Dossier Telecom
di Giovanni Petrosillo - 23/07/2008
Vi proponiamo i vari pezzi giornalistici citati da
Ma ho voluto riportare l’articolo di D’Avanzo anche perché, dalle dichiarazioni di Tavaroli, quantunque l'uomo stia fornendo versioni contraddittorie della vicenda, si capisce come le grandi aziende strategiche strutturino le loro iniziative conflittuali verso l’ambiente esterno. Riporto, pari pari, quanto detto dall’ex responsabile della security Telecom:
“Ho già detto che una concezione moderna della sicurezza (che è reputazione, soprattutto) deve fronteggiare anche - o soprattutto - quella roba lì, gli attacchi politici, le ostilità di parte, i pregiudizi, i veleni. Deve saper leggere e anticipare le iniziative avverse, condizionare le mosse dei rivali o ridurli al silenzio. E' un lavoro che si nutre di conoscenza. Conoscenza dell'avversario, delle sue ragioni più autentiche e nascoste, ma è anche "sapere" e dunque capacità di adattarsi a quella "emergenza" o sventandola o ridimensionandola. In gergo, le chiamiamo "analisi del rischio" e "analisi di scenario". In quell'avvio di gestione della Telecom, ne avevamo bisogno come dell'aria. Il momento intorno a noi era sconfortante. Non c'era stato soltanto l'11 settembre, c'erano ancora le macerie dello sgonfiamento della bolla speculativa, la catastrofe dei bond argentini".
Chissà cosa ne penseranno i nostri amici economicisti di questo agire al di fuori della mera logica del profitto…
Veleni e allusioni, "Repubblica" rilancia l’indagato Tavaroli
di Nicola Porro
Il grande accusato, intervistato dal quotidiano, rivendica un ruolo di "uomo di Stato". Ma ha le idee confuse: i guai per
Tronchetti Provera arrivarono dal governo Prodi, non dal Cavaliere
Ieri la
Repubblica è ritornata sulla questione Tavaroli- Telecom con un titolo che prova a dire tutto: «E Tronchetti mi disse: leabbiamo chiesto troppo». È la sintesi di «sei colloqui» che Giuseppe D’Avanzo, il cronista del quotidiano, ha avuto con Giuliano
Tavaroli. È l’autobiografia di un carabiniere che, a un certo punto della sua vita, decide «di trasformarsi in un uomo di
business» e scala i gradini manageriali fino a diventare capo della security di una grande azienda. Ma andiamo per ordine.
1. Con la caduta del Muro di Berlino, dice Tavaroli, un gruppo di uomini dei servizi capiscono che «la sicurezza deve diventare
una funzione dell’azienda». L’Italtel, per fare un esempio aveva 150-200 uomini in Urss, «mentre il Sismi faceva fatica ad
infiltrare anche solo un uomo».
2. L’esperienza della lotta al terrorismo insegna che un gruppo scelto di professionisti possa combattere per le istituzioni
scavalcando le gerarchie e con un rapporto diretto con le Procure.
3. Tronchetti Provera non aveva rapporti con la politica e tanto meno con il nuovo governo (è il 2001) Berlusconi, che
rappresentava «una famiglia impenetrabile». Da ciò l’esigenza, per Tavaroli, di stringere nuovi rapporti con il Palazzo.
4. La sventura di Tavaroli nasce dal fatto che un pezzo delle istituzioni, che voleva indagare sulla filiera dei servizi militari da
cui proveniva Tavaroli, «ha incominciato ad indagare su di me (dice Tavaroli) in modo strumentale. Volevano rimuovermi dal
mio posto».
La
Repubblica, che più ha soffiato sullo scandalo intercettazioni, su queste confessioni cerca di dimostrare l’importanza diun’inchiesta che, continuiamo a credere, si sia conclusa con un colpo a salve. Tavaroli non fa altro che confermare i sospetti
che solo due giorni fa abbiamo scritto sul Giornale. Il suo malaffare, l’organizzazione di migliaia di dossier e schedature, finisce
stritolato in mezzo ad una battaglia, senza esclusione di colpi, che si fanno diverse anime dei servizi segreti. Servizi che fino a
quel momento avevano utilizzato con disinvoltura le sue competenze.
Ma Tavaroli, in effetti fa un passo in più. Dice che il rapporto tra gliuomini delle Procure e gli «infiltrati» nelle grandi aziende
era diretto, senza mediazioni. Da una parte annulla, per questa via, ogni responsabilità oggettiva dei vertici aziendali, dall’altra
lancia un’accusa importante. La confessione di Tavaroli in effetti coincide con il ruolo di Bove in Telecom. Un altro manager
della security,conunglorioso passato da poliziotto, scomparso in un drammatico suicidio. Poco prima di morire Bove consegnò,
per le vie non ufficiali e non ortodosse, su richiesta della Digos, i nomi degli intestatari di quattro utenze telefoniche Tim. La
procura di Milano stava indagando su quella parte dei servizi segreti coinvolta nel rapimento dell’imam Abu Omar. E grazie a
Bove ottenne ciò che le serviva.
Ma il punto, in questo caso, è che i metodi investigativi di polizia e Procura avvaloranoduetesi espresse da Tavaroli: c’era una
guerra tra servizi, visto che le richieste della Digos scavalcarono Tavarolie anzi furono fatte in gran segreto per questo preciso
motivo, e infine le indagini passavano per gli uffici della Telecom attraverso strade non ufficiali. L’autobiografia di Tavaroli ci
racconta un’altra verità. L’ex carabiniere tende a confondere i piani: il suo e quello dell’azienda in cui lavora. È di tutta
evidenza che i problemi più importanti che Tronchetti ha avuto con la politica nonsono dipesi dai suoi rapporti con «la famiglia
impenetrabile» di Berlusconi – ieri l’avvocato del premier, Niccolò Ghedini, hadefinito questo passaggio dell’intervista
«destituito di ogni fondamento e palesementediffamatorio », annunciando querela – ma semmai con la famiglia di governo che
lo ha sostituito. È stato il governo Prodi a porre con forza la questione della separazione della rete Telecom, è stato un decreto
del ministro Bersani, sempre sulla rete, a spaventare gli americani dell’At&t in trattative con Pirelli, è stato lo stesso Prodi,
dalla Cina, a svelare i contenuti di una conversazione privata avuta sul futuro di Telecom con Tronchetti.
Infine è difficile pensare che l’operazione Porcu (la signora Laura che, dice Tavaroli, lo ha introdotto al mitico network Cossiga-
Pollari- Bisignani-Corigliano-Scaroni) sia stata anche lontanamente pensata, utile, immaginata o fatta per conto di Tronchetti.
E allora non si capisce proprio il titolo da cui siamo partiti, con Tronchetti che avrebbe detto, congedando Tavaroli, «le
abbiamo chiesto troppo». Forse lo vedremo nelle prossime puntate.
La giustizia sommaria del tribunale di carta
di Stefano Zurlo
Il sistema è sempre lo stesso: una frase più pesante di un catenaccio, chiusa a doppia mandata dalle virgolette. Di chi? Non
importa: possono essere di un Pm, di un giudice, di un teste, o più semplicemente dell’articolista che ha operato una sintesi di
qualche documento. A la
Repubblica hanno una lunga consuetudine con le virgolette: da Vittorio Emanuele a Marco TronchettiProvera e Ottaviano Del Turco il quotidiano romano ha emesso a tempo record sentenze di colpevolezza che il tempo ha
ridimensionato o fatto franare. Non importa: con un paio di virgolette, equivalente su carta delle manette, si dà il timbro di
una presunta ufficialità alle accuse di turno e si confeziona il verdetto. Inappellabile.
Ricordate il principe Vittorio Emanuele? In fondo è successo tutto due anni fa, nel giugno 2006, e il Savoia, con le sue frasi
antipatiche e sgradevoli intercettate a pezzi e bocconi dai Pm di Potenza, ci ha messo del suo per mettersi nei guai, ma
Repubblica seppellisce definitivamente quel che resta della regalità sotto un titolo mitragliato in due righe: Quei soldi in busta
per il principe, «Un’abitudine per lui delinquere». Un’espressione che, collocata con quel rilievo e quella nettezza, vale da sola
un primo grado, un appello e pure la Cassazione. Che altro aggiungere? In verità la tumultuosa inchiesta di Potenza è appena
emersa, ma articoli, commenti e grafici spazzano via i dubbi. Il 20 giugno, smarrita non solo la corona ma anche la dignità
minima, Vittorio Emanuele sembra inchiodato definitivamente. Il titolo di apertura è: Savoia, prime confessioni. Sotto, la foto
dell’inquisito. E fra virgolette un’altra condanna: «Pagai al principe 60 mila euro».
Il giorno dopo, il principe occupa pagine e pagine. È l’album di un uomo immerso nel fango: Vittorio Emanuele sotto torchio:
collaborerò. E poi, all’interno, quella che sembra un’ammissione disperata, naturalmente incorniciata dalle solite virgolette:
«Non ero il capo di quella banda». Insomma, il Savoia poteva giocare a fare il re a casa sua, poi si muoveva per gli affari
dentro il perimetro di una piramide criminale.
Sappiamo com’è andata a finire. Il filone comasco sulla prostituzione, forse il più odioso e degradante, è andato in archivio;
quello romano sulla corruzione per i videopoker ha imboccato la stessa strada e ora toccherà al gip decidere; a Potenza invece
va avanti l’indagine sull’associazione a delinquere, che però è un po’ una scatola vuota, e su alcuni episodi satellite. Possibile?
E quei verdetti di carta esibiti accanto alle sue foto e a quei suoi balbettii infelici? Quelli restano. Come le virgolette che
protocollano giudizi devastanti: «Il principe puntava a beni mafiosi».
La camera di consiglio può essere lunga 30, 60, 80 righe. Salvo Sottile, portavoce di Gianfranco Fini, va ai domiciliari per una
storia di concussione sessuale. Uno di quei temi che vanno padroneggiati con assoluto rigore, perché accendono micce
incontrollabili nell’opinione pubblica e alimentano i forconi dell’indignazione popolare. Tornare indietro in caso di errore a
queste latitudini, è impresa difficilissima. Repubblica però va avanti a testa bassa. Sforna una pagina divisa in due. In alto,
sotto il solito titolo lucchettato da virgolette: «Sesso anche a Palazzo Chigi», c’è la cronaca del presunto naufragio di Sottile.
Sotto, un dotto commento analizza «il capogiro da sottogoverno degli ex camerati». Questo il 19 giugno 2006; il 22 giugno un
altro titolo-ruspa rimuove, o così sembra, l’ultima trincea difensiva: Sottile respinge le accuse ma la Gregoraci lo smentisce. A
corredo, ecco il sommario: La showgirl in lacrime: «Ho ceduto, ma consenziente». L’indomani, in verità, la showgirl ribalta: La
Gregoraci accusa Woodcock. «Ho subito le sue pressioni». E questa volta le virgolette servono per puntellare la versione
difensiva e non per crocifiggere l’indagato di turno. Ma il verbale che occupa la parte inferiore della pagina ristabilisce la verità
presunta: Sottile è colpevole. Il finale, ancora una volta, dovrebbe interrogare chi fabbrica in 24 ore la colpevolezza e la
marchia con una titolazione così aggressiva: la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’accusa, il gip sigilla con un
provvedimento che azzera lo scandalo.
Qualcosa del genere è accaduto per Marco Tronchetti Provera: le sue foto, accanto al nome di Tavaroli e a lunghe dissertazioni
sugli 007 di Telecom, ne hanno fatto un indagato di complemento. Finché l’indagine è finita e lui è rimasto un testimone.
Pazienza. Quando i processi si chiudono senza rispettare le aspettative del quotidiano, allora la Repubblica costruisce un altro
verdetto. È capitato in questi giorni con le violenze per il G8 di Genova. Giuseppe D’Avanzo, editorialista di punta della
corazzata romana, attacca i giudici in una lunga analisi. Chi se l’è persa la trova sintetizzata nel titolo di prima pagina: I giudici
ciechi di Bolzaneto. Le sentenze, quando sono scomode, non si rispettano.
Stefano Zurlo
SORPRESA! ANZICHÉ TRONCHETTI, SBUCA LA “MERCHANT BANK” DI D'ALEMA
“I SOLDI DI COLANINNO NELLA PANCIA DI TRECENTO SOCIETÀ IN GIRO PER L'EUROPA POI FINITI A LONDRA NEL CONTO
OAK FUND: DOVE AVEVANO LA FIRMA FASSINO E NICOLA ROSSI”
Giuseppe D’Avanzo per La Repubblica
Giuliano Tavaroli dice: "Quando Pirelli acquisisce Telecom Italia, agosto 2001, Marco Tronchetti Provera mi annuncia: "Lei
verrà con me a Roma". Poi mi chiama Carlo Buora. Lo incontro a Milano in trasferimento dalla montagna al mare - ero in
vacanza con i miei - e quello mi dice che non se ne fa più nulla.
Enrico Bondi
Mi spiega: "Contrordine, lei resterà in Pirelli, Enrico Bondi (all'epoca, amministratore delegato) vuole con sé in Telecom un
altro. Naturalmente ne parlo con Tronchetti Provera che mi rassicura: "Lei si occuperà delle mie cose romane". Le sue "cose
romane" erano i suoi guai romani. E c'erano guai dappertutto, in quel momento".
"Gasparri (il ministro delle Telecomunicazioni) non gli piaceva e Tronchetti non piaceva a Gasparri. In estate, al festival
dell'Unità di Rimini, Massimo D'Alema lo attacca a testa bassa...
Ho già detto che una concezione moderna della sicurezza (che è reputazione, soprattutto) deve fronteggiare anche - o
soprattutto - quella roba lì, gli attacchi politici, le ostilità di parte, i pregiudizi, i veleni. Deve saper leggere e anticipare le
iniziative avverse, condizionare le mosse dei rivali o ridurli al silenzio. E' un lavoro che si nutre di conoscenza.
Conoscenza dell'avversario, delle sue ragioni più autentiche e nascoste, ma è anche "sapere" e dunque capacità di adattarsi a
quella "emergenza" o sventandola o ridimensionandola. In gergo, le chiamiamo "analisi del rischio" e "analisi di scenario". In
quell'avvio di gestione della Telecom, ne avevamo bisogno come dell'aria. Il momento intorno a noi era sconfortante. Non c'era
stato soltanto l'11 settembre, c'erano ancora le macerie dello sgonfiamento della bolla speculativa, la catastrofe dei bond
argentini".
(Tavaroli qui svela - e nemmeno troppo velatamente - il lavoro di spionaggio a cui, sostiene, "nessuna azienda rinuncia". Lo
riduce a raccolta di informazioni, a "mappatura" - diciamo così - dei caratteri, delle opinioni, delle forze e delle debolezze dei
potenti, vecchi e nuovi, che, di volta in volta, Tronchetti deve fronteggiare, rassicurare, tenere alla larga.
La "conoscenza", come la definisce, è soltanto il punto di partenza del suo lavoro. Per questi giocatori, per questo gioco, è la
mossa d'apertura, il livello minimo richiesto per poter entrare in campo. La differenza vera la fa il "sapere", la combinazione di
competenze multiple che rende possibili scambi, pratiche, compatibili assunzioni di rischi, la creazione di qualche minacciosa
favola da diffondere.
Tavaroli adopera un altro vocabolario, un'altra sintassi. Parla di "analisi delle forze in campo", di "amici/nemici" ma, in soldoni,
non è che l'esito sia diverso. Sempre di spionaggio si parla. La scena pare questa. Marco Tronchetti Provera, arrivato in
Telecom, è consapevole di essere uno "straniero" nella geografia del potere.
Le leve del comando - i primi governi Berlusconi hanno un peso politico debole, frammentato, privi di una strategia di lungo
periodo, stretti intorno a un uomo solo interessato esclusivamente al proprio destino personale e imprenditoriale - sono
custodite e sostenute da uno schema "antico" che Tavaroli, come ambasciatore di Tronchetti, ha incontrato nel giro delle sette
chiese romane.
"Un network eversivo", lo definisce. Ne indica qualche nome: Letta, Bisignani, Cossiga, Scaroni, Elia Valori, Pollari, Speciale,
Corigliano. E' un'area di potere che costringe un estraneo come Tronchetti in un disequilibrio informativo che lo condanna a
subire, sopportare; a essere condizionato. Essere consapevoli di quell'asimmetricità è il punto di partenza.
Sapere è allora il terreno della risposta. Come affrontare l'avversario? Come rendergli conveniente venire a patti o rinunciare a
ogni ostilità? Come guadagnare un margine di inviolabilità? E' un confronto sotterraneo e senza esclusione di colpi. A sentire
Tavaroli - che va ripetuto non è un testimone neutro, ma il principale indagato dell'affaire - è questo il mestiere che Marco
Tronchetti Provera gli affida).
"Di volta in volta bisogna adattare le proprie iniziative all'avversario. D'Alema, per esempio. Penso di contattare Lucia
Annunziata, allora direttore dell'agenzia Apcom. Ha buoni rapporti con D'Alema. Scelgo lei come canale per entrare in contatto
con il presidente dei Ds. Con Lucia si parla anche di futuro. Lei mi prospetta l'acquisizione dell'agenzia, me ne mostra i
vantaggi e le opportunità. Non era una cattiva idea, in fondo. Non avevamo in pancia contenuti e ne avevamo bisogno.
Peraltro, saremmo entrati in contatto con il mondo Associated Press, il meglio. L'affare poi si fece, come si sa. Comunque,
l'incontro D'Alema/Tronchetti si organizzò e Lucia divenne consulente della Telecom.
Racconto un altro episodio dello stesso tipo. Un giorno mi chiama Buora. Nel suo ufficio ci sono tutti quelli che contano e
sembrano sull'orlo di una crisi di nervi. Buora mi dice che Giulio Tremonti (ministro dell'Economia), soffia ai banchieri, in ogni
occasione, che Telecom è prossima al fallimento. La voce diffusa in ambienti qualificati da una fonte così autorevole è per noi
una sciagura. Mi metto al lavoro.
Tra Tremonti e Tronchetti non ci sono rapporti. Ho come la sensazione che Tremonti, da sempre consulente dei maggiori
imprenditori italiani, diventato ministro, stia scaricando sui suoi antichi assistiti una ruggine velenosa. Decido di mettermi in
contatto con il capo della sua segreteria, un ufficiale della Guardia di Finanza, Marco Milanese, che poi lascerà le Fiamme Gialle
per lavorare direttamente nello studio di Tremonti.
Contattare Milanese, proprio lui e non altri, è un modo per dire a Tremonti: conosco i tuoi metodi, conosco il tuo sistema, chi
lo agisce e interpreta, da dove possono venirti le informazioni - vere o false - che possono danneggiare la mia azienda. Non c'è
bisogno di molte parole. Quelle cose lì, si capiscono al volo nel nostro mondo. I due - Tronchetti e Tremonti - si incontrano. I
problemi si risolvono. Nessuno parlerà più di fallimento con i banchieri.
Altro episodio. Il Dottore (Tronchetti) mi chiede di dare uno sguardo a Finsiel, allora amministrata da suo cugino Nino
Tronchetti Provera. Perché non si vince una gara, perché si perde sempre? Gli appronto una rete di relazioni e qualche
"analisi".
Ancora. La Kroll, la maggiore agenzia d'investigazione del mondo, riceve da Gianni Letta (sottosegretario alla presidenza del
Consiglio) l'incarico di rintracciare il tesoro segreto di Calisto Tanzi (Parmalat). Nell'autunno del 2004, l'uomo in Italia della
Kroll, un belga d'origine italiana che si chiama Nunzio Rizzi, incontra Gianni Letta e gli chiede "se il governo ha nulla in
contrario che l'agenzia organizzi un'azione di discredito contro Marco Tronchetti Provera".
Sorprendentemente, invece di metterlo alla porta, Letta (ha anche la delega ai servizi segreti) prende tempo: "Le farò
sapere!". Letta avverte Tronchetti. Che, allarmatissimo, mi spedisce a Roma in tutta fretta. E' il mio primo incontro con Gianni
Letta. Mi tiene lì per quaranta minuti. Beviamo un caffè. Mi dice: noi abbiamo un amico in comune, "il nostro Marco" (Mancini).
Letta mi spiega le intenzioni di Rizzi. Organizzo una contro-operazione di discredito ai danni della Kroll.
Il 6 novembre 2004, faccio pubblicare che c'è "un mandato d'arresto per l'uomo della Kroll, Nunzio Rizzi". La notizia è del tutto
falsa, ma alla Kroll capiscono che gli è andata male. E noi, in Telecom, capiamo il senso di quella storia: hanno mandato a dire
a Tronchetti che non si fidano di lui, che la sua reputazione può essere sporcata se gli ambienti politici non fanno barriera e
quindi è meglio andare d'accordo".
(Tavaroli chiarisce che dal suo orizzonte di lavoro - e intende la rete di rapporti e liaison che possono rendere trasparenti o
protette le intenzioni di Tronchetti - nessuno è escluso. Nemmeno la magistratura).
"Era più o meno il settembre del 2001. Mi chiama Armando Spataro, allora membro del Consiglio superiore della magistratura.
Mi dice: "Il tuo capo ha risolto i problemi di Berlusconi". Era accaduto che Pirelli Real Estate avesse rilevato Edilnord di
Berlusconi che navigava in cattive acque. Per Pirelli era un affare, per Spataro un favore. Nel 2003 Armando ritorna a Milano
come procuratore aggiunto. Ho l'idea di farlo incontrare con Tronchetti. Organizzo il meeting.
Ma, quel giorno, commetto un errore grave. Invece di andare via, come facevo sempre, rimango nella stanza e sono testimone
della loro conversazione. Che non va per nulla bene. Quasi al termine, Tronchetti chiarisce che magistratura e politica devono
reciprocamente rispettarsi e che il lavoro dei giudici non può pregiudicare le responsabilità della politica. E' più o meno una
banalità, ma detta in quel momento suonò alle orecchie di Armando come una difesa pregiudiziale di Berlusconi e una censura
per le iniziative della magistratura. Spataro ne ricava la convinzione di avere di fronte un uomo piegato agli interessi di
Berlusconi. Nessuno gli ha tolto più quell'idea dalla testa.
Questo era il mio lavoro: creare una rete di protezione personale intorno a Tronchetti e di sicurezza per l'azienda, rimuovere le
inimicizie preconcette, le ostilità, il malanimo, le presunte incompatibilità. Non è sempre affare per deboli di stomaco. Ecco che
cosa intendo quando dico che il perimetro della security si era di molto allargato. Ecco che cosa intendeva Marco Tronchetti
Provera quando mi diceva: "Le abbiamo chiesto troppo".
Se avevo bisogno di informazioni sugli antagonisti mi rivolgevo a Emanuele Cipriani (investigatore privato della Polis d'Istinto).
Che me le procurava. Sono pronto ad ammettere che ci sono state - ma questi sono affari di Cipriani - indagini illegali.
Ammetto che bisognerà spiegare le intrusioni informatiche ai danni di Massimo Mucchetti e Vittorio Colao (vicedirettore del
Corriere e amministratore delegato di Rcs). Ma non ci sono state intercettazioni abusive né ricatti. Nell'indagine della procura
di Milano, non ce n'è traccia. Il mio lavoro non si è mai arricchito di quella roba lì.
Le cose andavano così. Fino a quando sono stato in Pirelli, sono stato più o meno un "centro di servizi". Tronchetti Provera, da
Telecom, aveva bisogno di informazioni. Mi chiamava e io provvedevo a raccoglierle. Nessuno si dovrebbe meravigliare. Le
aziende vivono di informazioni fino alla raffinatezza delle "analisi predittive". E non esitano a sporcarsi le mani. Un esempio?
Per quel che so, l'"Operazione Quattro Gatti", lo sganciamento di Mastella dal centro-destra organizzato nel 1998 da Cossiga,
fu finanziato per intero dai gestori della telefonia: Sentinelli (Tim), Novari (3), Pompei (Wind), con il sostegno della Ericsson.
Quando arrivo in Telecom, il lavoro cambia. Agisco "di iniziativa" sulle analisi tipiche della sicurezza. Attenzione, però, il
"sistema Tavaroli" non era e non è mai stato il "sistema Cipriani"".
(Tavaroli non ammette che l'uno integrava l'altro, che l'uno sosteneva l'altro e mai parla del ruolo di Marco Mancini, il capo del
controspionaggio. Lo ripetiamo ancora: questa è soltanto la verità di un indagato).
"E' a questo punto che arrivano i primi segnali dal "network eversivo". Si fanno sotto quelli che io chiamo "i massoni".
Cominciano a scorgere, avvertendole come una minaccia, tutte le potenzialità di quel lavoro, della mia presenza a Telecom, del
mio legame con Marco Mancini in ascesa nel Sismi, delle opportunità di integrazione in un unico "nastro" delle informazioni in
possesso per motivi istituzionali di una grande azienda di telecomunicazioni e di un servizio segreto.
Lo avevate capito anche voi a Repubblica, ma immaginavate che Telecom fosse il centro del "sistema" e non solo un
segmento, il più fragile. Arriva il primo segnale e non faccio fatica a "leggerlo". Le manovre compromettenti (è sospettato di
essere coinvolto in un traffico d'armi) di Slaedine Jnifen, fratello di Afef (la moglie di Tronchetti) con uno dei figli di Gheddafi
mi sono segnalate prima da Nicolò Pollari. Mi dice: i servizi libici minacciano di ucciderlo. Poi da Luigi Bisignani che aveva avuto
l'informazione dalla Guardia di Finanza. Capii la musica. Anche Afef parve a rischio".
(Tavaroli non dice né vuole dire se il dossier raccolto anche sulla moglie di Tronchetti sia stato una sua personale iniziativa o
un'operazione commissionata da altri o addirittura concordata con il presidente della Telecom).
"E' un fatto che Afef si porta dietro tutte le amicizie romane del primo marito, Marco Squatriti (Andreotti, Bisignani, Letta).
Ricordo che, quando Squatriti finisce in carcere, il primo che gli va a fare visita, come avvocato anche se non era il suo
avvocato, è Cesare Previti. L'uomo deve essere finito al centro di una faccenda molto seria. Perché nessuno s'incuriosisce al
finale della storia di Italsanità (era la società dell'Iri che aveva affittato dai privati 28 immobili da destinare a residenze per
anziani, impegnandosi a pagare affitti per 1.000 miliardi in nove anni, di cui 572 a Squatriti, titolare degli 11 contratti più
consistenti)?
Sono stati rimborsati a Squatriti un centinaio di miliardi di lire. Oggi Squatriti non ha più un soldo. Dove sono finiti i denari? E,
soprattutto, di chi erano? Forse per tenersi buono questo giro, il Dottore ingaggia Maurizio Costanzo (P2, tessera Roma 152),
tutt'uno con Previti, Squatriti, Gianfranco Rossi (il faccendiere romano, arrestato nel giugno 1994, è l'intestatario del conto
corrente "coperto" FF 2927 presso la Trade Development Bank di Ginevra, conto sul quale sono affluiti 2 milioni e 200 mila
dollari fornitigli da Bisignani e parte della maxitangente pagata dall'Enimont ai partiti di governo), Luigi Bisignani (P2, tessera
Roma 203).
Costanzo e Tronchetti
© Foto U.Pizzi
Tronchetti retribuisce Costanzo con 3 milioni di euro all'anno soltanto, in definitiva, per costruire l'immagine di Afef. Ma, in
realtà, Tronchetti vuole tenerlo buono e, nel contempo, alla larga. Costanzo non aveva nemmeno il numero diretto del suo
cellulare. Si ripetono i segnali negativi.
Salvatore Cirafici, capo della sicurezza di Wind, un massone, mi racconta che è stato interpellato da un giornalista del Giornale
che sta preparando un articolo contro di me, ispirato da Luigi Bisignani. Che ci fossero fibrillazioni in corso, lo deduco anche da
altri episodi. Poco dopo il Natale del 2002, diciamo nel gennaio del 2003, Berlusconi convoca Pollari a Palazzo Chigi e gli chiede
a brutto muso: "Chi è questo Tavaroli?", "E' vero che Mancini è un comunista"? Pollari replica, difende Mancini e comunica che
sta per nominarlo capo della 1° Divisione. Berlusconi abbozza. Non poteva dire di no a Pollari. Come non glielo ha potuto dire
poi, con il governo successivo, Romano Prodi, che ha sempre difeso il direttore del Sismi.
La faccio breve, nel 2004 fonti della Guardia di Finanza fanno sapere in Telecom che "Tavaroli, da punto di forza, è diventato
un punto di debolezza". A maggio mi convoca Tronchetti e, alla presenza di Buora, mi consiglia di accettare una aspettativa di
tre mesi per far calare il polverone su di me e la società. Accetto, non ho alternative. Per tre mesi, il telefono si fa muto. Non
mi chiama più nessuno, se si esclude Adamo Bove (il dirigente della security governance della Telecom precipitato il 21 luglio
2006 da un cavalcavia della tangenziale di Napoli: suicidio o istigazione al suicidio?). Vado in Romania. Mi richiamano in Italia
dopo l'attentato al Tube di Londra del 7 luglio 2005. Tronchetti chiede a Letta se può darmi una consulenza antiterrorismo.
Letta si dice d'accordo "nell'interesse del Paese". A fine anno, il Dottore mi dice: devi rientrare.
Nel gennaio 2006, quando sono pronto a rientrare, Cipriani si fa abbindolare dai carabinieri di Firenze che non hanno mai
smesso di blandirlo: "Vuota il sacco e le tue responsabilità saranno ridotte al minimo...".
Quello ci casca e trovano il dvd con i file illegali, peraltro già in possesso di Emilio Ricci, avvocato, romano, comunista, amico
mio, di Pollari, di D'Alema. Cipriani consegna la password ai pm. In tempo reale la notizia arriva a Tronchetti - penso
attraverso l'avvocato Mucciarelli. Il Dottore mi convoca. Mi dice: hanno il dvd; l'hanno aperto; lei non può più tornare in
azienda. Io mi mostro preoccupato.
Gli dico: su quel dvd ci sono i file di Brancher, e di Cesa, e la faccenda di D'Alema e dell'Oak Fund. Inizialmente, Tronchetti
finge di non ricordare. "D'Alema? - dice - e che c'entra, io non so nulla...". Poi, qualche giorno dopo, gli torna la memoria e
ammetterà che era stato lui a commissionarmi quel lavoro per verificare se, nell'acquisizione di Colaninno, fossero state
pagate tangenti. Qualche mese dopo, in maggio, Tronchetti alla presenza del solito Buora mi chiede le dimissioni.
Fu un lavoraccio, l'inchiesta "Oak Fund". Per quel che poi ha scritto Cipriani nel dossier chiamato "Baffino", ora nelle mani della
procura di Milano, i soldi hanno viaggiato nella pancia di trecento società in giro per l'Europa per poi approdare a Londra nel
conto dell'Oak Fund, a cui erano interessati i fratelli Magnoni (Giorgio, Aldo e Ruggiero, vicepresidente della Lehman Brothers
Europe) e dove avevano la firma Nicola Rossi e Piero Fassino.
Queste cose le ho dette anche ai pm che mi hanno interrogato. Loro mi dicevano: non scriviamo i nomi nel verbale, diciamo
"esponenti politici...".
Formalmente perché è necessario attendere la sentenza della Corte Costituzionale per sapere se quei dossier raccolti
illegalmente sono utilizzabili nel giudizio. Ma, dico io, se mi prendi a verbale non hai più bisogno della Corte Costituzionale, hai
il mio verbale che contiene la notizia di reato. E allora?
Sono assolutamente convinto che Tronchetti sapesse in tempo reale quali fossero le intenzioni e le mosse della procura. Credo
che egli abbia lasciato esplodere il "caso Rovati" al solo scopo di anticipare il governo e trovare una dignitosa e sdegnata via
d'uscita. Con quel che sarebbe successo di lì a un paio di mesi, il governo avrebbe potuto dirgli: non hai l'autorità né la
credibilità per governare le reti.
Ora Tronchetti Provera lascia dire e scrivere che sono stati Romano Prodi, Giovanni Bazoli e Guido Rossi a sottrargli la Telecom
senza dire una parola su quel network di potere, eversivo che io, nel suo interesse e su sua richiesta, ho fronteggiato e da cui
sono stato distrutto; quell'area di potere che decide le nomine che contano, che in apparenza non chiede e, invece, ordina con
messaggi traversi che è bene cogliere al volo per non dare l'idea che la si stia sfidando.
Genio dell'opportunismo qual è, Tronchetti vuole ritornare sulla scena forte della liquidità incassata in uscita dalla Telecom,
candido e senza un'ombra. Solo io dovrei pagarne il prezzo, ma gli è capitato il peggiore cliente possibile. Non ho nulla da
perdere. Mi hanno già tolto tutto. Devo soltanto dimostrare ai miei cinque figli che il loro papà non è il mascalzone che
raccontano, che il loro papà ha concesso soltanto fiducia a chi non la meritava. Per questo ripeto: non accetterò mai di essere
il capro espiatorio di questo affare".
Uno scempio che costa tanto e produce poco
di Franco Battaglia
Il parco eolico marino nel golfo di Gela, in Sicilia, è destinato a essere uno dei primi del Mediterraneo. Ma non tutti condividono
la scelta
Sebbene il costo dell'energia salga, all'Enel non sanno fare niente di meglio che proporre progetti per parchi eolici.
Naturalmente non gli viene in mente che se il costo dell'energia sale è proprio perché insistono a installare parchi eolici (e
fotovoltaici). L'Enel è in buona compagnia: le Ferrovie dello Stato, ad esempio, si vantano di installare pannelli FV sui treni. Li
chiamano treni fotovoltaici, e poco importa se gli scompartimenti sono nidiate di cimici. Pare che non abbiano denaro per
rinnovare le tappezzerie che, indifferentemente dalla classe, sono maleodoranti per lo sporco accumulato in non si sa quanti
anni. Per forza che gli manca il denaro: i pannelli FV sono oggetti che andrebbero venduti in gioielleria e, come i gioielli, non
hanno alcuna funzione.
Ma torniamo all'Enel e ai suoi parchi eolici. Ne vogliono installare uno al largo della mia Sicilia. Sarebbe, dicono, il primo parco
eolico italiano, con 115 torri, alte ciascuna 100 m e con pale di altrettanto diametro, conficcate a 30mdi profondità nel
sottosuolo del fondale marino di fronte al bel golfo di Gela: Attila non avrebbe saputo far meglio. Eppure, l'amministratore
delegato dell'Enel se ne vanta: «Questo progetto rappresenta un esempio virtuoso di collaborazione tra impresa, istituzioni
locali e associazioni amiche dell'ambiente», ha sentenziato.
Virtuoso? Mah, è vero che io non sono esperto di virtù, ma nel caso specifico non capisco che c'entri. Associazioni «amiche»
dell'ambiente? Ci farebbe piacere conoscerne i nomi: dai nemici mi guardi Iddio che dagli amici mi guardo io. «Collaborazione
» tra impresa e istituzioni locali? A questo proposito il
Der Spiegel tedesco definì l'eolico «la meglio sovvenzionata distruzionedell'ambiente». Chissà se all' Enel lo sanno, visto che dichiarano di «credere nell'eolico». E atto di fede deve essere, perché se
esercitassero la ragione mai si sarebbero imbarcati in tale progetto. O forse poco gl'importa, visto che, alla fine, paghiamo noi
utenti. Il progetto costa mezzo miliardo e fornirà energia elettrica «sufficiente a soddisfare il fabbisogno di 390mila famiglie».
Mi chiedo quand'è che la smetteranno - anche all'Enel - di usare la «famiglia» come unità d'energia.
La verità è che quelle 115 torri (fatemelo ripetere: 115) erogheranno meno di un decimo dell' energia che erogherebbe un solo
reattore nucleare, costando però solo 4 volte di meno di questo. Edopo che sono state installate, potranno i siciliani evitarsi un
impianto nucleare, a carbone o a turbo gas? Purtroppo, no: sapete com'è, quando il vento non soffia... Il dottor Conti si vanta
che la produzione Enel è al 30% senza emissioni. Non dice però che l'eolico in Italia incide per meno dell'1% (e il FV per meno
dello 0.0001%): quel 30% di Enel, immagino, è tutto idroelettrico. Di cosa avremmo bisogno, allora, per raddrizzare questo
nostro povero sistema elettrico nazionale? Nell'immediato, dovremmo aumentare le installazioni di impianti a carbone, e di
nuovi elettrodotti in modo da aumentare le importazioni di energia elettrica dalla Francia.
Magari cercando di frenare le speculazioni che, anche su queste importazioni, si stanno perpetrando ai nostri danni: oggi,
rispetto a quelli di produzione, i costi all'ingrosso dell'energia elettrica alla Borsa di Parigi sono quadrupli, con immaginabili
danni per il nostro Paese (ma questa è un'altra storia, da affrontare un'altra volta). Infine, inutile ripeterlo, bisognerebbe
accelerare al massimo l'avvio del nucleare in casa. Ma è necessario, soprattutto - e questo va al primo posto - interrompere
ogni sperpero di denaro pubblico su eolico e fotovoltaico.