Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Caro petrolio? La soluzione c'è: sottrarre il greggio alla speculazione finanziaria

Caro petrolio? La soluzione c'è: sottrarre il greggio alla speculazione finanziaria

di Sabina Morandi - 10/06/2008

 

 

Mentre su tutto il Pianeta esplode la rivolta contro il caro petrolio, come i loro colleghi che la settimana scorsa si sono occupati di agricoltura, anche i ministri dell'Energia del G8 riuniti in Giappone hanno discettato di petrolio senza mai menzionare il convitato di pietra, quella bolla speculativa che sta procurando immensi profitti alle compagnie al prezzo di ridurre in ginocchio interi comparti dell'economia reale.

Mentre il greggio galoppa verso i 200 dollari al barile, la libertà dei piccoli "imprenditori di sé stessi", che siano i pescatori strozzati dagli aumenti del gasolio o i trasportatori spagnoli che da ieri paralizzano il paese, si sta trasformando in un sonoro "arrangiatevi" visto che ben pochi governi si sono fatti carico dei problemi strutturali come l'esaurimento delle risorse ittiche causato dalla competizione sfrenata o la follia, economica oltre che ambientale, del trasporto su gomma. Ma, com'è noto, il rispetto del dogma liberista lega le mani ai governi: i vecchi strumenti di contenimento dei prezzi sono all'indice mentre quelli nuovi, che dovrebbero arginare la frenesia speculativa, non sono ancora stati inventati.
Non si è parlato di esaurimento dei giacimenti, per esempio, a parte il debole appello alla trasparenza che i ministri dell'Energia hanno rivolto alle compagnie, notoriamente propense a sovradimensionare le proprie riserve. Non si è parlato nemmeno di uno dei problemi strutturali che sta spingendo ulteriormente in alto il costo del greggio, ovvero un "parco raffinerie" costruito per trattare i petroli puliti provenienti dai paesi Opec e che non riesce a star dietro all'afflusso di greggio pesante in arrivo dai nuovi giacimenti. Non se ne parla perché altrimenti bisognerebbe rinunciare al buon vecchio capro espiatorio - i perfidi sceicchi che si tengono l'oro nero per farci dispetto - e prendere per buone le stime dei teorici del picco petrolifero che, nelle difficoltà dell'Opec, vedono un segnale del declino della produzione in generale. Non è nemmeno esatto il richiamo agli investimenti nella ricerca e nello sfruttamento che, dal 2001, si sono ovunque moltiplicati a ritmo frenetico mentre l'infrastruttura (come le raffinerie) viene lasciata a marcire. Del resto, se un paese che butta via il 30% della produzione elettrica e che non riesce nemmeno a smaltire gli scarti industriali come l'Italia, viene preso sul serio quando lancia un programma nucleare irrealizzabile allo stato attuale, allora davvero tutto diventa credibile. Basta ripeterlo spesso, come aveva scoperto un certo Goebbels.
Insomma, che il petrolio sia in via di esaurimento è un dato di fatto innegabile, ma non significa che finirà domani né che finirà fra cent'anni, quando i pozzi saranno stati completamente prosciugati. Anche se il prezzo continuerà a salire, rendendo commercialmente appetibili anche giacimenti difficili, ne resterà certamente parecchio sotto terra perché una volta esaurita la pressione naturale (e quella indotta dalle iniezioni di acqua) recuperarlo è energeticamente troppo dispendioso. Per dirla in parole semplici: se per tirare fuori un barile se ne consumano due, forse è meglio lasciare le cose come stanno sul fronte della produzione e intervenire invece sulla domanda attraverso l'efficienza energetica (che il G8 ha gentilmente menzionato in nota a margine) e un uso più oculato delle risorse disponibili. Si tratta insomma di far durare il più possibile il petrolio che resta per guadagnare il tempo necessario a una riconversione su scala globale.
Sarebbe una sfida già molto difficile anche senza il Nymex, il tavolo verde degli speculatori del pianeta dove ogni barile estratto viene scambiato migliaia di volte alla velocità di un lampo. Una tendenza ampiamente prevista dai teorici del picco, a cui si sono aggiunti gli effetti della crisi dei subprime: i capitali in fuga dai mutui facili si sono riversati sul mercato delle materie prime mettendo il turbo al greggio (e al frumento, alla soia, al mais…) con una velocità che nemmeno i più apocalittici avevano previsto. La domanda quindi sorge spontanea: possibile che i grandi della terra lascino in balia della finanza d'azzardo una risorsa così importante per l'economia globale? Non è ideologia ma semplice buon senso che può essere condiviso da chi l'economia la fa girare sul serio. Per produrre qualunque cosa (anche l'energia nucleare) serve il petrolio, il cui prezzo dovrebbe essere determinato dai costi di estrazione, più i profitti delle compagnie che hanno investito e dei mediatori che lo portano sul mercato. Attualmente invece il prezzo viene determinato dalla rapidità con cui qualche ragazzetto, che non sa nulla né di petrolio né di economia reale, riesce a piazzare le sue ordinazioni o a liberarsene con un doppio click del mouse.
La finanza è un pozzo senza fondo capace di ingoiare consistenti realtà produttive in un solo boccone e di spingere a livelli insostenibili il costo di materie prime fondamentali per la nostra sopravvivenza. Riunirsi per parlare di crisi dei prezzi (agricoli o energetici) e non menzionarla è come cercare di liberarsi dell'acqua imbarcata senza tappare la falla. Prima o poi - sull'onda di un nuovo uragano, di un'altra guerra o di un incidente petrolifero di grandi dimensioni - la scarsità sarà tale da costringere i governi a fare l'impensabile: sottrarre il petrolio al gioco finanziario per gestirlo come si fa in tempo di guerra. Allora forse si potrà cominciare a ragionare sul serio.