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Amore e ideologia: il «campo di battaglia» del 1977. Quello che veramente ami

di Cavallaro Felice - 10/06/2008

CopertinaQuesti ragazzi che continuano a darsele fuori tempo massimo, che trasformano le università in campi di battaglia come purtroppo avvenne nel ' 68 e nel ' 77, tolte spranghe e cazzottiere, bisognerebbe condannarli alla lettura del libro appena pubblicato da Riccardo Arena per Dario Flaccovio Editore, Quello che veramente ami (pp. 251, 13,50). Un affresco della «migliore gioventù» che rischiò di bruciare, e in parte bruciò, sotto i fuochi delle ideologie estreme trasformate in leve per violenze senza fine, per lutti e per dolori degli anni più bui del Paese. Arena, cronista giudiziario con radici nella Palermo di un palazzo di giustizia frequentato ogni giorno per le sue cronache su «Giornale di Sicilia», «Foglio» e «Panorama», si misura per la prima volta con il romanzo, uscendo fuori dai suoi interessi quotidiani legati alla «giudiziaria». E vola alto sulla storia di questi decenni tormentati, passando ai raggi X la rinnovata contrapposizione tra fascisti e comunisti, reinterpretando i passaggi cruciali della vita politica italiana come sfondo a un' altalena di malintese controfigure di ideali, fra emozioni forti, passioni intime, sentimenti profondi. Tutti proiettati nell' anima, nelle gioie, nel tormento, nell' odissea dei due giovanissimi protagonisti, appunto un fascista e una comunista, ai quali Arena fa superare le reciproche trincee. È la proposta di inseguire «quello che veramente ami». Se ancora può trovare un futuro questa speranza vergata da Ezra Pound con parole intense: «Quello che veramente ami non ti sarà strappato, quello che veramente ami è la tua eredità». Questa storia d' amore e di politica, con prefazione e postfazione rispettivamente di Giovanni Bianconi e Lirio Abbate, due colleghi che con Arena condividono l' impegno giornalistico nella «giudiziaria», ha per sfondo la Milano del 1977. La «città da bere» ridotta a un campo di battaglia macchiato dall' odio politico che sfocia nelle aggressioni, nelle molotov, nelle pistolettate, nel delitto. Al centro, i due ragazzi insaccati nelle loro corazze ideologiche. Lui, Enrico, detto «il Tunisi» perché siciliano emigrato, fascista convinto, un padre torturato dai fantasmi di orrori vissuti in prima persona durante la guerra. Lei, Monica, militante dell' area dell' Autonomia, comunista e proletaria, pur con genitori padroni di una fabbrica tessile. Si incontrato, si sfiorano, si odiano, si cercano, si amano, si lasciano, si fanno male, tanto male, tra rugby, politica, botte, morti, feriti e attentati in piazze rosse di sangue, mentre aleggia lo spontaneismo armato di estrema destra, misto all' onda dirompente del terrorismo brigatista. Dagli anni di piombo alla seconda guerra mondiale, in un gioco a ritroso, Arena riesce a confrontare due generazioni votate al massacro, bruciate in nome di parole, bandiere, modelli, ideali proiettati in una raffica di sequenze in cui la messa a fuoco privilegia il primo piano sull' anima dei due giovani. Per metterli in guardia da errori e orrori. Come fa Arena, forse sorpreso egli stesso dall' estrema attualità del tema, specchiato nelle cronache sui ragazzi che continuano a darsele. E che, appunto, bisognerebbe condannare alla lettura del romanzo. Sarebbe un modo per aiutarli a trovare una via di fuga dal tunnel in cui si ritrovano.