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Felicità e «vita sensata» nel per-noi quotidiano di Agnes Heller

di Francesco Lamendola - 12/06/2008

Nata a Budapest nel 1929, assistente di Giörgy  Lukács all'Università di Budapest, l'ungherese  Agnes Heller occupa un posto particolare tra i pensatori del Novecento che, in area marxista, hanno condotto una critica interna a quella filosofia.

La sua posizione di aperto dissenso nei confronti del marxismo, così come si era realizzato nei sistemi politici del patto di Varsavia, finisce per costarle l'espulsione dall'università, nel 1959, in pieno clima di restaurazione e di guerra fredda, dopo la rivolta ungherese di tre anni prima; mentre i suoi libri ed articoli sono sottoposti al veto di pubblicazione. Riammessa, nel 1963, all'Accademia delle Scienze, diviene - insieme a F. Fehér, G. Markus, M. Vajda - uno degli esponenti di spicco della cosiddetta «scuola filosofica di Budapest».

Ma i suoi guai con il Partito comunista ungherese non sono finiti; tanto che dieci anni dopo, nel 1973, viene licenziata dall'Accademia. Comincia, così, a maturare in lei la convinzione di non poter più svolgere un lavoro utile in patria, insieme alla sfiducia nella riformabilità di un sistema politico che pare sordo a ogni sollecitazione di rinnovamento.  È in questa fase della sua vita, quando sembra giunta in un vicolo cieco, che accetta, nel 1978, un incarico presso l'Università di Melbourne in Australia. Da lì si trasferisce, poi, alla New School for Social Research di New York, occupando la cattedra intitolata ad Hannah Arendt.

Tra le sue opere più importanti - gran parte delle quali tradotte anche in lingua italiana -  ricordiamo (dando la data di pubblicazione originale): L'uomo del Rinascimento (1963); Sociologia della cita quotidiana (1968); Ipotesi per una teoria marxista del valore (1969); La teoria dei bisogni in Marx (1974); Istinto, aggressione, carattere (1977); Filosofia del radicalismo (1978); Teoria della storia (1982); Il potere della vergogna. Saggio sulla razionalità (1983); Le questioni fondamentali della filosofia morale (1984); La condizione politica postmoderna (1988); Frammenti di una filosofia  della storia (1993); Un'etica della personalità (1996); Il tempo è sfavorevole. Shakespeare come filosofo della storia (2002).

 

Al centro della sua riflessione vi è una rilettura del pensiero di Karl Marx in chiave anti-economicistica e antropologica, nonché una particolare attenzione per le questioni inerenti alla sfera dell'etica, il cui orizzonte ella intende ricostruire.

Nella prima fase della sua attività, la Heller  - sulla scia del suo maestro Lukács - ha approfondito e completato, in direzione dell'antropologia, l'ontologia dell'essere sociale, focalizzando sull'essere umano la ricerca intorno alla struttura ontologica effettiva della realtà. Partendo dall'analisi degli istinti, degli affetti, della «prima natura» umana (quella biologica), della «seconda natura» (quella psico-sociale), dei bisogni della personalità, ha tracciato le linee di una antropologia marxista che, poco a poco, l'ha condotta a un distacco da Luckács e del marxismo stesso.

Nella seconda fase della sua attività, infatti - che possiamo collocare a partire dalla rottura con l'Accademia delle scienze di Budapest -, Agnes Heller si accosta alle "etiche della comunicazione" di J. Habermas e K. O. Apel, accentuando sempre più l'autonomia dell'etica dalla sfera sia dell'ontologia, sia dell'economia, senza peraltro ridurla alla comunicazione, bensì accostandola alla sfera dei sentimenti e alla realtà dell'uomo.

Avvalendosi anche di spunti e suggestioni dalla fenomenologia, la pensatrice ungherese ha diretto buona parte della sua ricerca dopo l'espatrio, oltre che sui temi della filosofia della storia, sul ruolo della soggettività e sulla possibilità di trasformazione degli individui, combattendo le visioni naturalistiche secondo le quali la natura umana è determinata dalle condizioni materiali e sociali e, quindi, sostanzialmente immodificabile. Questo è, probabilmente, l'aspetto della sua ricerca che maggiormente l'ha allontanata dalle interpretazioni economicistiche del marxismo e, alla fine, ha segnato la sua rottura con il pensiero dello stesso Marx.

 

Un aspetto particolarmente interessante del vasto affresco delineato in Sociologia della vita quotidiana, una delle sue opere più significative e più conosciute, è - a nostro avviso - la sua riflessione sui concetti della «felicità» e della «vita sensata», nella parte conclusiva di essa, dedicata al per-noi della vita quotidiana.

È  tuttavia necessario, prima di procedere, chiarire il concetto di per-noi,così come quelli di in-sé e per-sé.

Si tratta di concetti che la Heller riprende da Marx, e dei quali si è occupato Lukàcs, riguardo alla scienza e all'arte, specialmente nella sua Estetica. Premesso che, in Marx, hanno un valore relativo, possiamo dire che, per quanto riguarda la natura, è essente-in-sé tutto quello che non è ancora permeato dalla prassi e dalla conoscenza; mentre è essente-per-sé tutta la sfera della prassi, che è permeata dal soggetto. Quanto alla società, per Marx è in-sé quella classe che, riguardo alla divisione del lavoro e al rapporto con i mezzi di produzione, è semplicemente presente, dal momento che l'ordinamento economico e sociale, senza il suo esser-così, non esisterebbe né potrebbe esistere.  Diventa, viceversa, classe per-sé quando prende coscienza del proprio essere  classe.

Il proletariato industriale, ad esempio, è una classe in-sé nella fase iniziale della sua formazione, quando è ancora inconsapevole della sua forza, dei suoi interessi e dei suoi diritti; diviene classe per-sé a partire dal momento in cui i suoi membri maturano la coscienza di formare una classe sociale, quel che Lukcàcs chiama una coscienza attribuita di diritto (in Storia e coscienza di classe). Inutile precisare che il passaggio da uno stato all'altro, dall'in-sé al per-sé, non avviene mai di colpo e in maniera nettamente definita, bensì attraverso un processo graduale, in cui è quasi impossibile indicare con precisione il momento esatto del mutamento.

Aggiungiamo che gli enti in-sé, nella società, sono ontologicamente primari, mentre quelli per-sé sono secondari; e che il regno dell'in-sé è il regno della necessità, mentre quello del per-sé è l'incarnazione della libertà umana. Secondo Marx, l'innalzarsi dei rapporti economici dall'in-sé al per-sé è la condizione necessaria e indispensabile per la realizzazione del comunismo. Le integrazioni, le strutture politiche e la sovrastruttura giuridica sono generiche in-sé e per-sé, vale a dire che i due momenti sono in esse, inizialmente, mescolati. Pertanto sono il grado, il tipo e la misura dell'alienazione che decidono quanto del momento dell'in-sé e quanto del per-sé sono presenti in esse. Il proletariato diviene classe per-sé quando elabora una sua attiva coscienza di classe, ossia quando riesce a superare l'alienazione in modo collettivamente soggettivo. Dunque,  nelle oggettivazioni in-sé e per-sé, il peso del per-sé è un indicatore della misura della libertà o, meglio, della possibilità della libertà.

Veniamo ora al per-noi. Il per-noi non è una categoria di oggettivazione; non esiste - dice la Heller - una oggettivazione generica per-noi. Ma tutto ciò che è reale, tutto ciò che è vero - quindi, non solo le oggettivazioni - può divenire essente per-noi. «Rendere qualcosa essente per-noi - scrive la filosofa ungherese -  significa rendere conoscibile e insieme trasformare in prassi una legge, un atto, un contenuto, una norma del genere umano e del singolo uomo. Per questo il per-noi contiene i momenti dell'adeguatezza e della verità. Essenti per-noi sono quindi i contenuti della genericità (in-sé e per-sé) quando trasmettono e rendono possibili conoscenze  sul mondo - relativamente - adeguate, tali cioè che gli uomini possano sulla loro base agire adeguatamente ».

 

Dopo questa necessaria premessa, vediamo quel che dice la Heller circa i due momenti della felicità e della vita sensata, a conclusione della sua lunga e minuziosa disamina dei vari aspetti sociologici della vita quotidiana.

Ci serviamo della traduzione italiana eseguita da Alberto Scarponi per gli Editori Riuniti di Roma, 1975, pp. 423-426 della Sociologia della vita quotidiana.

 

Il per-noi della vita quotidiana si distingue in due tipi, l'uno è la felicità, l'altro è la vita sensata.

 

La felicità

 

La felicità è il per-noi della vita quotidiana nel senso della realizzazione limitata. Essa è un per-noi concluso, che per principio non è possibile sviluppare, edificare ulteriormente, che è in sé un termine e un confine.

Proprio per questo al centro dell'etica antica stava la felicità. Il mondo dell'uomo dell'antichità classica è il mondo della realizzazione limitata (nella forma più elevata fra quelle note); i suoi confini non erano per esso limiti da superare, ma un punto estremo; e giacché la personalità antica era una individualità limitata, in questo mondo era la felicità il massimo bene. In altri termini, la vita è per-noi nel modo pensabile e attuabile entro il mondo della realizzazione limitata.

Cosicché non è casuale che proprio in Platone - il quale più di altri avvertì la crisi dell'antica polis - compaia, accanto a quello corrente anche un altro concetto di felicità: la felicità dell'attimo. Secondo Platone questi attimi di realizzazione si ottengono nell'amore e nella contemplazione del bello (delle idee).

Nell'antichità la realizzazione limitata - la felicità - viene senz'altro ricordata una categoria positiva; e infatti una diversa, più elevata realizzazione non è possibile. Ma dopo la dissoluzione delle comunità naturali (a partire dal Rinascimento) questa forma limitata di realizzazione va sempre più perdendo il suo contenuto di valore. Da allora in poi essere felici significa plasmare una vita in continua trasformazione, gravida di continui conflitti, in continuo superamento di se stessa, facendone un qualcosa che è definitivamente e univocamente per-noi. Ma ormai ciò è possibile solo per il singolo che si chiuda ai conflitti del mondo, che si «isoli in un recinto». Nella vita dell'uomo moderno la trasformazione della realtà in un per-noi implica anche il confronto con i conflitti del mondo, il perenne superamento del presente, la conquista del nuovo in statu nascendi e tutte le perdite che in tali operazioni il singolo può subire: cioè anche l'infelicità.

È Goethe che per primo, nel Faust tiene conto di questo nuovo problema. Nel momento in cui perviene alla felicità, Faust deve andare all'inferno, il diavolo possiede la sua anima. La sovrana assoluzione di Goethe è che il suo eroe, invece che alla felicità, perviene alla visione della vita sensata, sfuggendo così alla dannazione. Il poeta ungherese Attila József trovò insuperabili parole per esprimere il disprezzo dell'uomo moderno verso la felicità della realizzazione limitata:

 

          Io l'ho vista la felicità:

          bionda era e tenera, e d'un buon quintale e mezzo.

 

Ma la felicità, pur acquistando come per-noi della vita quotidiana un accento di valore negativo non ha perduto del tutto importanza nella vita quotidiana degli individui. Intatta resta la funzione assegnatale da Platone di per-noi dell'attimo, senza però che l'attimo assuma il significato di qualcosa di ultimo, di una condizione di vita. L'unione nell'amore, la contemplazione del bello, la realizzazione di un'opera, la fermezza d'animo, ecc. continuano in realtà a produrre ogni volta un indimenticabile e forte senso del per-noi della vita. Ma la vita non si limita a questi atti, non si trova la sua conclusione. Sono le grandi domeniche della vita quotidiana, che non esauriscono o surrogano il suo perenne essere per-noi.

Contrapposta alla felicità è la soddisfazione. Come abbiamo visto, questa non deriva dal per-noi della realtà, della vita in generale, ma dal soddisfacimento del bisogno di gradevolezza e utilità. Per questo, anche quando provenga dal fatto si essere utili all'uomo, essa è un tipo di condizione di grado inferiore rispetto ala felicità. Vero è che la soddisfazione, come la felicità dell'attimo, fa parte del per-noi di tipo superiore, ma anch'essa ne è solo un momento. Gli attimi di soddisfazione portano alla insoddisfazione, perché per la realizzazione non esistono «limiti», specialmente quando proviene dalla utilità per altri.

 

La vita sensata

 

La «vita sensata» è il per-noi della vita quotidiana in un mondo «aperto», caratterizzato dalla possibilità di uno sviluppo infinito dall'emergere continuo di nuovi conflitti. L'uomo che conduce una vita sensata, plasma il proprio mondo in un per-noi mutandolo e trasformandolo di continuo - e mutando e trasformando continuamente anche in se stesso.  - L'individuo che vive secondo un senso non è una sostanza chiusa, ma una sostanza in sviluppo che ritiene perennemente conto dei nuovi conflitti del mondo - del grande mondo - e (anche) in questi dispiega - illimitatamente - la propria personalità. I limiti di questa vita sono dati soltanto dalla morte. Questo individuo non racchiude la propria personalità in limiti di nessun genere, misura se stesso sul metro dell'universo, all'interno dei limiti dati sceglie da sé i suoi valori, il suo mondo, quell'universo che egli assume come metro.

Quando parla della felicità, Aristotele dice che, per ottenerla, sono necessari non soltanto la morale, ma anche certi beni di fortuna (ricchezza, bellezza, intelligenza, ecc.). Ebbene, anche una «vita sensata richiede questi beni di fortuna». Anzitutto occorre che il mondo in cui l'uomo vive offra la possibilità di condurre una vita sensata. Quanto più il mondo è alienato, tanto più necessari sono i beni di fortuna. Se bisogna lavorare senza senso per dodici ore al giorno, non si può avere una vita sensata. Ma «beni» indispensabili sono anche l'intelligenza e le doti, che poi sono difficilmente separabili dalla morale. Anche la morale può essere una dote, così come l'ingegno può essere solo materia prima.

Come alla felicità fa riscontro la semplice soddisfazione, così anche la vita sensata ha una controparte: il saper vivere. Anche colui che sa vivere trasforma la sua vita quotidiana in un qualcosa che è per-lui. Anche colui che sa vivere, come l'uomo che conduce una vita sensata, ritiene conto del nuovo e plasma di conseguenza la sua attività. Anche il saper vivere si accompagna a un costante autosviluppo della personalità. La differenza è che colui che sa vivere ha un'unica intenzione, quella cioè di fare della propria vita quotidiana un qualcosa che è per-lui. Quando certi conflitti, che non è possibile negare, gli impediscono di farlo, egli li mette semplicemente da parte. Fra i princípi di colui che sa vivere non c'è quello di «essere utile all'altro uomo», così come non si addolora per la sofferenza altrui. Colui che a vivere vuole una vita sensata, ma senza domandarsi se gli altri hanno la possibilità di condurre la stessa vita. Il saper vivere è aristocratico, mentre il principio della vita sensata è democratico.  Il motivo ricorrente di quest'ultima è sempre l'estensibilità, cioè l'intento di dare ad altre persone, magari a tutti gli uomini sulla terra, la possibilità di condurre una vita sensata.

Anche nelle condizioni della realizzazione limitata si una condotta di vita: anche qui l'individuo deve ordinare e gerarchizzare consapevolmente la propria vita. Tuttavia in questo caso essa ha una funzione subordinata, in quanto ordina la vita quotidiana del singolo conformandosi a tabelle di valori fisse, e per giunta lo fa una volta per tutte (se non intervengono casi imprevisti). Nella vita sensata ha invece un'importanza molto maggiore. Guida l'individuo permettendogli di tenere costantemente conto del nuovo, di riplasmare costantemente la propria vita e personalità, e insieme di conservare l'unità della personalità, la gerarchia che egli si è scelto. Nella condotta di vita l'uomo riconquista di continuo il per-noi della vita quotidiana.,

Compito - compreso e accettato - degli individui della nostra epoca, che conducono una vita sensata, è di creare una società in cui non esista più alienazione, in cui ciascuno abbia a sua disposizione quei «beni di fortuna» con i quali è possibile plasmarsi una vita sensata. E diciamo per l'appunto sensata, non una vita felice. Con il comunismo non potrà più ritornare il mondo della realizzazione limitata la storia vera sarà effettivamente storia, cioè u accadere continuamente gravido di nuovi conflitti e in continuo superamento della condizione a cui è pervenuto. Ma questa storia, in quanto storia vera - plasmata dagli uomini consapevolmente, a loro immagine - renderà possibile che la vita quotidiana di ciascun uomo divenga ancor più per-lui e che la terra, quindi, sia davvero la casa del genere umano.

 

Par di comprendere, giunti a questo punto, che il concetto di "felicità" sia da relegarsi nella soffitta delle pericolose forme di alienazione di matrice borghese (narcisismo e individualismo piccolo-borghesi, come rimproveravano le autorità sovietiche alle poesie di  Jurij Živago, nel romanzo di Boris Pasternak?),  mentre esso verrà sostituito dal ben più maturo e solidaristico concetto di "vita sensata", in cui sarà impossibile disgiungere il proprio vivere bene da quello di tutti gli altri esseri umani. È vero che la ricerca della "felicità" era caratteristica della società antica, nella quale - secondo il parere della Heller (che, èeraltro, lo afferma senza motivarlo) - la personalità era una individualità limitata; ma, appunto, il mondo antico e l'ancien régime, da un punto di vista rigorosamente marxista, avevano questo in comune: che vi prevalevano le logiche dell'egoismo individuale, in cui gli uomini di condizione privilegiata non si preoccupavano affatto di mettersi dal punto di vista di coloro - ed erano la maggioranza - che non potevano godersi lo stesso grado di autonomia e di benessere.

La Heller, in verità, non critica direttamente il concetto di felicità, bensì quello della sua versione egoistica e limitata, ossia la "soddisfazione", intesa come capacità di realizzare un alto grado di gradevolezza e utilità nella propria vita, senza però collocare questi aspetti positivi in un contesto di  benessere generale, sia soggettivo che oggettivo. Sembra anche, però, suggerire che, in regime di alienazione sociale (ossia, nella società non comunista), la felicità autentica è, in definitiva, impossibile, e che quello che gli individui designano con tale nome è, in realtà, la sua sorella minore e degradata, il suo misero surrogato borghese, ossia la "soddisfazione".

Tuttavia, non è su questo aspetto dell'analisi di Agnes Heller - escatologico e palingenetico - che desideriamo soffermare la nostra attenzione, quanto piuttosto sulla giusta e condivisibile affermazione che è tanto più difficile condurre una vita sensata, quanto più grande è il grado di alienazione della società; e che, quanto più grande è quest'ultimo, tanto più risulta necessario poter disporre, per l'individuo, di quel complemento necessario della "felicità" che è costituito, come voleva già Aristotele, dai cosiddetti «beni di fortuna».

In una società alienata dal ferreo dominio delle leggi del mercato, quale è quella in cui viviamo, diventa difficile realizzare il progetto di una vita sensata. Vi si oppongono non solo i ritmi, le strutture e i modi della vita sociale, interamente sottomessi alle logiche del profitto, ma anche il fatto che l'individuo è lasciato solo ed inerme di fronte a un ambiente impietoso, che non prevede fra le sue logiche quella della solidarietà e dell'altruismo. Pertanto l'individuo che, ad es., è affetto da una grave patologia, le cui terapie richiedono grosse spese, non può contare che su se stesso e sulle proprie risorse economiche e, nei limiti del possibile, egli cerca di tutelarsi ricorrendo alle prestazioni più qualificate, ma anche più costose, della sanità privata. Potrà anche accadere che, nelle strutture sanitarie pubbliche, i medici decidano di "staccare la spina" nel caso di quei malati, la cui sopravvivenza è legata alla somministrazione di cure e alla disponibilità di macchinarti estremamente costosi. Questa, anzi, è cronaca di tutti i giorni: per le industrie farmaceutiche, così come per i bilanci statali in regime capitalistico, la salute dei malati è soggetta alle stesse identiche leggi di qualsiasi altra merce presente sul mercato.

Vi è un elemento di verità, quindi, nella tesi di Agnes Heller che, in una società alienata, forte è la tentazione, per l'individuo, di cercare di ritagliarsi un angolino di "felicità" privata, intesa come evasione dal sociale e come rifugio in un particulare gelosamente custodito, contro tutto e contro tutti: ossia, di nuovo e sempre, nella banale categoria della "soddisfazione". Basta leggere i Ricordi di Guicciardini, per comprendere come questo rischio esista anche per gli intellettuali di un certo livello; e basta sfogliare un romanzo o guardare un film tra i più apprezzati dal pubblico odierno, per rendersi conto che si tratta di una tendenza non solo maggioritaria, ma quasi plebiscitaria nella società odierna; per non parlare della musica leggera, della televisione o del tempo libero.

E allora?

E allora bisogna riconoscere che, su questo punto, la critica di Agnes Heller era puntuale e pertinente; e fanno male, molto male i corifei del capitalismo a levare al cielo i loro grossolani canti di vittoria per il crollo dell'ideologia marxista e per quella che essi suppongono, con incosciente trionaflsimo, essere niente di meno che la fine della storia (è la tesi di Fancis Fukuyama e di altri esponenti del pensiero neo-conservatore).

Il marxismo è stato una risposta sbagliata e masochista ad una serie di problemi fin troppo reali sollevati dalle condizioni di vita nella società del capitale. Quei problemi non sono spariti, come per un colpo di bacchetta magica, con il crollo dei sistemi e dei partiti politici ispirati al marxismo; sono divenuti, semmai, più complessi e più drammatici - anche a livello di distruzione ambientale - e continuano ad esigere delle risposte. Fino a che quelle risposte non verranno, altre filosofie sbagliate e negatrici della persona, come il marxismo, verranno ad offrire un illusorio raggio di speranza al malessere della civiltà dei consumi.

Siamo tutti interpellati al riguardo, nessuno escluso.

Se vogliamo ridare alla vita - e non solo alla vita umana, ma alla vita nel senso più universale del termine - tutta la dignità che essa merita, non possiamo permettere che le logiche del mercato - che è, oggi, un mercato globale - continuino nel loro fatale processo di alienazione delle comunità e degli individui, di distruzione delle specificità culturali, di devastazione del pianeta in cui viviamo e di allargamento della "forbice" tra l'umanità opulenta e quella diseredata.

Non posiamo permettere che la locomotiva impazzita del capitalismo ci conduca irreparabilmente sul binario morto dell'autodistruzione.

Anche per questo è utile tornare a leggere anche filosofi marxisti - quali Althusser, Lefebvre, Heller - che, sia pure da posizioni ideologiche che non condividiamo e che si sono dimostrate illusorie, possono tuttavia offrire utili spunti di riflessione affinché possiamo forgiare gli strumenti con i quali correre ai ripari, nella nostra grave crisi attuale.