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Sermonti, genetista “pentito”: «La scienza è contro l’uomo»

di Giovanni Sallusti - 11/06/2008

 
È uscito in questi giorni l’ultimo libro di Giuseppe Sermonti: “Una scienza senz’anima”. E non si può dire che Sermonti non sappia di cosa parla: genetista dal 1950, fondatore della genetica dei microrganismi produttori di antibiotici, scienziato di fama mondiale. Ma ghettizzato dalla corporazione dei colleghi, in quanto si è permesso di criticare il dogma evoluzionista…


Svuotata, astratta, insignificante. Senz'anima.
Questo il quadro della scienza dei giorni nostri dipinto da Giuseppe Sermonti nel saggio intitolato, appunto, "Una scienza senz'anima", che esce oggi per Lindau (pp. 160, euro 14,5). E non si può dire che Sermonti non sappia di cosa parla: genetista dal 1950, fondatore della genetica dei microrganismi produttori di antibiotici, scienziato di fama mondiale. Ma ghettizzato dalla corporazione dei colleghi, in quanto si è permesso di criticare il dogma evoluzionista.

Con questo saggio, Sermonti ci ammonisce dall'interno dell'impresa scientifica su dove conduce il suo culto acritico. Avvertendoci subito di un paradosso: con la scienza noi siamo di fronte a «qualche cosa che abbia tutte le proprietà per diventare utile, ma che sia nello stesso tempo del tutto privo di qualunque utilità».

Essa infatti vive nel regno aureo e levigato della legge. È fatta di modelli matematici, che parlano di corpi, masse, velocità ideali. Che poi, per esempio in astronomia, la formula concretamente sia incarnata dalla Terra, dai pianeti, dal Sole, è secondario. Quello che conta è la legge.
Come dice Sermonti, «la Terra non sarebbe meno casuale del sasso che Galileo avrebbe fatto cadere dal campanile di Pisa per misurare l'accelerazione di gravità».

Quando lo scientifico diventa praticabile, si trasforma in tecnico: «Un missile è scientifico sinché (...) si dà a intendere che ha scopi di pura conoscenza. Diviene tecnico quando si viene a sapere che i suoi scopi sono militari o meteorologici». Distinzione, quella fra lo "scientifico" e il "tecnico", molto chiara ad esempio agli abitanti di Hiroshima e Nagasaki.
Distinzione che porta lo studioso a dare un'ulteriore definizione di scienza: «Quella disciplina che impone a ogni cosa di rinunciare a un significato». Di mettere tra parentesi, cioè, il nostro mondo, caotico e carico di sfumature esistenziali, per occuparsi dei «puri concetti scientifici».

È quello che Sermonti battezza «processo di distillazione», e che Max Weber aveva chiamato «disincantamento del mondo». Per cui la parola d'ordine è astrarre da ciò che per noi ha significato: rapporti, sofferenza, valori. Le cose che manipoliamo. Strumenti che hanno un nome, un uso, una storia sedimentata. E che diventano variabili di un'equazione.

Ora, Sermonti evidentemente non vuol dire che la scienza non sia «reale». Il punto è che «questa realtà scientifica, che è ben registrata nelle sue leggi, nei suoi testi, poi non è che uno la incontra per la strada». La scienza si è fabbricata una "realtà" a suo uso e consumo.

Esemplifica l'autore: «Allora ci sono, cerchiamo di capire, due modi della realtà: quella su cui sbatti il naso, e la legge della incompenetrabilità dei corpi che ratifica questo fenomeno. Qual è più reale? La prima realtà sembra invero un po' plebea, e la seconda sovrana». Il fatto è che questa supremazia è in realtà un trucco: «La scienza si serve di esperienze sue particolari, in uno spazio situato al di fuori del nostro territorio, e raggiungibile solo attraverso strumenti di registrazione, di elaborazione e di trasmissione. Uno spazio vietato al profano, dove tutto è trasfigurato e sono scomparsi luci, colori, profumi, sostanze».

Lo stratagemma della scienza, tasto su cui aveva già battuto Paul Feyerabend, è semplice. Si tratta di scomporre l'abbondanza dell'essere in due sezioni: "apparenza" (il mondo in cui viviamo e ci affaccendiamo ogni giorno) e "realtà" (le leggi della scienza).

Così la scienza ci espropria del nostro «vissuto», motivo per cui Sermonti non esita ad affibbiarle l'aggettivo «totalitaria». Totalitaria perché ci convice che quel mondo depurato e distillato è appunto la "realtà vera". E chi non lo comprende fa parte di quei "comuni mortali" con cui se la prendevano già filosofi antichi come Eraclito e Parmenide, veri avi degli scienziati, in quanto autori per primi della scissione realtà/apparenza.

Lo studioso individua un antesignano ancora più arcaico: l'eroe tragico Prometeo. Colui che ruba il fuoco agli dèi e lo rende «strumento per il progresso dell'uomo», che da quel momento in poi può dare libero sfogo alla sua volontà di piegare la natura. L'«atto con cui si inaugura il regno della scienza» è quindi per Sermonti un «furto mitico». Da lì in poi è un'escalation verso l'attuale dominio della scienza. Sermonti nomina ad esempio la «dea Ragione illuminista», in nome della quale sono anche volate parecchie teste. Ma si potrebbero ricordare pure filosofi del Novecento come Rudolf Carnap, secondo cui solo gli enunciati scientifici hanno senso (e loro eredi in sedicesimi del Duemila alla Oddifreddi).

Il culmine del processo è l'attuale «deificazione» della scienza, nuova religione razionalista e calcolante. Surrogato di Dio, avrebbe detto Nietzsche.
Peccato, incalza Sermonti, che la scienza si fermi esattamente quando iniziano le «domande fondamentali». Puoi mappare finché vuoi nei suoi infinitesimi dettagli tutto il genoma umano, spunterà sempre quel fastidioso: «Che scopo ho per vivere?». La biologia tirerà in ballo la riproduzione della specie, al massimo l'istinto di conservazione. Affonda Sermonti: «Questo ragionamento non è molto consolante, e se qualcuno meditasse di farla finita con la vita non penso che ne verrebbe dissuaso».

Testimonianza che la scienza manca clamorosamente quella che Heidegger chiamava «soglia dell'umano». Nel cosmo scientifico l'uomo è in cima alla scala evolutiva, una sorta di super-animale segnato da differenze di grado, quantitative con gli altri animali. Sparisce il salto qualitativo: il fatto che l'uomo sia l'unico preoccupato, minato alla radice dall'inquietudine, alla caccia di uno straccio di significato (Heidegger direbbe «interessato all'essere»).

Per Sermonti questa falla è lampante nel caso dell'evoluzionismo: «All'evoluzionista le cose del mondo, animali e piante e uomini, non interessano per come sono». Infatti, «non è l'evoluzionismo che deve ingegnarsi a spiegarli, sono essi che devono collaborare a illustrare la teoria dell'evoluzione». La quale è data come schema generale, a cui tutto va piegato. In barba a Sir Karl Popper, per cui una teoria è scientifica se è potenzialmente falsificabile. Altrimenti è metafisica. O, appunto, scienza divinizzata. Quindi, che fare di fronte ad essa?

Sermonti, scienziato ma non adepto della religione scientista, evoca una strada: «E allora a noi non resta che proporre, se la scienza vuol essere una via verso la realtà, che essa cessi questo atteggiamento da Stato totalitario, rinunzi a disporsi di fronte alla natura come chi stia completando una conquista militare, e si presenti con tutto un altro abito, come qualcosa di simile a una poesia, a una canzone, a un affresco, a una fiaba, che narrino della natura e alla natura si rivolgano perché presti loro ascolto». Da legge astratta a possibile "racconto" del mondo in mezzo ad altri racconti. Per cui «davanti alla scoperta, piuttosto che chiedersi "che uso posso farne (e a che prezzo posso venderla)?", si chieda lo scienziato "dove posso inserirla nel racconto che sto facendo del mondo?"». Così, forse, potrà recuperare anche l'anima.