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Il testimone (rifiutato) del Gulag

di Antonio Carioti - 14/06/2008

L'ex deportato Dante Corneli offrì invano le sue memorie ai grandi editori

Una grande occasione sprecata. Per pura negligenza o forse anche per pregiudizi politici. Non è possibile considerare altrimenti l'esito negativo dei tentativi compiuti da Dante Corneli — militante comunista italiano fuggito in Urss nel 1922, a lungo recluso nel Gulag e poi tornato in patria nel 1970 — per proporre a tre grandi editori (Rizzoli, Mondadori e Rusconi) le sue memorie.
La vicenda, rivelata nell'edizione postuma delle memorie di Corneli uscita nel 2000 ( Il redivivo tiburtino, Liberal Libri), si può oggi ricostruire nei dettagli grazie a Marcello Braccini, che fu fraterno amico dell'ex deportato, scomparso nel 1990, e ne conserva le carte nella sua casa di Torino. «Lo conobbi nel 1979 — racconta al Corriere — quando ero un militante trotzkista». Braccini non fa più politica attiva, ma si riconosce in una visione di sinistra libertaria alla George Orwell. Non a caso ha intitolato La fattoria degli animali il suo bollettino artigianale, ma ben informato e rigoroso, dedicato alle vittime italiane dello stalinismo.
Ma torniamo a Corneli. Espatriato dopo aver ucciso il segretario del fascio di Tivoli, cittadina del Lazio dove era nato, nell'Urss degli anni Venti aveva aderito all'opposizione antistalinista e poi era stato arrestato nel 1936 come trotzkista. Deportato nel campo di Vorkuta, oltre il circolo polare artico, rimase ai lavori forzati per dieci anni e poi venne tenuto al confino. Solo nel 1960 riacquistò la libertà. Quindi ottenne il visto per recarsi in Italia, anche grazie all'aiuto del dirigente comunista Umberto Terracini. E nel 1970, ormai settantenne, decise di trasferirsi definitivamente a Tivoli. Non fu una scelta facile, testimonia Braccini: «Dovette lasciare in Urss la moglie e i figli e perse, come emigrato illegale, ogni diritto alla pensione sovietica. Viveva molto modestamente, presso la sorella, grazie anche agli aiuti di amici come Terracini, Giuseppe Berti, Franco Venturi e Renato Mieli».
Tra le ragioni che avevano spinto Corneli a tornare in Italia c'era la volontà di raccontare l'esperienza del Gulag. Già l'8 settembre 1970, pochi mesi dopo il trasferimento in Italia, chiede per lettera a Rizzoli se è disposto a pubblicare i suoi ricordi, di cui gli invia un estratto. Chi li leggerà, scrive, vedrà la realtà autentica dell'Urss: «Cosa sono i soviet, qual è la situazione della donna e dell'operaio, l'ubriachezza, la nuova classe privilegiata, la campagna di una volta e quella di oggi collettivizzata, il nazionalismo, la fine di quasi tutti gli emigrati politici italiani, in parte la fine degli anarchici emigrati in Urss, e alcune decine di biografie e la fine di comunisti italiani oramai da tutti dimenticati».
Difficile negare l'interesse di una simile offerta. Può darsi che il brano spedito da Corneli presentasse dei difetti: appena rientrato dal-l'Urss, dopo decenni in cui aveva parlato solo russo, certo non scriveva in un italiano perfetto. Ma una simile testimonianza diretta sul sistema concentrazionario staliniano e le sue vittime italiane avrebbe avuto un impatto enorme ( Arcipelago Gulag di Solgenitsin non era ancora uscito), se adeguatamente valorizzata. Solo che la lettera non ebbe risposta.
Il 9 ottobre 1970 l'anziano ex deportato ci riprova, stavolta con Mondadori, proponendo una ventina di testi «sulla vita sovietica, così come io l'ho conosciuta e vissuta; su amici e compagni di lavoro italiani, russi e di altre nazionalità con i quali ho lavorato e vissuto nelle diverse regioni dell'Urss, nei campi dei lavori forzati, nei luoghi di deportazione». E chiarisce il suo intento: «Vorrei far conoscere ai lavoratori italiani cos'è la "libertà", la "democrazia" e l'"uguaglianza" sovietiche». Evidentemente però qualcuno preferiva che gli italiani rimanessero all'oscuro, tanto che il 23 ottobre la direzione letteraria della Mondadori scrive a Corneli per comunicargli con gelido linguaggio burocratico che è giunta «alla decisione di non potere, per varie ragioni di carattere editoriale, procedere alla pubblicazione del suo diario».
Forte dev'essere stata la delusione dell'interessato, che però non si perde d'animo e dà forma organica ai suoi ricordi, fino a stilare circa 500 pagine di un libro che voleva intitolare Mezzo secolo in Russia. Il 5 maggio 1973 le manda all'editore Rusconi: «Rifacendo il mio cammino — spiega nella lettera di accompagnamento — ricordo le centinaia di italiani che ho incontrato nelle officine, a Mosca, in altre città, nei lager, in deportazione e la loro fine. Accenno anche alle responsabilità di certuni comunisti italiani». Ce n'è abbastanza per rendere il manoscritto appetibile. Ma l'unica replica è il silenzio.
Così Corneli decide di pubblicare le sue memorie in proprio, come dei samizdat italiani. «Escono quattro opuscoletti — precisa Braccini — nel biennio 1974-75. Poi finalmente, grazie a Terracini, si trova un editore: è La Pietra, il cui direttore Enzo Nizza, benché comunista, dà spazio alla memorialistica scomoda proveniente dall'interno del Pci. Ma si procede con cautela. Nella proposta di accordo datata 5 febbraio 1976, la casa editrice si riserva "aggiustamenti di stile e di esposizione", pur concedendo a Corneli una revisione del testo».
Il risultato è la prima edizione del volume Il redivivo tiburtino, uscita nel febbraio 1977, che è un resoconto impressionante sul Gulag, ma non riflette in pieno il pensiero di Corneli: «Era insoddisfatto — ricorda Braccini — tanto che a un certo punto minacciò di ritirare la firma. E non ebbe una lira per la traduzione francese del libro, che uscì da Fayard nel 1979». Fra l'altro l'edizione La Pietra presentava Corneli come un comunista irriducibile: «In realtà — precisa Braccini — era rimasto antifascista, ma non limitava la sua critica al solo stalinismo. Ricordo che rifiutò di farsi fotografare con me sotto un ritratto di Trotzkij, che pure non equiparava a Stalin. E una volta mi disse: " La peggiore democrazia è meglio del migliore comunismo"».
Tuttavia il fatto più grave, conclude Braccini, è un altro: «Nel testo uscito presso La Pietra era stata censurata la parte sulle vittime italiane dello stalinismo, specie nei passi riguardanti le responsabilità nella repressione dei capi del Pci. E infatti già nel maggio 1977 Corneli comincia a stampare, sempre a sue spese, una serie di opuscoli sull'emigrazione antifascista in Urss, in cui mette sotto accusa come complici del terrore diversi dirigenti comunisti, compreso Palmiro Togliatti. Continuò così fino alla vigilia della morte, sorvegliato a distanza dall'ambasciata sovietica e dal Pci, ma quasi del tutto ignorato dai mass media. Un'eccezione positiva fu Enzo Biagi, che gli diede la possibilità di intervenire una volta dal teleschermo alla Rai: l'unica breccia importante nel muro dell'indifferenza».