Rispetto per la scelta democratica palestinese
di Jonathan Steele* - 30/01/2006
Fonte: Nuovi Mondi Media
Se l’Europa vuole aspirare ad un ruolo indipendente dall'approccio Usa in Medio Oriente, è vitale che continui a finanziare l’Autorità palestinese nonostante la presenza nel governo di Hamas. Hamas deve essere incoraggiata ad aspirare ad essere più onesta dei suoi predecessori |
Il trionfo di Hamas nelle elezioni palestinesi di giovedì è la migliore notizia che arriva dal Medio Oriente da molto tempo a questa parte. Il voto ha rappresentato un’impressionante manifestazione di democrazia maggiore che in ogni altra regione, superando il voto dell’anno scorso in Libano e in Iraq sia in quanto a dimensioni che per quanto riguarda la differenza di prospettive che i candidati rappresentavano. Mentre in Iraq i partiti che si opponevano all’occupazione dovevano mitigare o persino oscurare le loro vedute, i sostenitori palestinesi della resistenza armata alle strategie espansioniste di Israele hanno potuto venir fuori liberamente. E’ vero che i candidati di Hamas non hanno fatto delle loro relazioni con Israele la colonna portante della loro campagna. Piuttosto si sono concentrati sulla riforma dell’Autorità Palestinese. Ciononostante, pochi erano gli elettori inconsapevoli dell’ostilità senza compromessi di Hamas all’occupazione, e del suo obiettivo di combatterla. Le elezioni di giovedì sono importanti anche perché non devono nulla agli sforzi (selettivi) di Washington di promuovere la democrazia nel mondo arabo. Al contrario, è stata un’ulteriore prova che la società civile in Palestina è più viva che in qualsiasi altra zona della regione mediorientale e che i politici palestinesi hanno delle loro proprie dinamiche, dettate non da pressioni esterne ma dalle richieste economiche e sociali di gente ordinaria comune che si trova in condizioni disagiate. Dopo tutto, la democrazia altro non è che il fornire un forum dove esprimere liberamente speranze e paure, dibattere le politiche e cercare soluzioni concordate. Come era prevedibile, ad Israele e a Washington le reazioni di fronte alla vittoria di Hamas sono state negative. I governi europei dovrebbero essere in grado di essere più sensibili. La prima parola d’ordine è la cautela. Applaudire il processo ma non prendere posizione sul risultato. In questo periodo in cui si chiariscono le cose e Hamas definisce le sue priorità di governo, gli europei dovrebbero chiedersi perché Hamas abbia tutto questo sostegno. Tra i vari leader di Hamas che ho incontrato a Gaza la scorsa estate, Mahmoud Zahar, uno dei fondatori, ancora vivi, lasciava trasparire il più chiaro senso di profonda lucidità. Formatosi come dottore a El Cairo, è adesso una piccola figura di mezza età con capelli grigi pettinati alti, che mi ha suscitato varie impressioni. Non ci troviamo di fronte a un rivoluzionario guidato da Mosca o ad un ricco combattente della jihad come Osama Bin Laden, motivato dall’ideologia o dal desiderio di avventura. Come altri abitanti di Gaza, ha vissuto l’occupazione sulla sua pelle. Sua moglie è rimasta paralizzata e il suo figlio più grande è stato ucciso da un attacco israeliano a base di F16 nella sua casa nel 2003. Zahar era nel proprio giardino ed è stato fortunato ad essere sopravvissuto. Nonostante ciò, ha preso la guida lo scorso anno persuadendo i suoi colleghi che Hamas doveva dichiarare una tregua o un periodo di “calma” con Israele. Per 11 mesi nessun membro di Hamas ha condotto un attentato suicida. Questa è senza dubbio una conquista, una conquista che i diplomatici stranieri raramente prendono in considerazione. Le ragioni di Zahar non erano solo tattiche – il desiderio di negare a Sharon il pretesto per abbandonare il suo ritiro da Gaza. La sua strategia è di ridurre il confronto con Israele per un periodo sufficientemente lungo, in modo che la società palestinese possa ritrovare la sua unità, rivitalizzare la sua forza morale e ripulire le proprie istituzioni. Sente che i governi occidentali forniscono aiuto e utilizzano le negoziazioni con Israele solo per definire condizioni e per esercitare pressioni, e non negli interessi della giustizia. Così vuole che i Palestinesi vengano rappresentati da una larga coalizione governativa che guardi al mondo arabo e a quello islamico come partners economici e come fornitori di supporto diplomatico. Una sorta di “unilateralismo parallelo”, che si addice a un clima in cui il mero campo di pace ha chiaramente perso ogni reale capacità. “Il comportamento di Israele mostra che non vi è nessuna intenzione di firmare accordi. Faranno molti passi unilaterali”, mi ha detto Zahar. “In questa situazione mal bilanciata e con l’interferenza dei paesi occidentali negli affari interni di ogni nazione araba, specialmente Siria e Libano, noi possiamo vivere senza firmare nessun accordo e avere un periodo di calma per molto tempo. Siamo a favore di un tregua di lungo termine senza il riconoscimento di Israele, anche chi sostituirà Sharon è anche in cerca di una tregua. Tutto cambierà in dieci o vent’anni”. Zahar mi ha anche lasciato con pochi dubbi sull’incombenza della questione del potere. Ha sottolineato che Mahmoud Abbas rimarrà presidente per altri tre anni, come a dire che egli può rappresentare un fronte conveniente per gli inevitabili poco produttivi dibattiti con Washington e Israele, mentre Hamas agirà come cane da guardia sulle questioni essenziali. “Non ci saranno contraddizioni tra consiglio legislativo palestinese e presidente”, ha detto. “Noi saremo guardie della sicurezza, e la valvola di sicurezza contro ogni tradimento”. Insieme alla necessaria cautela nella reazione alla vittoria di Hamas, la seconda priorità dell’Unione europea dovrebbe essere quella di operare all'insegna della continuità. Qualsiasi taglio negli aiuti europei sarebbe solo un regalo alla linea dura israeliana. L’Europa è il maggiore donatore internazionale all’Autorità palestinese e Javier Solana, il responsabile della politica estera europea, ha preso una grossa cantonata lo scorso mese, quando ha dichiarato in una conferenza stampa a Gaza che “sembra davvero improbabile che i soldi e gli aiuti destinati all’Autorità palestinese continuino a fluire” nel caso vinca Hamas. Le dichiarazioni di Bruxelles di giovedì scorso erano state più misurate. Se l’Europa, per quanto debole possa essere il suo potere, vuole avere un ruolo indipendente in Medio Oriente, chiaramente differente dall’approccio statunitense, è vitale che continui a finanziare l’autorità palestinese nonostante la presenza nel governo di Hamas. L’UE non dovrebbe neanche indietreggiare nella cinica speranza che Hamas sia corrotta come al Fatah, così da perderne il sostegno. Non si possono utilizzare le tasse europee per rafforzare le istituzioni palestinesi mentre privatamente si vuole che le riforme falliscano. Hamas dovrebbe essere incoraggiata ad aspirare ad essere più onesta dei suoi predecessori. Soprattutto, l’Europa non dovrebbe premere sulle questioni sbagliate, come la resistenza armata e la “guerra al terrore”.Uccidere un politico palestinese attraverso un attacco di larga scala, destinato anche ad uccidere civili innocenti, non è migliore, legalmente e moralmente, di una bomba suicida in un bus. Il rifiuto di Hamas di dare riconoscimento formale al diritto di esistere di Israele non dovrebbe essere visto dall’Europa come un problema urgente. La storia e la politica internazionale non camminano con passi simultanei e certi. Per decenni Israele si è rifiutata persino di riconoscere l’esistenza del popolo palestinese, proprio come la Turchia non ha riconosciuto i curdi. Fino a 15 anni fa i palestinesi erano costretti a spacciarsi, ai summit internazionali, come parte della delegazione della Giordania. È possibile che Hamas possa alla fine disarmarsi e riconoscere Israele. Quel momento rappresenterà la fine di un processo che cerca di stabilire un giusto modus vivendi per i palestinesi e gli israeliani nel Medio Oriente. Ma non può essere il primo passo. La priorità di oggi è quella di accettare che i palestinesi abbiano parlato liberamente. E per questo meritano rispetto e sostegno. *Guardian Fonte: http://www.guardian.co.uk/Columnists/Column/0,,1696159,00.html |