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L'uomo, immerso nel tempo, trova il suo fine solo al cospetto dell'eternità

di Francesco Lamendola - 09/06/2008

 

 

Ma infine, chi è l'uomo?

Poche domande più di questa irritano i filosofi del post-moderno, che in genere vi scorgono un doppio malinteso linguistico: perché si dà per scontato che esista una definizione univoca del concetto di "uomo"; e perché si dà per scontato che, definendolo, gli si possano assegnare anche una meta e un destino.

Certo, è più facile parlare del "destino" dell'Occidente, oppure della nullità di tutti i fini della vita umana; e, in più, presenta il vantaggio di accodarsi alla moda del momento: nichilista, pessimista, catastrofista. Meglio, dunque, denigrare la vita e bollare di assurdità l'intero esistente,  piuttosto che sobbarcarsi la fatica di cercare quale sia l'essenza dell'essere umano e quale il suo significato nel mondo. Avere un'essenza, vuol dire anche avere un significato; e avere un significato, vuol dire anche essere in cammino verso il proprio compimento.

Se l'essenza dell'uomo fosse il nulla, allora il suo esistere non avrebbe alcun significato; e se il suo esistere fosse privo di significato, egli non attenderebbe alcun compimento, ma tornerebbe a quel nulla da cui era - per caso - emerso. Ma se fosse così, perché noi ora saremmo qui a porci delle simili domande? Interrogarsi sulla propria essenza, sul proprio significato e sul proprio compimento,  è, da parte dell'uomo, la prova del fatto che egli non è un nulla, che non viene dal nulla, né al nulla è destinato.

Non solo. Tali domande presuppongono un atteggiamento religioso, così come religioso è il protagonista del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia; così come religioso è il pensiero di Leopardi, a dispetto del suo conclamato ateismo. Tra parentesi, la stessa cosa si potrebbe dire per Lucrezio, l'autore del De rerum natura. Il vero ateo è una figura molto rara nella storia del pensiero, prima della modernità. I suoi antesignani sono i libertini del Settecento: coloro che non si affaticano a negare il sacro (se lo facessero, dovrebbero riconoscerlo tuttavia come un reale interlocutore), perché non hanno alcuna sensibilità verso di esso.

Ora, noi sosteniamo che l'atteggiamento religioso è l'atteggiamento naturale dell'uomo in tutto l'arco della sua storia, fino alle soglie della modernità. Invano  gli etnologi hanno cercato dei popoli nativi privi della nozione del sacro; e tutto quel che sappiamo del cosiddetto uomo preistorico, ci conferma che anch'egli, migliaia e migliaia d'anni fa, provava inquietudine davanti al mistero della vita e della morte, s'interrogava su di esso e cercava una risposta al di là della sfera della realtà materiale. Le sue pitture rupestri, il suo modo di seppellire i morti, gli sbalorditivi complessi megalitici che costruiva - non sappiamo neppure come, dato che non avrebbe dovuto possedere alcuna tecnologia: tutto questo lo testimonia con certezza.

La modernità ha eliminato la sfera del sacro, rendendo tutto profano: lo spazio, il tempo, i riti ed i miti. Ma, inevitabilmente, l'atteggiamento religioso - componente essenziale della condizione umana - è rientrato dalla finestra, travestito in forme aberranti, perché negatrici della sua essenziale struttura trascendente; e così il progresso, la scienza, il profitto, il marxismo, la tecnica, ne hanno usurpato, volta a volta, la funzione.

In nessuno di tali surrogati, però, l'essere umano ha trovato il compimento della sua nostalgia: ed era logico che così fosse, poiché un culto dell'al di qua è una contraddizione in termini. Un culto, per sua stessa natura, definisce la sfera del sacro, separandola da quella del profano; e il sacro rimanda sempre a una dimensione ulteriore, soprannaturale. Non si dà sacro all'interno della dimensione immanente, se non in senso traslato ed improprio (come nelle espressioni: avere il culto della disciplina; avere il culto della bellezza; ecc.).

Ecco, allora, la disperata contraddizione nella quale è venuto a situarsi l'uomo moderno. Da un lato egli nega la sfera del sacro, dall'altro la riproduce, travisandola; da un lato reprime la propria inquietudine, dall'altro la ingigantisce, con l'atto stesso di reprimerla. Si è spinto in un vicolo cieco: e non sa come uscirne. La maggior parte degli intellettuali, oggi - almeno di quelli che hanno maggiore visibilità - hanno trovato che è meglio far finta di niente, dire che l'uomo moderno è in cammino verso prestigiosi traguardi; oppure che è in cammino verso il nulla, perché tali sono la sua natura e il suo destino.

Non hanno il coraggio di dire che ha sbagliato strada, che si è cacciato da sé stesso un vicolo cieco; e che, per uscirne, dovrebbe ritornare indietro, almeno fino al punto in cui aveva abbandonato la strada giusta. Non osano farlo, perché ciò sarebbe in contraddizione con il mito fondante della modernità stessa: il mito del progresso, che ha la forza di un dogma. Esso insegna che il sapere si accumula per una sorta di legge naturale; che noi, quindi, siamo assai più evoluti dei nostri antenati, costretti alla contemporaneità con uomini trascurabili come Buhha, Platone, Aristotele, Cristo; che "indietro non si torna", pena vanificare le più recenti "conquiste" del pensiero e della scienza e ripiombare nell'aborrita barbarie.

In altre parole, il re è in mutande; ma non si scorge ancora, da nessuna parte, un bambino abbastanza ingenuo da gridarlo ad alta voce. Forse perché il mondo moderno considera l'ingenuità una brutta cosa, un vizio di cui occorre sbarazzarsi il più in fretta possibile (cfr., a questo proposito,  il nostro recente articolo È la perdita dell'ingenuità la «malattia mortale» del mondo moderno, consultabile sul sito di Arianna Editrice).

 

Proviamo, dunque, a dare una definizione dell'uomo; e, subito dopo, a determinare quali siano la sua meta e il suo destino.

Una pietra, un cristallo, noi sappiamo cosa sono; e così un fiore, un albero. La loro essenza coincide con la loro esistenza. Ciò vale anche, sia pure con sfumature diverse, per l'animale: un cane, una tigre sono quello che sono, e null'altro. Nel loro esistere, essi realizzano compiutamente la propria natura e rivelano la propria essenza.

L'uomo, no. L'uomo non è un dato, ma una possibilità. Non ha una essenza, o meglio: la sua essenza consiste nella capacità di trascendere il proprio statuto ontologico. A rigore, non si può neanche dire che l'uomo sia una persona, bensì che aspiri a diventarlo; perché, pur avendo tutti i requisiti a ciò necessari, può anche rinunciare a diventarlo; può anche, addirittura, regredire al di sotto della propria natura, abbrutendosi. In lui è sempre presente una scintilla spirituale; ma può accadere che questa rimanga interamente sommersa e dimenticata. Dimenticata da lui, beninteso; non dall'Essere che glie l'ha infusa, e che sempre lo chiama a Sé.

L'uomo, dunque, è quell'ente che tende a realizzarsi come persona, creatura spirituale, immersa nella dimensione temporale; e, tuttavia, capace di trascendersi e di andare oltre se stesso. Homo viator, dunque: creatura perennemente in cammino. In cammino per realizzarsi, ossia per trascendersi.

Ma in cammino verso dove?

Il suo cammino è, in effetti, un cercare la strada del ritorno. Egli ha di fronte ha sé innumerevoli strade, ma una sola è quella che gli può consentire di trascendersi come uomo e di divenire persona: ed è la medesima strada per la quale egli è entrato nell'esistenza. L'uomo, perciò, è la creatura che si realizza tornando là di dove è venuta. Senza dubbio, l'uomo non è venuto dal niente: niente dà niente, ancora e sempre; nulla può avere origine dal niente. Egli è venuto dall'Essere, come ogni altro ente; e all'Essere aspira a tornare; con la differenza che, in lui, tale aspirazione è oggetto di scelta volontaria e non di cieco istinto.

Ecco, dunque, che abbiamo individuato un altro importante elemento da aggiungere alla precedente definizione di uomo. Egli è quell'ente che tende a realizzarsi come persona, creatura spirituale, immersa nella dimensione temporale, ma capace di trascendersi e di andare oltre se stesso; ed è anche l'unica, fra tutte le creature, che possa spontaneamente concorrere, oppure no, a tale trascendimento, che altro non è se non un ritorno all'Essere da cui proviene.

Tutti gli enti vengono dall'Essere e sono richiamati verso l'Essere, come in un gigantesco fenomeno di espirazione e inspirazione cosmica. Anche l'uomo fa parte di questo fenomeno: ma, se il primo movimento - quello dal non-essere all'essere - lo vede alla pari con tutti gli altri enti, perché egli viene tratto fuori senza il concorso della sua volontà, il secondo - quello dall'essere contingente all'Essere necessario - è oggetto di una sua libera scelta. Egli è l'unico ente che può rispondere in modo affermativo al richiamo dell'Essere, e affrettare, così, il suo ritorno, divenendo un collaboratore del grande progetto cosmico. Ma può anche rispondere in modo negativo, escludendosi da sé e condannandosi al nulla.

Il nulla, dunque, non è il destino dell'uomo - come vorrebbero quasi tutti i filosofi della modernità, guide cieche di una folla di ciechi. Il nulla è, per l'uomo, una possibilità, della quale egli stesso è responsabile: precisamente, la possibilità di dire no alla chiamata dell'Essere. Rinunciare a realizzarsi effettivamente come persona, ossia rinunciare a trascendersi ontologicamente, è la prima maniera di dire no.

In questo senso, possiamo capire perché Kierkegaard diceva che l'uomo è salvo finché sta davanti a Dio, mentre quando si  allontana da Lui, perde sé stesso. Se il baricentro spirituale dell'uomo fosse nell'Io, questa frase non avrebbe senso: come può perdersi, colui che si trova? Ma l'uomo, se cerca se stesso allontanandosi da Dio, non si trova più: trova solo una parodia della figura umana, orribilmente deformata. Al centro dell'uomo, c'è l'Essere; se davvero l'uomo rientra in se stesso, non può che tornare nell'Essere; ma se crede di rientrare in se stesso escludendo il suo vero centro - che non è l'Io, ma l'Essere - non trova nulla, e neanche se stesso.

 

Abbiamo anche detto che l'uomo è immerso nella dimensione temporale.

Questo è innegabile: egli nasce in un certo tempo, ossia nella storia; e, dal momento in cui vi entra, incomincia a consumare il proprio stesso tempo, cioè a morire.

Questo avviene perché l'esistenza dell'uomo, al pari di quella di ogni altro ente, si colloca sul piano del relativo. A differenza di ogni altro ente, però, l'uomo aspira a portarsi sul piano dell'Assoluto: ciò fa parte del suo trascendimento, ossia della sua vocazione ontologica. L'uomo è l'ente che può andare oltre se stesso, dunque anche oltre le barriere del relativo. Fino a dove può spingersi, con la sua tensione metafisica?

Non lo sappiamo. Nessuno ha mai toccato il limite estremo; forse non c'è un limite estremo. Certo è che l'uomo il quale riesce a trascendere la propria natura, innalzandosi verso il piano dell'Assoluto, è capace di oltrepassare di molto quelli che, all'uomo comune, sembrano dei limiti insuperabili. Può librarsi nell'aria, può attraversare porte chiuse e pareti, può moltiplicare pani e pesci all'infinito, può vincere la stessa morte. Può trasformare il suo corpo perituro, di ossa e sangue, in un corpo glorioso, trasfigurato, libero dai vincoli dello spazio e del tempo.

Perché la meta e il destino dell'uomo non possono essere compresi finché si rimane entro l'orizzonte del nascere e del morire, entro l'orizzonte del tempo; ma solo allorché, con uno sforzo dell'immaginazione, del sentimento, del pensiero, ci si porti verso il piano dell'Essere, che è il piano dell'eterno.

Ecco: il significato dell'uomo, lo scopo del suo esistere e il suo ultimo destino non possono rivelarglisi finché egli non si pone nella prospettiva dell'eterno; fino a quando non vede in se stesso, non la fragile creatura destinata a spegnersi e a perire, ma la creatura vittoriosa che ha saputo trascendersi e che aspira, con tutte le sue forze,  a fare ritorno verso l'Essere, cioè a realizzare la sua  vita nell'eternità.

 

A completamento di quanto detto, ci piace riportare un brano del teologo tedesco Michael Schmaus,  tratto dal suo libro I novissimi del mondo e della Chiesa (titolo originale: Von den letzen Dingen; traduzione italiana di T. Mabritto, Edizioni Paoline, Alba, 1969, pp. 27-44), che ci è sembrato particolarmente denso e significativo; e che, nonostante la sua prospettiva dichiaratamente religiosa, ci sembra possa essere condiviso anche da un punto di vista puramente razionale.

 

I numerosi saggi antropologici dei giorni nostri tradiscono l'incertezza in cui è sfociata oggi l'intelligenza che l'uomo ha di sé. Oggi l'uomo non conosce più ciò che gli è più intimo, vale a dire, non conosce più se stesso. La domanda: «Che cosa è l'uomo?» viene posta in tono tanto più forte e riceve risposte tanto più disparate  quanto meno l'uomo sa che cosa debba ritenere di sé stesso.  Non intendiamo di passare qui in rassegna le diverse risposte, integrantisi a vicenda e non di grado contraddicentisi, offerte via via dalle visioni dei pensatori e poeti greci fino alle scoperte e alle esigenze del tempo presente.

la maggioranza delle interpretazioni considera l'uomo come  essenza a sé stante, realizzata nei singoli. La questione dell'uomo viene impostata prescindendo dalle sue varie realizzazioni storiche. Un tale procedimento permette di determinare quei costituitivi essenziali senza i quali l'uomo non è uomo, ma lascia cadere ila variopinta pienezza dell'umano. In questa determinazione della essenza non appare chiaro quello di cui l'uomo sia capace alla prova delle sue opere, quanto si debba aspettare da lui, cosa si possa sperare, cosa si debba temere. A una visione integrale perviene solo colui che non pone solo la questione dell'essenza astraendo dalla realizzazione storica, ma considera pure le fluttuazioni che l'umano subisce in dipendenza dei tempi e dei luoghi. Per questa strada si arriva, dalla semplice statica dell'umano, alla sua dinamica, da quello che l'uomo è, a quello che fa o almeno può fare.

La questione di quello che l'uomo fa o può fare non è un di quelle che si possano tralasciare o porre a piacere, se si vuol venire a capo del problema. Operare è una proprietà essenziale dell'uomo. Ciò che noi intendiamo colla definizione che precisa la sua essenza non è una natura morta, ma una realtà ordinata all'azione, facente sgorgare da sé l'azione. Così nella definizione essenziale che Aristotele dà dell'uomo come animale ragionevole è significato ed incluso il lato dinamico. Il dono della ragione richiama l'attività spirituale, in quanto dice che l'uomo si apre alla realtà. Ma se si vuole non solo una definizione astratta, bensì una descrizione che sfiori l'essenza e insieme colga la pienezza dell'umano, allora bisogna parlare espressamente della sua dinamica.

Da questo punto di vista si può dire: L'uomo, a differenza di tutte le altre creature attinte dalla nostra esperienza, è quell'essere che può e deve andare oltre sé stesso.  Il trascendimento alla propria natura appartiene essenzialmente all'uomo. Egli ha un orizzonte verso cui la sua vita è protesa: è ordinato, sa e sente di essere ordinato a una realtà diversa da sé, di cui tuttavia ha bisogno per conseguire il completo svolgimento della propria essenza. L'autosuperamento si compie in tutti gli strati del suo essere, dal corporale, allo psichico, allo spirituale: nel corporale, per esempio, mediante il respiro e la nutrizione, nello psichico mediante l'amore, nello spirituale mediante la conoscenza.

Il fatto dell'autosuperamento dell'uomo non è messo in dubbio da nessuno; ma gli spiriti si dividono allorché si tratta di precisare da vicino l'orizzonte verso cui la vita umana è protesa: qui vengono fuori le risposte più contraddittorie. Ne ricordiamo alcune tra le più importanti.

Taluni spiegano che l'uomo trascende sé stesso verso il mondo inteso come apparenza terreno-visibile (Kant), o come civiltà nelle sue varie creazioni (ottimisti della cultura del secolo XIX. Es. Hegel), o come il nulla (Heidegger): Altri credettero che l'orizzonte verso cui l'uomo vive fosse una nuova manifestazione dell'umano, o nella forma di nobile umanità (Umanesimo), o di pienezza di vita (filosofia vitalistica, di cui si può indicare Dilthey come rappresentante), o del superuomo (Nietzsche), o della collettività, sia nella forma di un popolo (nazionalsocialismo), sia nella forma dell'umanità intera (marxismo).

Una terza categoria di pensatori vede l'orizzonte per cui l'uomo vive e solo può vivere, in una realtà distinta dal mondo: Dio. Un filone tradizionale unisce in questa persuasione gli spiriti, da Agostino, attraverso Pascal, fino a Möhler, Newman e Kierkegaard. Quando Agostino dice che l'uomo possiede una capacità per Dio e il suo cuore è tormentato da irrequietezza finché non riposa in Dio; o Pascal spiega che l'uomo sorpassa infinitamente l'uomo; o la scuola di Tubinga e i teologi moderni da lei dipendenti insegnano che l'uomo raggiunge veramente sé stesso solo in Dio; o Kierkegaard dichiara che solo perseverando alla presenza di Dio l'uomo trova sé stesso, mentre nella fuga da Dio anche sé stesso, siamo sempre davanti al medesimo pensiero fondamentale: senza Dio l'uomo rimane incompleto, solo in lui consegue la sua vera, piena vita e la sua propria forma. L'uomo può udire la voce di Dio e rispondere alla parola di Dio: questo lo distingue da tutti gli altri esseri. Come orans l'uomo è una creatura di una specie tutta sua. Come tale egli esplica la sua essenza nel più alto senso. Una visione puramente terrena dell'uomo si infrange sugli scogli della morte, del dolore, dell'insoddisfazione del cuore, per cui l'uomo, nei limiti di questo mondo, non può arrivare al suo compimento.

Quanto di vero c'è nelle due prime determinazioni dell'orizzonte umano viene ripreso e incorporato nella terra. L'autosuperamento dell'uomo verso Dio infatti avviene su una via che attraversa il mondo., poiché nessuno può afferrare immediatamente Dio di slancio, ma che non si ferma al mondo.

Per una più precisa determinazione di come l'uomo possa realizzare il superamento di sé stesso verso Dio e pervenire al suo vero io è di massima importanza la seguente constatazione: L'uomo non si possiede con una forza che riassuma insieme tutta la pienezza del suo essere, così che possa esprimersi totalmente volgendosi a Dio con un solo atto. Egli si possiede piuttosto in una dispersione,  in una molteplicità di possibilità che non è dato tradurre in atto contemporaneamente. Così, per esempio, la vita umana si fraziona in gioventù e vecchiaia, nell'esistenza di uomo e in quella di donna. È impossibile realizzare nello stesso tempo queste forme di vita. Se l'uomo vuole esaurire le sue possibilità, se vuole attingere il suo essere in una maniera adeguata e portarlo al pieno svolgimento, deve fare una molteplicità di passi verso Dio. Ogni superamento di sé stesso verso Dio lo porta un tratto avanti verso la pienezza della sua vita. Ma ogni singolo passo in questo senso apre l'adito ad una nuova dedizione, finché colla morte tutte le possibilità si estinguono e si consegue quella forma di essere che corrisponde al lavoro svolto durante la vita. L'umana dedizione a Dio, da cui consegue la perfezione dell'esistenza, si concreta perciò in una serie di decisioni del cuore umano, l'una susseguente l'altra e sgorgante dall'altra.

La circostanza per cui l'uomo non può realizzare le possibilità della sua natura in una volta sola ma solo in una successione di atti noi la chiamiamo condizione temporale, col qual concetto va sottintesa la disposizione e la capacità ad agire con atti successivi. L'effettiva successione delle operazioni verrà designata semplicemente colla parola temporalità.

In ogni atto di dedizione a Dio l'uomo già si protende verso quello prossimo, di cui porta con sé la possibilità; e di rincontro, ogni presente autosuperamento reca il segno di quello precedente, che protrarre la sua efficacia nel successivo. Per questo costante schiudersi di nuove possibilità davanti a sé, l'uomo non può attendersi il completamento del suo essere dall'istante immediato ma dal futuro. Egli è un'essenza che vive librata nel futuro. E il futuro è già preformato dal passato che a sua volta impronta il presente. L'uomo è quindi un'essenza che vive del passato, mediante il presente, protesa nel futuro. Non ha un essere compiuto, ma un essere in divenire. La tensione verso il passato e verso il futuro si manifesta nella coscienza, come ricordo e come speranza, così che si può anche dire: l'uomo vive per necessità naturale di ricordi e di speranza.

Queste cognizioni vogliono essere ancora approfondite. La costituzione fondamentale dell'uomo condizionata al tempo non significa che egli viva e adempia al suo compito entro il tempo come in uno spazio vuoto: il tempo non è come il cavo di una forma che egli riempie; non è nemmeno come un palcoscenico su cui egli rappresenta la parte che la vita gli ha assegnato. La condizione temporale vuole invece significare che l'uomo vive condizionato al tempo in ragione della sua intima particolare natura; che perciò egli non può affatto esistere altrimenti dal modo del tempo, e che tutto ciò che egli compie reca il carattere della temporalità.

In conseguenza della sua condizione temporale l'uomo, con tutto quello che fa, produce tempo, in quanto indice trasformazioni nel mondo in cui vive e in sé stesso. Così lui, il condizionato al tempo, diventa a sua volta temporale. Il tempo non è però solo sua creazione. Anzi egli si trova coinvolto dal canto suo nel flusso dei tempi, in quanto vive nel mondo soggetto alla mutazione, distendentesi dal passato tramite il presente nel futuro, e prende parte alla sua metamorfosi. Appena comincia ad esistere nel mondo l'uomo viene afferrato dalla corrente del tempo e trasportato avanti; contemporaneamente egli stesso, che non scivola galleggiando sulla corrente del temo come un pezzo di essere immutabile, a questo flusso porta un contributo.

IL fluire del tempo è a sensi unico. Esso si muove in una direzione dalla quale non può retrocedere. Noi diciamo a ragione che il tempo passa, e intendiamo con questo che ogni attimo se ne va e non ritorna, che il successivo sottentra per svanire a suo turno e lasciare il posto a uno nuovo. Il passato non è ripetibile.

Condizione temporale e temporalità non hanno il medesimo significato di condizione storica e storicità, ma ne sono la premessa. Storicità aggiunge a temporalità alcune note nuove: il contrassegno dell'importanza, della pubblicità, della comunità. Quando ciò che accade nel tempo, costituente a sua volta il tempo, è di indole pubblica, è significativo per la comunità, quando mette in moto il mondo nella sua totalità o in un punto importante, così che ne derivino incitamenti e sviluppi per il futuro, allora noi parliamo di avvenimento storico.

Ogni fatto di tale rilievo si fonda su una decisione: sulla decisione del singolo, che anche qui è di nuovo portato dal tutto, di cui è membro, e che reagendo colla sua azione a sua volta dà forma al tutto. La decisione presuppone la libertà. Così all'essenza dei fatti storici appartiene la libertà che si realizza nel tempo. L'uomo è dunque condizionato ala storia, in quanto esiste nel tempo, come membro di una comunità, nel mondo della libertà.

Nella filosofia contemporanea Jaspers ha di nuovo accentuato, sia pure con acutezza esagerata, la libertà, che appartiene alle convinzioni fondamentali della fede cristiana. La libertà dell'uomo non è né arbitraria, né incondizionata. L'uomo è inserito in un ordine di realtà che non è in suo potere predisporre, in una determinata situazione storica, in un determinato popolo, in una determinata famiglia, dotato di determinate forze corporali e spirituali, che costituiscono insieme il suo limite. (…)

L'uomo non può tutto ciò che vuole, e quello che per sé gli sarebbe possibile non lo può in ogni tempo, per lo meno non in ogni tempo con senso ed efficacia. Per una decisione sensata e feconda di ulteriori sviluppi la norma è scegliere il momento giusto: una decisione prematura è una esplosione nel vuoto; una decisione tardiva non può ricuperare il perduto. Caratterizzata dalla temporalità e dalla decisione, l'azione umana consegue perciò pure il contrassegno dell'unicità e dell'irripetibilità. Cosa fatta non si lascia più cancellare dalla storia, per nessuno sforzo.

L'azione dell'uomo è diretta ad un fine. Nella storia della filosofia si hanno molte laboriose riflessioni su quale sia il fine della storia umana. Un'unità di vedute non è fino ad oggi nemmeno lontanamente raggiunta. Mostreremo come dal punto di vista della storia della filosofia non si possa rispondere con sicurezza alla questione del fine della storia umana. Per colui che crede alla rivelazione, il fine ultimo della storia umana è la manifestazione senza veli dello splendore di Dio. Verso questo evento si muovono tutti i fatti della storia: la quale scorre verso una meta; non è un eterno girotondo; non comincia sempre da capo. La storia si dirige verso un punto oltre al quale non potrà andare. Il termine non è un materiale strappo del filo della storia, ma una potenza che dal futuro opera anticipatamente sul presente storico. Tutto ciò che accade nella storia sta sotto il giudizio e la benedizione dell'ultimo fine, a cui va incontro.

 

Fanno male, crediamo, quei filosofi "laici" che, per partito preso, non leggono i libri dei teologi (a meno che siano in odore di eresia, quasi che solo a tale condizione valesse la pena di prenderli sul serio). Potrebbero trovarvi molti spunti utili e molti elementi di riflessione.

E poi, come si fa anche solo a immaginare una categoria dei filosofi laici, distinta e contrapposta a quella dei filosofi religiosi?

Il filosofo, per definizione, è colui che ama la verità e che la ricerca ardentemente e spassionatamente; che rifugge da ogni schematismo ideologico e da ogni forzatura strumentale; che non teme di confrontarsi con un pensiero diverso dal proprio, ma, anzi, dal continuo confronto con l'altro si arricchisce ed allarga, sempre più, i propri orizzonti di pensiero e di vita.

Ci auguriamo, in questo senso, che anche altri vadano a leggersi, o a rileggersi, il bel libro di Michael Schmaus. Ha quarant'anni, ma li porta molto bene; e ogni onesto cercatore della verità può trovarvi una ammirevole chiarezza concettuale e una non comune acutezza di giudizio. Certo, la parte centrale do esso presuppone una lettura che nasca anche dalla fede. Tuttavia, la parte introduttiva può essere apprezzata anche da chi si rivolga all'istanza razionale, purché non chiuda a chiave la porta della dimensione sovra-razionale.

Ma perché dovrebbe farlo, poi?

Abbiamo detto che l'uomo non può trovare il centro di sé stesso, se lo cerca animato da un folle orgoglio, escludendo a priori il piano trascendente dell'Essere, e sia pure come semplice ipotesi di lavoro.

A patto che egli abbia l'umiltà di lasciare socchiusa quella porta, molte cose che dapprima gli apparivano oscure ed assurde, finiranno per diventargli chiare e luminose; come luminoso è l'Essere da cui, tutte, hanno origine - e lui con esse.