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Alla ricerca della terra perduta. La valenza simbolica del camminare

di Roberto Mussapi - 12/06/2008

Il camminare come condizione del pellegrinaggio: e non solo perché implica la fatica, ma anche per la sua valenza simbolica.
Il bisogno dell’uomo di procedere verso un luogo che porta le tracce del divino.
Ecco la metafora del nostro 'stare al mondo'

I l viaggiatore ha una meta precisa, legata a uno scopo: il primo, Ulisse, vuole tornare a Itaca, la sua piccola isola petrosa, il suo regno, dove vive la moglie Penelope, il figlio Telemaco. Il suo viaggio di ritorno è ritardato all’infinito da prodigi, pericoli, sventure, naufragi, avventure terribili o stupefacenti.
  Un grande viaggiatore questa volta storico (ma anche, di fatto, mitico, come diviene storico Ulisse e ogni personaggio che il mito faccia vivere realmente), Marco Polo. Ha uno scopo preciso, partire per Oriente con il padre e lo zio per vendere e acquistare. È un grande mercante. Ha anche una meta, la capitale dell’immenso impero della Cina, il dominio sterminato dell’imperatore di tutti i Tartari, e di tutto l’Oriente ai Tartari sottomesso, Khublai Khan. Anche Marco Polo compie un viaggio che si rivela una mirabolante avventura, con pericoli (predoni, calamità, luoghi impervi) e prodigi (incanti, adoratori del fuoco, esseri straordinari, gemme mai vedute).
  Il viaggiatore ha uno scopo e una meta precisi, che non necessariamente coincidono: in Ulisse ciò avviene, per il mercante veneziano non è detto. Potrebbe, nel viaggio, trovarsi a incontrare una città, una situazione, che imprevedibilmente rendano i suoi affari più vantaggiosi del previsto, al punto da rinviare o procrastinare senza data la partenza per la meta prestabilita.
  Il pellegrino ha una meta, che coincide letteralmente con lo scopo del suo viaggio. Quel luogo è la destinazione e anche la ragione del viaggio. Quel luogo è assoluto.
  Si va al Santuario, a Santiago de Compostela, alla Mecca, al Gange per andare lì. Infatti non si cerca un mezzo comodo per raggiungere quel luogo (se Ulisse avesse potuto avrebbe preferito altre soluzioni alle zattere e ai naufragi, e Marco Polo non aveva alternative al cavallo), ma vi si arriva camminando. Il cammino è condizione del pellegrinaggio, e non solo perché implica la fatica, ma anche per la sua immediata valenza simbolica: noi uomini sul pianeta siamo esseri ambulanti, e saremmo persi se non ci mettessimo in cammino verso qualche luogo in cui siamo certi si sia manifestato il divino. Il pellegrino non può quindi essere distratto dalla sua meta, perché meta e senso del viaggio coincidono. Il pellegrinaggio è quindi metafora del percorso che l’uomo dovrebbe seguire nella sua esperienza quotidiana sulla terra, realizzato però in una dimensione eccezionale, che interrompe la sua attività in senso assoluto, anche quella che gli consente di vivere, di procurarsi il pane. Il pellegrinaggio è quindi un’interruzione del tempo storico, una sorta di estasi suscitata con strumenti umani, la fatica e lo stacco dal lavoro e dalla necessaria attività per la sopravvivenza. Ma il fatto che abbia meta e e percorso precisi non significa che nel cammino il pellegrino sfugga alla perenne e luminosa logica del mistero: nulla è scontato. Il luogo stesso verso cui si cammina, non promette la certezza dell’oracolo greco, peraltro complicata dalla sua lingua oscura, il fine del viaggio è una certezza coincidente con un mistero.
  Analogamente non è rettilineo il percorso spirituale del pellegrino: Fernando Lanzi, con la moglie Gioia una delle massime autorità europee in materia, riferendosi a un celebre pellegrinaggio cristiano mi raccontava che non tutti coloro che partivano erano credenti, e non tutti i credenti lo erano allo stesso modo. Vi sono molti che fiutano qualcosa che di cui non sono certi e che non sono disposti a riconoscere, e che a volte non troveranno. Ma, se bene interpreto Lanzi, la molla che li spinge è della stessa natura di quella del pellegrino attrezzato e ortodosso.
  Fatta questa distinzione credo che la dimensione del mistero, quella che mi nutre dalla nascita, quella che mi fece percepire la poesia come una scienza e una fame e non come un lusso o un gioco, permanga, congenita. Non vorrei quindi che la distinzione tra viaggiatore e pellegrino, pure fondamentale, venisse rimarcata troppo: chi mi dice che Cristoforo Colombo, cercando di giungere a Oriente, alla fonte della luce e della vita, passando da Occidente, tornare all’alba doppiando il tramonto, fosse solo un grande navigatore e non un mistico pellegrino alla ricerca del senso ultimo dell’essere?
  Non amo la cultura del nomadismo (quello borghese, non quello storico delle popolazioni nomadi), ma sento che anche in Kerouac e certo nei film di Wim Wenders, nell’uomo che si mette sulla strada, in automobile o in moto, c’è qualcosa del pellegrino, un pellegrino in questo caso che non sa bene verso dove, ma sa che deve partire. Come insegna Julien Ries, se non lo fraintendo, l’uomo è religioso sempre, non solo quando pratica riti ufficialmente religiosi.
  Le pitture rupestri nelle caverne sono atti religiosi in quanto tali, non solo perché sono state eseguite per iniziare, pregare, praticare riti, ma per il semplice fatto che sono state eseguite, che lo spirito ha mosso la mano dell’uomo. Analogamente, chiunque senta bisogno di un luogo che sia una meta, e senta che esiste, occulta ma reale, una strada, è già un potenziale pellegrino.
 Avere una meta: è l’«habitus» di chi si mette in cammino.
  È questo che unisce figure, che continuamente ritornano nella nostra storia, come Ulisse, Marco Polo, Colombo.
  Ma anche autori moderni come Kerouac e Wenders.
  Esploratori in cerca di un destino o in attesa di un prodigio