Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Accordo Usa-Iraq: l'ora del ricatto

Accordo Usa-Iraq: l'ora del ricatto

di Ornella Sangiovanni - 09/06/2008



Non firmi l'accordo? E io ti blocco i fondi. Passano (anche) per il ricatto le pressioni che l'amministrazione Bush sta esercitando sul governo iracheno perché accetti entro fine luglio un accordo a lungo termine con Washington che annulla la sovranità del Paese e ne sancisce l'occupazione a tempo indeterminato da parte degli Stati Uniti.

Di cosa si tratta? Gli Usa tengono per così dire "in ostaggio" circa 50 miliardi di dollari in fondi iracheni nella Federal Reserve Bank di New York. Si tratta di soldi protetti da un ordine presidenziale che ne garantisce l'immunità rispetto a cause e richieste di risarcimento, ma se il mandato delle Nazioni Unite che ha configurato la situazione attuale dovesse scadere, senza venire sostituito da un nuovo accordo, anche l'immunità verrebbe a cadere, hanno fatto presente i negoziatori americani.

Il risultato? La perdita di 20 miliardi di dollari, tanto per cominciare, dato che a tanto ammontano le pendenze giudiziarie contro l'Iraq nei tribunali statunitensi. 

Lo scoop arriva ancora una volta dall' Independent, che ieri aveva rivelato alcuni dettagli (finora rimasti segreti) dell'accordo che Washington e Baghdad stanno negoziando da marzo, sottolineandone le potenzialità politicamente esplosive.

E adesso quest'altra "bomba", se possibile ancora più forte della prima.

Paese a sovranità limitata

Ma come mai gli Stati Uniti possono permettersi questo ricatto, minacciando di fare perdere all'Iraq il 40% delle sue riserve in valuta estera?

La risposta è che l'indipendenza del Paese è ancora limitata, e non solo perché ci sono ancora più di 150.000 soldati stranieri – contando solo quelli statunitensi.

L'"eredità" delle sanzioni Onu e delle limitazioni imposte in seguito all'invasione del Kuwait, decisa da Saddam Hussein nell'agosto 1990, fanno sì che l'Iraq sia tuttora considerato una "minaccia alla sicurezza e alla stabilità internazionale" in base al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite.

Il governo del premier Nuri al Maliki ha chiesto ripetutamente che questa condizione venga annullata, dato che non ha più ragione di esistere, e il "prezzo" stabilito da Washington – se l'Iraq vuole "uscire" dalla tutela imposta dal Capitolo VII – è che firmi una "alleanza strategica" con gli Stati Uniti.

Ovvero, dicono i (numerosi) oppositori dell'accordo, che diventi uno Stato satellite, nel quale le forze Usa potranno arrestare i cittadini iracheni a loro piacimento e condurre operazioni militari senza bisogno di chiedere il permesso alle autorità di Baghdad, e neppure di consultarle, mentre i militari e i contractor americani godranno di immunità rispetto alla legge irachena. E non potranno quindi essere perseguiti nel caso in cui dovessero commettere reati.

Un Paese in cui gli Stati Uniti manterranno oltre 50 basi militari. Anche se ieri l'ambasciatore Usa a Baghdad, Ryan Crocker, nel corso di un briefing al Dipartimento di Stato, ha avuto premura di sottolineare che Washington non vuole basi permanenti in Iraq, attaccando le rivelazioni fatte ieri dall'Independent come "categoricamente false".

Non c'è nulla di segreto, ha detto Crocker, che ha definito i negoziati in corso fra Usa e Iraq "un processo trasparente", che non riguarda il numero delle truppe che rimarranno in Iraq e la durata della loro permanenza, ma va al di là, e abbraccia il complesso dei rapporti bilaterali fra i due Paesi – politici, diplomatici, economici, culturali.

Sarà. Per il momento, l'Iraq è ancora un Paese a sovranità limitata, e la vicenda dei fondi lo dimostra.

I suoi proventi petroliferi, che crescono costantemente a causa dell'aumento dei prezzi del greggio, sono depositati nella Federal Reserve Bank di New York in quanto devono essere versati nel Development Fund for Iraq - un fondo sotto supervisione internazionale, eredità delle sanzioni economiche imposte dopo l'invasione del Kuwait e poi mantenute per 13 anni fino al maggio 2003.

Sono soldi iracheni, ma il Tesoro Usa ha molta voce in capitolo sulla forma in cui vengono tenuti.

Lo scorso anno, hanno raccontato alcuni funzionari di Baghdad all'Independent, l'Iraq voleva diversificare le sue riserve, dato che il dollaro si stava svalutando, in altre valute, come l'euro. Ma il Tesoro ha posto il suo veto, per il timore che questa mossa potesse rivelare una mancanza di fiducia nel dollaro. Così l'Iraq ha perduto l'equivalente di 5 miliardi di dollari, dicono questi funzionari.

E adesso arrivano le pressioni, ovvero le minacce, sul governo Maliki - debole e assai dipendente dall'appoggio di Washington.

Verso una proroga del mandato Onu?

Tuttavia, con il crescere dell'opposizione interna a una ipotesi di accordo come quello voluto da Washington, andrebbe profilandosi la possibilità che Baghdad metta da parte la scadenza di fine luglio per la firma dell'accordo bilaterale con gli Usa, e chieda semplicemente una proroga del mandato Onu per la cosiddetta "forza multinazionale" - mandato che scade il 31 dicembre.

E' quanto avrebbe riferito al Washington Post un "alto funzionario iracheno", che ovviamente ha voluto rimanere anonimo, per poter parlare con franchezza.

Non esiste praticamente alcuna possibilità che la scadenza di fine luglio venga rispettata – ha detto il funzionario - e la richiesta irachena di prorogare il mandato delle Nazioni Unite potrebbe arrivare già la settimana prossima.

Quando il ministro degli Esteri di Baghdad, Hoshyar Zebari, dovrà riferire al Consiglio di Sicurezza.


Fonti: The Independent, Washington Post, New York Times