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Il volto dei bananeros

di Raffaele Ragni - 07/06/2008

 

Il volto dei bananeros



Tra le multinazionali del settore bananiero, la più trasparente sembra essere Chiquita Brands International, nome che raggruppa circa 33 marchi con cui vengono prodotti e commercializzati, non solo banane e frutta esotica, ma anche succhi di frutta, insalate, ingredienti per l’alimentazione. Fondata nel 1899 dal capitano Dow Baker come United Fruit, e ribattezzata con l’attuale ragione sociale nel 1990, in un secolo di storia è stata coinvolta in intrighi internazionali, scioperi repressi con violenza, corruzione, scandali e colpi di Stato in America Latina. Ma da qualche anno le cose sono cambiate.
Nel 1992 è iniziata la collaborazione con Rainforest Alliance, una delle tante organizzazioni non governative (ONG) impegnate nella definizione di standard per l’agricoltura sostenibile nei Paesi tropicali. Nel 1998 è stato definito un nuovo codice di condotta, basato su quattro valori fondamentali - integrità, rispetto, opportunità, responsabilità - ed ispirato alle norme SA8000 (social accountability) per la tutela dei diritti dei lavoratori. Dopo anni di ispezioni, propaganda buonista ed investimenti finalizzati al miglioramento dei processi produttivi, hanno cominciato a piovere certificazioni di qualità per tutte le piantagioni di proprietà Chiquita in America Latina. L’anno della svolta è stato il 2001 quando, nell’ambito di un riassetto proprietario seguito ad una grave crisi finanziaria, alcune banche hanno accettato di trasformare i loro crediti in quote di capitale. Mentre in precedenza la proprietà poteva essere ricondotta alla famiglia di Carl Lindner, oggi domina un azionariato diffuso, che impone maggiore trasparenza.
Indiscutibile è il valore formale dei riconoscimenti ricevuti, soprattutto quando nelle commissioni giudicanti siedono rappresentanti del fair trade e di organizzazioni new global, quelli che sognano un mondialismo buono e sono abili nel passare dalla critica all’apologetica nella misura in cui vengono cooptati negli apparati marginali dell’oligarchia. Ma il problema non è formale, è sostanziale e riguarda il reale rispetto delle procedure certificate. Ammesso che nelle piantagioni Chiquita vengano rispettati l’ambiente e i diritti dei lavoratori, cosa accade nelle piantagioni dei loro fornitori? Infatti, solo un terzo dei prodotti Chiquita Brands viene coltivato in piantagioni di proprietà. Il resto è comprato da coltivatori locali. Essi si distinguono in fornitori abituali ed occasionali. I primi, che sono la grande maggioranza, hanno contratti non pluriennali, ma rinnovabili annualmente. I secondi effettuano forniture spot, senza alcun impegno contrattuale.
Laddove c’è un contratto di fornitura, la multinazionale ha facoltà di imporre il rispetto dei suoi standard di qualità, sia dei prodotti che dei processi. George Jaksch, senior director Corporate Social Responsability (CSR) and Public Affairs di Chiquita Brands International - intervistato da Rinascita a margine di un recente convegno sulla responsabilità sociale d’impresa tenuto dall’Università Lumsa di Roma - ha dichiarato che funzionari Chiquita effettuano ispezioni periodiche, talvolta giornaliere, nelle piantagioni dei fornitori abituali e, in caso di violazioni dei diritti umani, non si limitano ad ammonimenti formali ma possono arrivare a rescindere il contratto.
Diversa è l’opinione di Ricardo Flores - direttore generale di Brundicopi, sussidiaria di Chiquita in Ecuador - riportata nel libro intitolato “Bananeros, viaggio nelle piantagioni di banane tra sfruttamento e libertà” (2004). Egli dichiara testualmente: “Dovremo convincere i fornitori a rispettare il codice di condotta, ma non siamo nella posizione di richiederlo formalmente, possiamo solo tentare di convincerli che è una cosa buona. Non possiamo pretenderlo da nessuno”. Si difende così dalle accuse seguite alla pubblicazione del rapporto Tainted Harvest (2002) - che significa raccolto contaminato - elaborato da Human Rights Watch, secondo cui oltre la metà delle piantagioni in cui sono emersi gravi violazioni di diritti umani (lavoro minorile, esposizione a sostanze nocive, abusi sessuali) sono fornitori di Chiquita.
Considerati gli anni trascorsi da quel rapporto, è probabile che le cose siano cambiate e la clausola di rescissione, di cui parla George Jaksch, oggi compaia effettivamente nei contratti di fornitura. I casi di violazione dei diritti umani, denunciati da sindacati ed organizzazioni umanitarie, non sarebbero quindi imputabili a Chiquita Brands International ma ai coltivatori locali, soprattutto quelli occasionali. Non sappiamo se in questa categoria rientri anche Frutera Internacional Sociedad Anónima, cui apparteneva Miguel Ángel Ramírez e gli altri lavoratori del settore bananiero vittime di violenze in Guatemala negli ultimi mesi. Avendo accolto gli appelli alla solidarietà internazionale rivolti dai sindacati Sitrabansur e Sitrabi, li indirizziamo a Chiquita, augurandoci che faccia pressioni sul presidente guatemalteco Alvaro Colom affinché i responsabili delle violenze siano puniti.
Un crescente impegno nel pretendere da tutti i fornitori il rispetto degli standard certificati ed applicati nelle sue piantagioni, è il minimo che possiamo attenderci da una multinazionale che si distingue dalla concorrenza, non solo per il bollino blu appiccicato alle banane, ma per l’atteggiamento socialmente responsabile verso i lavoratori e l’ambiente. Apprendiamo da George Jaksch che tutti i dipendenti hanno regolari contratti, sicurezza sociale, servizi medici, istruzione per i figli, vacanze retribuite. I materiali plastici usati in produzione non sono gettati nei corsi d’acqua, ma raccolti per essere riciclati. Le donne ricevono lo stesso salario degli uomini, senza subire alcuna discriminazione. Insetticidi e pesticidi sono usati con tutte le dovute precauzioni e nel pieno rispetto delle leggi in vigore. Nel 2001 Chiquita ha aderito ad un accordo quadro con i sindacati dl settore, che impone il rispetto dei diritti sanciti dalla International Labour Organization (ILO).
In tale contesto va inquadrata un’altra iniziativa di grande rilevanza sociale, anche se discutibile nei suoi aspetti finanziari. Tra il 2002 e il 2006, in Honduras - in collaborazione con le autorità locali, il sindacato Sitraterco ed una fondazione appositamente costituita (Fundesula) - sono state costruite abitazioni di circa 46 mq al costo unitario di 8.421 $, vendute ai lavoratori delle piantagioni. Così, tra i 3.700 lavoratori Chiquita in Honduras - in particolare, tra i circa 2.000 iscritti al sindacato - ben 1.250 sono diventati proprietari di una casa, piccola ma accogliente. Progetti analoghi sono stati avviati in Guatemala, Panama, Costa Rica. È sicuramente una buona notizia, soprattutto per chi era abituato a vivere in una baracca. Il problema è a quali condizioni questi lavoratori, che hanno appena il necessario per sopravvivere, hanno ricevuto in prestito il denaro per comprare la loro nuova home sweet home.
La situazione in Honduras è molto critica. Su 7,5 milioni di abitanti, il 70% vive in condizioni di povertà. L’indice generale dei prezzi al consumo, dal 2002 ad oggi, è salito del 51,6%. Il costo della vita di una famiglia media di 5 persone, per un paniere di 30 prodotti di base, è arrivato a 280 $ al mese, a fronte di un salario minimo di 180 $. Attualmente un lavoratore Chiquita guadagna in media 13 $ al giorno. Secondo fonti sindacali, erano appena 4,91 $ nel 2004, quando fu richiesto un aumento fino a 8,60 $ proprio per pagare le nuove abitazioni. All’epoca veniva anche contestata l’iniziativa aziendale di eliminare le strutture per il trasporto automatizzato dei caschi di banane, imponendo ai lavoratori di portarli legati addosso, come agli inizi del secolo scorso. Ciò al fine di abbattere i costi ed aumentare i volumi di prodotto movimentati.
A quanto pare, dopo un’estenuante trattativa, le richieste dei lavoratori sono state accolte. Il salario attuale, proiettato a livello mensile, è compreso tra i 293 $ ed i 351 $, indubbiamente superiore ai minimi contrattuali, ma poco al di sopra della soglia di sopravvivenza, con una conseguente limitata propensione al risparmio delle famiglie. A questi lavoratori è stato offerto un mutuo ipotecario per l’acquisto di una casa, alle seguenti condizioni: somma erogata 4.631 $, durata dai 5 ai 10 anni, tasso variabile. La rata parte da un minimo del 9%, se il mutuo è contratto con Banhprovi (Banco Hondure?o para la Producción y la Vivienda), fino ad arrivare al 16%, se è erogato dalla Atlantida Bank, ed al 18% se è offerto dalla FUNDEVI (Fundación para el Desarrollo de la Vivienda Social Urbana y Rural) di cui fa parte la KfW, una banca tedesca fondata nel 1945, che ha fatto affari prima nel ricostruire la Germania devastata dai bombardamenti americani ed ora lucra nel ricostruire il Terzo Mondo sfruttato dal neocolonialismo occidentale. Un tasso d’interesse che arriva massimo al 18% non è male, in un Paese dove la media attuale, secondo i dati forniti dalla banca centrale dell’Honduras, oscilla dal 12% al 34% per le banche commerciali, e dal 11% al 37% per gli organismi associativi. Il problema è un altro. Dopo la crisi finanziaria innescata dai subprime americani nell’estate del 2007 - non ancora assorbita ed ancora temuta - non è certo un buon affare contrarre un mutuo ipotecario, soprattutto oltreoceano. Ciò premesso, bisogna considerare che questi lavoratori hanno un mutuo a tasso variabile, e non fisso, in un Paese ad inflazione galoppante. Potranno diventare effettivamente proprietari della casa solo dopo aver pagato tutte le rate. E ci potranno riuscire solo se l’azienda vorrà adeguare costantemente i salari al costo della vita.
Una multinazionale come Chiquita, così socialmente responsabile, saprà rispondere adeguatamente a questa ed altre esigenze dei lavoratori. Tuttavia non riusciamo a capire perché, nell’offrire una casa ai propri dipendenti, abbia voluto dare un’opportunità di lucro anche alle banche. L’intermediazione usuraia potrebbe essere eliminata con una formula semplicissima, chiamata mutuo sociale. In breve, poiché Chiquita è proprietaria dei terreni su cui si costruiscono le case, potrebbe edificarle essa stessa e darle in fitto ai suoi dipendenti, a fronte di un versamento mensile contenuto, sicuramente adeguato all’inflazione annuale ma senza alcun interesse, facendo valere quei versamenti come rate di un mutuo. Quando il lavoratore avrà versato per intero l’ammontare pattuito, diverrà proprietario dell’abitazione. Ad ogni versamento acquisisce una quota crescente della proprietà, rivendibile in caso di necessità.
L’abitazione invece non è alienabile per intero ad altri proprietari che non siano lavoratori della piantagione. Per evitare che ciò avvenga, può essere stabilito che Chiquita conservi sempre un 5% della proprietà. In tal modo, oltre ad eliminare il lucro usuraio, si otterrebbe una maggiore identificazione del lavoratore con l’azienda ed una vera sintonia di interessi.
Il subcomandante Mracos, in uno dei suoi primi discorsi ai ribelli del Chapas, disse: “Questo non è ancora il cammino, è soltanto il primo passo”. Il mutuo sociale, applicato da una grande multinazionale, non è certo socialismo, è solo paternalismo padronale. Non è neanche il primo passo verso la responsabilità sociale d'impresa, verso cui Chiquita si è da tempo indirizzata. Tuttavia potrebbe rappresentare un esempio di come capitale e lavoro, creando benessere, riescono al tempo stesso a sconfiggere il potere usuraio.