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Se i fondi cinesi comprano Manhattan

di Massimo Gaggi - 06/06/2008

 

 

La Freedom Tower, il grattacielo di 540 metri simbolo della rinascita di New York dopo l’attentato del 2001 alle Torri gemelle, ospiterà al suo interno anche il China Center, un istituto dedicato alla promozione della cultura cinese nel mondo del «business», oltre che allo sviluppo degli affari tra gli Usa e il Paese asiatico. La torre di 102 piani con la quale si cerca di rimarginare la ferita di «Ground zero» viene presentata dalla città di New York come la sua nuova grande calamita commerciale, ma fin qui solo il governo federale e quello dello Stato si sono impegnati ad affittarne una parte, senza tuttavia poter ancora indicare quali uffici verranno trasferiti nell’edifico. Quello firmato da Vantone, una società immobiliare di Pechino, per gli spazi compresi tra il 64 ° e il 69° piano è il primo contratto significativo ottenuto dai proprietari dell’edificio la cui costruzione procede tra molte difficoltà. È uno dei segnali dell’attivismo delle società cinesi che approfittano del calo del dollaro per comprare pezzi di Manhattan.

 

Qualche decina di isolati più a nord un’altra torre celebre - quella un tempo occupata dal quartier generale della General Motors - è stata venduta per 2,9 miliardi di dollari, la cifra più alta mai pagata per un singolo edificio, alla Boston Properties: un’immobiliare dietro la quale ci sono i capitali dei «fondi sovrani» di alcuni Paesi arabi con le casse zeppe di petrodollari. E, intanto, anche gli uomini delle finanziarie governative di Abu Dhabi e Dubai continuano a battere New York a caccia di buoni investimenti. 

 

Quando, l’anno scorso, i cinesi entrarono nel capitale di Blackstone, il gigante del «private equity», mentre altri «sovereign funds» diventavano azionisti di alcune banche di Wall Street in difficoltà, l’America cominciò a vivere nell’incubo dell’invasione finanziaria. Al Congresso molti parlamentari chiesero norme capaci di limitare l’attività di fondi che, essendo posseduti dai governi e non da investitori privati, erano sospettati di operare con logiche politiche anziché di mercato.

 

A Washington la disputa tra chi vorrebbe limitare l’operatività di questi fondi e i sostenitori di un «free trade» assoluto e reciproco si è risolta da sola: la crisi creditizia degli ultimi mesi ha distrutto buona parte del valore degli investimenti fatti da questi «sovereign funds» nelle banche, spingendoli a battere in ritirata. 

 

Per «riciclare» i petrodollari non restava che il vecchio «mattone sicuro». Che però, con la «bolla» immobiliare e la crisi dei mutui, tanto sicuro non è più, almeno negli Usa. New York, che rimane un grande «hub» mondiale, è sembrato a questi investitori il mercato meno vulnerabile e così in cima ai grattacieli di Manhattan sono cominciate a spuntare bandiere arabe e asiatiche. Per il miliardario Warren Buffett, un investitore di cui tutti celebrano la saggezza, c’è poco da storcere il naso: «Chi, come l’America, pensa di vivere con un deficit permanente degli scambi commerciali deve rassegnarsi a vendere ogni anno un pezzetto del Paese».