiettivo, fa parte del mondo totale in cui esse vivono, costituisce il piano delle loro azioni e reazioni, è, insomma, il loro comune mondo spirituale, è spirito obbiettivo e storico. In quanto tale, esula da questo contesto e richiede una ricerca specifica.

Non ci nasconderemo certo che questa caratterizzazione dello spirito personale sconfina già nel campo dello spirito obbiettivo: ciò è implicito nel contesto stesso della cosa ed è, quindi, inevitabile. Avvertiamo però che non è affatto contraddittorio caratterizzare la personalità in base a fenomeni spirituali sovrapersonali e questi, di nuovo, in base a fenomeni personali. Non si tratta, infatti, di una costruzione sintetica, nella quale non potremmo procurarci i mattoni per i piani inferiori prelevandoli dai piani superiori. Prima di potersi permettere costruzioni di questo tipo, il nostro tempo ha ancora una lunga strada da percorrere nello studio dei problemi spirituali. Il nostro compito, molto più modesto, è quello di analizzare un vasto e complesso fenomeno rispettandone l'unità e, tuttavia, affrontandolo per tematizzazioni parziali e successive. Il procedimento descrittivo è libero di predisporre tutto ciò che appartiene al fenomeno totale. Ciò che non può fare, invece, è chiarirne tutti gli aspetti in una volta sola. È, questo, un procedimento che distingue ma non isola.

L'uomo sta di fronte all'uomo non come soggetto ma come persona e, nella vita, i suoi antagonisti sono le persone. Che intanto sia anche un soggetto ed abbia di fronte a sé una soggettività estranea, resta vero.. Ma il suo rapporto agli altri viventi e al mondo comune non si esaurisce nell'esser-per-lui del mondo; tanto più che gli altri, e proprio "per lui", non si riducono a meri oggetti. Si rileva, qui, un altro legame tra l'uomo e il mondo rimasto oscuro finora: il suo proprio essere-per-il-mondo. Se il mondo è oggetto "per lui", è per lo stesso mondo che egli, a sua volta, è qualcosa. Ma ciò che egli è per il mondo è qualcosa di ben diverso, perché l'uomo non è oggetto per il mondo, né puro soggetto del suo esser-per-lui, ma una creatura che in esso opera e soffre, gode e produce; che nel mondo ha il proprio destino e a sua volta diventa destino per il mondo. Tra lui e il mondo c'è un rapporto dinamico di reciprocità, un formare e un venir formato. Nel mondo e per il mondo, l'uomo è anche un principio di creatività perché, nei limiti delle sue capacità, contribuisce a determinarlo e a trasformarlo in una misura che, per il mondo stesso, risulta essere decisiva. Anche se il suo agire può sempre perdersi nella vastità del mondo, le forme che egli vi crea appartengono a uno speciale livello d'essere e costituiscono un mondo dello spirito entro lo stesso mondo non-spirituale. Infatti, il mondo non è mai compiuto ma lascia spazio alla creatività. L'essere personale contribuisce alla creazione del mondo. (…)

L'obbiettività è inscindibile dalla soggettività, la coscienza oggettuale dall'autocoscienza. Ciò significa che il fenomeno dell'io è connesso al fenomeno della conoscenza. Ma quello che nella vita noi chiamiamo "io", questo qualcosa di interiore che nell'espressione linguistica si presenta come "prima persona", non è un puro soggetto ricavabile come l'opposto degli oggetti. Ma è piuttosto la persona che, parlando d sé, dice "io"; mentre il suo interlocutore non è tanto la cosa che so dà oggettualmente, quanto l'altra persona che le è data "tu" - la "seconda persona", come dicono i grammatici. Solo nei rapporti personali l'"io" è quello che è: la forma in cui la persona intimamente sa di sé - mentre sa di altre persone.

Ma neppure il "sapere" esprime il rapporto effettivo: perché proprio nei confronti del "tu" la relazione primaria non è quella del soggetto che sa, ma quella della persona che agisce e subisce azione. E ciò che vale per il rapporto al compagno-uomo vale anche per il rapporto alle cose, agli stati di cose, alle situazioni, alle circostanze della vita, insomma: al mondo. "Io" lavoro, "io" voglio qualcosa, "io" mi trovo a mio agio in certe circostanze. Questa è l'espressione che naturalmente la persona, a seconda del suo rapporto di vita, usa per sé. Ed è un'espressione molto più originaria dell'"io penso", col quale il filosofo compie la sua riflessione sul soggetto. Da Cartesio a Kant, a Fichte, il concetto filosofico dell'io si è fissato, a torto, sempre più esclusivamente sul rapporto teorico al mondo. A questo proposito è opportuno precisare che l'"io" è, sì, espressione di un'autocoscienza e, quindi, effettivamente di un sapere; ma ciò che questo sapere sa, non è il soggetto del sapere  ma la persona immersa nel mondo della vita, che muove le cose e tratta con altre persone. È l'espressione concettuale della coscienza personale testimone di sé.

Un "io" impersonale è impossibile quanto un "tu" impersonale. Il linguaggio, coll'evidenziare questi caratteristici pronomi personali e le forme personali del verbo, dà chiara prova della posizione centrale che i rapporti personali occupano nel pensiero e nella vita dell'essere spirituale. Prima dell'essere spirituale non vi è un essere del soggetto - così come non c'è un essere della conoscenza senza quello della volontà, del sentimento, o dell'azione con tutti i suoi effetti. Quello che chiamiamo "io" è l'autocoscienza che emerge dalla pienezza e dalla varietà dei contesti di vita: è solo a questa autocoscienza che il soggetto aderisce in quanto è sapere di sé per la mediazione dell'oggettività.