Iraq: le nuove strategie Usa
di Is.La. - 28/01/2006
Fonte: Rinascita
“L’esercito americano è allo stremo a causa della guerra in Iraq e Afghanistan e rischia il collasso se non si interviene al più presto e in modo efficace”.
E’ una affermazione più che condivisibile. Il passo successivo dovrebbe essere il ritiro immediato delle truppe Usa dai due Paesi, impoveriti e destabilizzati dall’occupazione statunitense. Lo sforzo militare statunitense, infatti, sembra tanto più inutile quanto più passa il tempo: la guerriglia, specie in Iraq, è sempre più organizzata e colpisce quotidianamente occupanti Usa e collaborazionisti iracheni.
Quella di un esercito sull’orlo del tracollo è una immagine descritta da tale Andrew Krepinevich, un personaggio descritto da certa stampa ‘assopita’ semplicemente come esperto militare ed ufficiale in pensione propugnatore di un rinnovamento strategigo e tecnologico delle forze armate Usa. Ma Krepinevich è molto di più: è professore alla George Mason University, è uno storico del Vietnam, e dirige il ‘Center for Strategic and Budgetary Assessments’, uno di quei think tank che si professa indipendente ma che, di fatto, viene pagato dagli Usa per snocciolare strategie utili alla democratizzazione planetaria made in Usa. Nel 1999, questo semplice ‘ex soldato’ disse: “Sembra che siano in generale tutti d’accordo riguardo il bisogno di trasformare l’esercito americano in un tipo di forza significativamente diverso da quello uscito vittorioso dalla Guerra Fredda e dal conflitto del Golfo. Ma questo sostegno a parole non si è ancora tradotto in un programma di difesa che sostenga la trasformazione... 'le masse critiche' hanno bisogno di un effetto che non è stato ancora conseguito. Si può concludere che, in mancanza di una forte scossa esterna agli Stati Uniti - una sorta di 'seconda Pearl Harbour’ - che abbatta le barriere alla trasformazione, sarà un processo lungo e arduo”. Un discorso molto, troppo simile a quelli dei neocon del PNAC. E siamo due anni prima dell’11 settembre 2001.
La recente critica all’esercito Usa da parte di questo lungimirante ‘analista’ viene fuori da una relazione stilata dal ‘CSBA’ nientemeno che per il Pentagono.
Le forze armate statunitensi non sono in grado di sostenere i ritmi di dispiegamento di truppe al fronte, rileva Krepinevich, una condizione che deriva dal mancato raggiungimento, per la prima volta dal 1999, degli obiettivi di reclutamento fissati per l’anno 2005. I riservisti che infatti accettano di tornare in servizio sono sempre meno. Poco più di un anno fa, nel novembre 2004, più di duemila riservisti avevano rifiutato di rientrare nell’esercito per andare a combattere in Iraq o in Afganistan. Una carenza che complica ancora molto gli sforzi del Pentagono per coprire il numero dei morti e dei feriti. Una situazione che ha spinto il Pentagono ad offrire bonus extra e altri incentivi per chi si volesse arruolare.
Nel rapporto stilato dal ‘CSBA’ si parla dunque di “corsa contro il tempo” se si vuole evitare il rischio di un “catastrofico declino” delle forze armate Usa.
Già qualche mese fa, in occasione della pubblicazione sulla rivista ‘Foreign Affairs’ di un suo saggio intitolato ‘Come vincere in Iraq’, Krepinevich, o meglio le sue tesi per ottenere la vittoria nel Paese arabo, fu al centro delle discussioni tra quelli che questa guerra la stanno conducendo dal 2003. Di fatto la proposta di Krepinevich non è certo nuova, essendo una riattualizzazione della strategia definita ‘a macchia d’olio’, utilizzata negli anni 50 dai britannici in Malesia. Per sconfiggere la guerriglia e conquistare “i cuori e le menti” degli iracheni, afferma il professore della George Mason University, non è sufficiente farli votare e aiutarli a sviluppare le istituzioni democratiche: l’ipotesi di un ritiro non va neanche presa in considerazione, l’addestramento degli iracheni è solo un piano di rientro e non la chiave per vincere, ha precisato il professore. Ciò che serve è un nuovo approccio, un nuovo modo di combattere sul campo. Così, per Krepinevich, invece che concentrarsi sulla caccia al nemico, la coalizione dovrebbe scegliere alcune città chiave e impegnarsi a garantirne la sicurezza, dapprima in aree limitate e circoscritte e poi, a poco a poco, allargarsi appunto ‘a macchia d’olio’. Gli iracheni, nelle zone ‘protette’, sarebbero liberi di collaborare e riuscirebbero ad apprezzare i benefici della nuova convivenza civile. Anche in America sarebbe più facile notare i progressi nei quartieri rigenerati. La strategia di Krepinevich avrebbe un altro vantaggio: farebbe capire ai ribelli che l’intervento in Iraq non è una toccata e fuga, piuttosto un impegno generazionale, lungo e graduale. La proposta del prof-ex militare è una chiara critica all’impostazione voluta dal segretario alla Difesa Usa Rumsfeld, anche perché richiederebbe un grosso impegno in termini di forze e tecnologie, quindi di quel maggiore dispiegamento di truppe la cui necessità è stata sempre negata dal falco Usa. Il che delinea ulteriormente le diverse correnti che agiscono all’interno dello stesso Pentagono.
In ogni caso qualche traccia di questa impostazione sembra aver già fatto breccia nelle strategie dell’esercito statunitense in Iraq. Da diversi mesi, infatti, si assiste ad una concentrazione permanente di ingenti forze su un specifiche zone, come, ad esmpio, la provincia sunnita di Al Ambar o la zona al confine con la Siria.