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Dal male di vivere alla depressione

di Pasquale Rotunno - 07/06/2008

 



Dilaga in psichiatria la tendenza a considerare gli antidepressivi come gli unici strumenti terapeutici disponibili per alleviare la depressione. Eppure, quest’ultima non è solo un fenomeno clinico. Ma una modalità strutturale dell’essere umano. Come tale da sempre presente nella cultura, nella letteratura, nell’arte, in breve, nella storia dell’uomo.
Attualmente la depressione è considerata la patologia più frequente ed economicamente onerosa.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) prevede che per il 2020 essa sarà la patologia che occuperà il secondo posto, subito dopo le malattie cardiovascolari. Al momento, si considera che il 10-15% della popolazione mondiale ha avuto o avrà uno o più episodi depressivi. Negli Stati Uniti ci sono 19 milioni di depressi, pari al 6% della popolazione totale; in Italia la stima è di circa 5 milioni, pari al 12% della popolazione (con un’incidenza doppia tra le donne) e con un costo sanitario totale pari all’1% del Pil.
La depressione non è solo un problema psichiatrico, ma anche sociale ed economico. Per questo occorre conoscere meglio i suoi caratteri clinici e verificare le modalità di intervento terapeutico. Un contributo in questa direzione è offerto dal noto psicoterapeuta Nicola Lalli, docente all’Università di Roma La Sapienza. Nel suo ultimo libro, “Dal mal di vivere alla depressione” (Magi Edizioni), Lalli denuncia i limiti dell’approccio biologico e la mercificazione della sofferenza di tanti pazienti.
Stampa, televisione, persino le riviste specialistiche, descrivono la depressione come la malattia della modernità e del consumismo. E tendono a enfatizzarne l’aumento esponenziale di questi ultimi cinquant’anni. In realtà, la depressione è sicuramente la più antica psicopatologia conosciuta. È stata sempre presente nella storia dell’uomo. Anche se in particolari periodi storici è stata diversamente denominata: melanconia, “taedium vitae”, accidia, “spleen”, nostalgia, e via seguitando. Inoltre, a causa della difficoltà di conoscere la vera epidemiologia della depressione, il criterio utilizzato, è quello di calcolare il numero di pazienti sulla base della quantità di antidepressivi consumati. Si tratta di un modo scorretto di calcolare i malati, afferma Lalli. Perché la facilità e superficialità con la quale vengono prescritti i farmaci antidepressivi, rendono il dato epidemiologico falsato in eccesso. Senza dimenticare che il consumo di antidepressivi è favorito da una campagna sempre più aggressiva da parte delle case farmaceutiche.
La depressione va certo studiata in maniera approfondita. L’80% dei suicidi è dovuto a disturbi depressivi gravi. Nel mondo avviene un suicidio ogni trenta secondi. Il costo sociale è insomma elevato. La terapia psicofarmacologica viene proposta, soprattutto in campo accademico e scientifico, come l’unica valida. Ma bisogna chiedersi se ciò sia vero.
Una massiccia campagna di marketing da parte delle case farmaceutiche, con la collusione delle riviste di psichiatria e dei megacongressi, ha reso gli antidepressivi tra i farmaci più usati in Occidente. Questo aumento, osserva Lalli, “viene surrettiziamente utilizzato per un’altra operazione molto discutibile: rinforzare l’equazione che il maggior consumo sia indizio di efficacia”. Purtroppo, quasi tutte le riviste psichiatriche sono sovvenzionate dalle case farmaceutiche, il che rende inevitabile una collusione, definita dagli psichiatri come il loro “dirty little secret”. In effetti, il 57% degli studi finanziati dalle case farmaceutiche che mostrano l’inefficacia degli antidepressivi non vengono pubblicati. Per ottenere maggiore trasparenza nella ricerca clinica e soprattutto nella pubblicazione dei risultati, l’Oms ha proposto di creare una banca-dati nazionale. Tutte le ricerche devono essere registrate al momento della loro attivazione. Sia quelle dei ricercatori, sia quelle delle case farmaceutiche. Pena il divieto di pubblicazione: in modo da impedire l’occultamento dei risultati negativi.
Alcune ricerche suggeriscono che il 25% degli italiani sarebbe affetto da depressione. Secondo Lalli siamo di fronte a precise strategie di marketing delle case farmaceutiche. Strategie che, rinunciando a possibili codici etici o deontologici, si affidano esclusivamente alla logica del mercato. E uno dei fattori fondamentali di questa logica è quello di creare nuovi bisogni. E quindi nuovi utenti; che in questo caso sarebbero i futuri pazienti-clienti ai quali sono diagnosticate le più varie forme di depressione. Si punta, insomma, ad aumentare il numero dei malati e di malattie con il solo scopo di allargare il mercato della malattia. La spesa per farmaci antidepressivi attualmente si aggira sui 14 milioni di euro (pari all’1% del Pil). Eppure, rimarca Lalli, c’è una situazione schizofrenica. Da un lato, c’è un boom di sempre nuovi farmaci depressivi; dall’altra il numero dei pazienti depressi continua a salire in maniera esponenziale. Delle due l’una: “o l’aumento dei casi di depressione è falso, oppure dobbiamo pensare che i farmaci antidepressivi servono a ben poco”. Ambedue le ipotesi sono parzialmente vere, secondo Lalli. Quindi sono necessarie ricerche serie che possano dimostrare l’importanza dei fattori culturali alla base dell’aumento della depressione. Ma al tempo stesso fornire una corretta informazione in campo medico. Per evitare la diagnosi di depressione davanti a qualsiasi malessere psicologico.
Non ci si preoccupa di scandagliare i modi, e la natura, della depressione che ciascuno di noi può avere. Non si ammette che la depressione possa configurarsi come stato d’animo sfiorato da una tristezza esistenziale o da una tristezza conseguente a un evento vitale. A una situazione che sia portatrice di ansia e di dolore, di sofferenza e scoramento, di inquietudine e di smarrimento, di disperazione e di nostalgia. A una situazione psicotraumatica, insomma, alla quale non è, forse, possibile sfuggire nel corso di una vita. Gli psicofarmaci, si dice, agiscono sia nelle depressioni psicotiche sia nelle depressioni delle persone “normali”. Si diffonde quindi un uso indiscriminato di farmaci ad azione antidepressiva: nel tentativo di cancellare qualsiasi forma di sofferenza e di tristezza possa sfiorare l’esistenza di ciascuno di noi. Non c’è più motivo, allora, di scendere lungo il sentiero misterioso che porta verso l’interno (verso la propria vita interiore), come scrive Novalis, alla ricerca delle ragioni psicologiche e umane della sofferenza e della malinconia. Basta prendere, su ricetta medica, una di queste sostanze antidepressive. E la sofferenza si dissolve, scompare: gli orizzonti di una felicità senza fine si dischiudono dinanzi ad ogni umana esistenza. Prendete una pillola e siate felici. Eppure l’efficacia degli antidepressivi, come quella di altre sostanze, è variabile. Molte persone attendono inutilmente gli effetti “miracolosi” che la propaganda diffonde nel contesto di mitologie della guarigione.
Credere nelle possibilità infinite delle neuroscienze è sbagliato. Non si devono confondere i progressi della ricerca biologica e quelli della psichiatria. La psichiatria, infatti, è una disciplina medica: la sua funzione è quella di curare. Essa, di conseguenza, non può essere collocata sul piano stesso della ricerca biologica. Alla base delle concezioni che attribuiscono agli psicofarmaci antidepressivi una onnipotenza terapeutica indirizzata ad ogni forma di depressione sta, ovviamente, la tendenza a una “riduzione” degli eventi psichici in eventi biologici (cerebrali). Ma queste concezioni riflettono l’inaridimento della vita interiore. Sono il segno di una desertificazione della vita emozionale e della soggettività.
Si diffondono teorie e prassi che affidano ai farmaci la possibilità di uniformare, di omogeneizzare, i modelli di esperienza e di vissuto. Modelli che si vorrebbe privi di emozione creativa e di qualsiasi modo personale di vivere e di elaborare gli eventi della vita (la sofferenza e la gioia, la tristezza e la letizia). Tutto ciò nasconde la tentazione, consapevole e inconsapevole, di “creare robot de-emozionalizzati e automi impersonali, anonimi”.
Non solo. Si progetta, così, una forma di vita dalla quale si allontani ogni profondità e ogni riflessione. E nella quale si sia immersi in una condizione emozionale standard. Contrassegnata dalla cancellazione della tristezza e dalla sua sostituzione con una condizione emozionale “ipertimica”, gaia e indifferente al dolore. Il tentativo è quello di imporre una “allegria” e una, magari blanda, “euforia” che non facciano pensare e non facciano riflettere sulle contraddizioni e sulle ferite della vita, sulla fatica di vivere. Queste tendenze, notava già lo psichiatra Eugenio Borgna, si intravedono mascherate e sfumate anche in testi italiani di psichiatria. Esse nascondono in sé il tentativo di attutire e di imbalsamare gli slanci della sensibilità e della fragilità.
Sono comunque da evitare due errori. Da un lato, cadere in una sorta di positivismo che riduce i disturbi psichici a semplici deragliamenti biologici (per cui tutto sarebbe inscritto nei geni). Dall’altro, assolutizzare la prospettiva delle scienze sociali non tenendo presente la dimensione biologica dell’umano. Dissolvendo la realtà della patologia nell’area di funzioni sociali (il solito: è tutta colpa della società). La grande esperienza clinica dell’autore permette un’operazione fondamentale: evitare di ridurre il disturbo mentale depressivo a un frasario biologizzante, tipico dell’epistemologia medica occidentale. Nella prefazione, Goffredo Bartocci, presidente all’Associazione psichiatrica mondiale, giudica il saggio di Lalli “uno dei migliori prodotti della cultura occidentale”. Perché “riesce a non farci sentire solo specialisti in psichiatria, ma esseri umani consapevoli e attenti alle vicende psichiche che possono accadere a ogni individuo di questo nostro nuovo mondo globalizzato”.