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Anche il distacco dalle care abitudini è un'occasione per la propria crescita spirituale

di Francesco Lamendola - 24/07/2008

La finestra è aperta sull'estate e la tenda ondeggia lieve nella luce del mattino.

La casa è divenuta all'improvviso silenziosa, come in attesa di qualcosa. Sul pavimento, la valigia chiusa reca una nota di provvisorietà e di destino.

Tra poco, abbassate le persiane, la porta verrà chiusa dall'esterno. E fra le vuote stanze regnerà,  incontrastata, la quiete.

 

La partenza è un distacco, e ogni distacco è una piccola avventura.

Si lasciano le care abitudini, i volti, gli oggetti - volti e oggetti che sono divenuti parte delle nostre care abitudini, di cui ci rincresce dover fare a meno.

È incredibile come facciamo presto ad attaccarci alle cose, ad abituarci alla loro presenza rassicurante. Come permettiamo facilmente, naturalmente che entrino a far parte di noi, della nostra vita.

Non che sia un male in se stesso, abituarsi alle abitudini.

Bisognerebbe però vedere quanto vi è di nostro, di autentico in questo abituarsi; e quanto di pigro e di fasullo.

Non c'è niente di sbagliato nel fatto di abituarsi alle cose buone, se con tale espressione intendiamo una dolce familiarità, fatta di tacite, profonde intese.

Il problema sorge quando ce ne dobbiamo distaccare.

Per questo partire significa distaccarsi, e distaccarsi significa affrontare l'ignoto.

 

Non è detto che si tratti di una partenza fisica.

Potrebbe anche essere una partenza interiore, un distacco all'interno della nostra anima. Del resto, i viaggi più avventurosi sono quelli che avvengono dentro di noi.

Per questo c'è molto di Ulisse in ognuno di noi: ci sono l'odore del salmastro e lo stridio dei gabbiani e la brezza del largo.

Umberto Saba ha espresso splendidamente questo concetto nella poesia Ulisse.

 

Nella mia giovanezza ho navigato

lungo le coste dalmate. Isolotti

a fior d'onda emergevano, ove raro

un uccello sostava intento a prede,

coperti d'alghe, scivolosi, al sole

belli come smeraldi. Quando l'alta

marea e la notte li annullava, vele

sottovento sbandavano più al largo,

per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno

è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi; me al largo

sospinge ancora il non domato spirito,

e della vita il doloroso amore.

 

Ci sono molti modi di partire.

Si può partire per una vacanza; partire per un nuovo lavoro; partire per un ricovero in ospedale: per piacere, quindi, o per dovere, o per una malattia.

In ogni modo, l'idea della partenza ci mette sempre un po' in crisi. Forse perché significa, appunto, un distacco dalle care abitudini di sempre; forse perché, oscuramente, ci ricorda quell'altra partenza, la partenza grande verso lidi ignoti: l'ultima e definitiva.

E se la vita, per il saggio, è una lenta, graduale preparazione alla morte, così la partenza - per piccola che sia - è una allegoria della partenza suprema, dalla quale nessuna vela ha mai fatto ritorno.

Certo, può esservi comunque una nota gaia nel fatto di partire; specialmente se pensiamo o se speriamo di andare verso una situazione migliore, verso una condizione di maggior pienezza e di più vasto respiro.

Una suggestiva canzone di Patty Pravo - non delle più belle, ma delle più interessanti - s'intitolava, qualcuno se la ricorderà, La valigia blu.

Descriveva il momento della partenza per un viaggio, ed esordiva con queste parole:

 

La valigia blu

non l'ho certo dimenticata,

la porto via con me…

 

Un ritmo brioso, orecchiabile, ma non banale; un tono di apparente leggerezza, venato di una sottile, malinconica poesia.

Ecco, abbiamo detto la parola: malinconica. Nelle partenze c'è sempre qualcosa di sommesso, un pudore malinconico che rifugge dalle parole in piena luce, troppo esplicite.

Ed è, invariabilmente,  una malinconia reciproca: in colui che parte, a causa delle cose che lascia; in colui (o in coloro) che restano, a causa dell'assenza di chi è partito.

Abbiamo già avuto occasione di dire che la nostra vita è legata, per mille fili, a quella degli altri, più di quanto non si crederebbe a prima vista (cfr. F. Lamendola, Spalancare ogni senso, ogni facoltà per cogliere l'infinita ricchezza dell'intera sinfonia, sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice). Ebbene: questa è una grande verità che ogni partenza, temporanea o definitiva, mette a nudo nel modo più esplicito.

Nessuno è così solo, che la sua partenza non venga notata da qualcuno, non eserciti un riflesso su altre persone. E nessuno è così indipendente da non risentire della partenza di qualcuno altro, da non avvertire la sua assenza.

Siamo legati gli uni agli altri, che ci piaccia o no: nel bene e nel male, nella speranza e nel timore, nella gioia e nella sofferenza.

Siamo legati alle persone, agli animali, alle piante, agli oggetti, ai paesaggi, ai cieli, ai giorni e alle notti. Anche se non lo crediamo e se saremmo portati a sorridere di superiorità all'idea di tutti questi legami, la verità è che noi non saremmo quello che siamo, senza di essi. Saremmo altro; o, forse, non saremmo affatto.

Esistere, è sempre esistere in una situazione, in un contesto, in un ambiente. Nessuno esiste per sé solo, anche se sceglie di andare a vivere su di un'isola deserta. Se non altro per l'esempio che dà, per il vuoto che lascia, per il silenzio che lo segue.

È la nostra croce e la nostra delizia. Noi crediamo di poter fare a meno degli altro, specialmente quando li prendiamo in odio. Ma anche quell'odio è un fiato che ci tiene vivi, è un filo che ci collega al mondo.

E, del resto, è fin troppo evidente che esso non è altro che il rovescio dell'amore: un amore deluso, amareggiato, respinto; ma un amore.

E questa è la seconda croce e la seconda delizia del nostro essere: quella di non poter fare a meno di amare.

Se non possiamo più amare, allora odiamo: ma non odieremmo se riuscissimo ad amare, se il nostro bisogno di amore trovasse corrispondenza e si placasse.

 

Anche questo concetto è stato espresso benissimo da uno scrittore, Graham Greene, in quello che è - a nostro avviso - uno dei più bei romanzi d'amore di tutta la letteratura del Novecento.

Siamo a Londra, negli ultimi anni della seconda guerra mondiale. Il protagonista, lo scrittore Maurice Bendrix, riesce a riallacciare una relazione con la sua vecchia amante, Sara Miles, moglie del suo amico Henry, un funzionario del Ministero della Sicurezza nazionale.. Ma un giorno le V2 tedesche bombardano la casa di lui, seppellendolo sotto le macerie. Sara, già malata di tubercolosi, fa un voto a Dio: lo lascerà, per amore, se uscirà vivo da sotto i detriti; e, con suo enorme sbalordimento, il miracolo si compie.

Da quel momento, pur continuando ad amarlo, Sara lo sfugge e cerca conforto nella religione, fino a convertirsi al cattolicesimo. Maurice, che non capisce e che crede che lei abbia un nuovo amante, quasi impazzisce dalla gelosia, e muta il suo amore in un rancore profondo contro di lei; ma, in realtà, soprattutto contro se stesso.

Quando Sara, la cui malattia ha cercato di nascondere ed è stata sottovalutata da tutti, muore, Maurice, che si sente un uomo finito, accetta la proposta di Henry, l'ignaro marito tradito, e si trasferisce nella loro casa. E lì, leggendo le pagine del diario di Sara, finalmente comprende. Non solo: intuisce che la fede di Sara era stata così profonda che, forse, aveva ottenuto realmente la grazia del miracolo: e non solo quel giorno, tra le macerie della casa bombardata, ma anche in altre circostanze meno appariscenti.

Il suo cuore è ancora gonfio di odio, questa volta rivolto contro Dio che gli ha «rubato» la donna disperatamente amata. M, alla fine di tutto quell'odio, forse - e sottolineiamo forse - anche Maurice   troverà la pace, riconciliandosi con Lui.

Sfogliando il diario di Sara, l'uomo trova una commovente annotazione in cui ella si rivolgeva a Dio e Gli diceva di essere troppo buono perché, quando Gli chiedeva dolore, Lui le dava la pace; e proseguiva chiedendo che anche Maurice potesse trovare la sua stessa pace. (Titolo originale: The End of the Affair, 1951; traduzione italiana di Pietro Jahier, Mondadori, Milano, 1953, 1970, pp. 253-255):

 

E pensai: qui hai sbagliato, Sara. Una almeno delle tue preghiere non è stata esaudita. Io non ho nessuna pace e non ho nessun amore salvo che per te, te. Le avevo detto: sono un uomo di odio. Ma non provavo un grande odio; avevo chiamato isterici altri; ma le mie proprie parole erano esagerate. Potevo discernere la loro insincerità. Ciò che sentivo maggiormente era meno odio che paura. Perché se questo Dio veramente esiste, pensavo, e se perfino tu - con la tua lussuria e i tuoi adulteri e le timide menzogne che eri solita dire - puoi cambiare in questo modo tutti potremmo diventare santi col fare il salto che hai fatto tu, col chiudere gli occhi e saltare una volta per sempre: se sei una santa tu, non è poi così difficile essere santi. È qualcosa che Egli può domandare a ciascuno di noi, saltare. Ma io non salterò. Mi sedetti sul letto e dissi a Dio:  Tu hai preso lei, ma me non mi hai preso ancora. Conosco le Tue astuzie. Sei Tu che mi conduci su un'altura e ci offri l'intero Universo. Sei Tu che sei Satana, Signore, tentandoci a saltare. Ma io non voglio la Tua pace e non voglio il Tuo amore. Volevo qualcosa di molto semplice e molto facile: volevo Sara per la vita e Tu me l'hai tolta. Coi Tuoi grandi progetti Tu rovini la nostra felicità, come la mietitura rovina la tana di un topo: io Ti odio, Dio, Ti odio come se Tu esistessi.(…)

Ho scritto, cominciando, che questo era un racconto di odio, e mentre camminavo lì accanto a Henry, verso il nostro bicchiere di birra serale, trovai l'unica preghiera che sembrava si addicesse all'atmosfera invernale: oh Dio, Tu hai fatto abbastanza, Tu mi hai derubato abbastanza; io sono troppo vecchio e stanco per imparare ad amare; lasciami in pace per sempre.

 

Quanto la vita degli altri può esercitare un influsso sulla nostra.

Il personaggio di Sara è straordinariamente vivo e moderno, nel senso migliore della parola: così fragile e incoerente, così combattuta fra l'amore per un uomo - che non è suo marito - e l'amore per Dio; eppure capace di una forza sovrumana, di uno straordinario coraggio che le consente di fare quel «salto» di cui parla Maurice, molto più tardi, leggendo il suo diario.

 

Ecco: anche la creatura più debole può realizzare un immenso progresso spirituale, stimolando gli altri a tentare di imitarla; o, comunque, interrogandoli a fondo con le sue scelte.

La condizione per realizzare un tale salto di qualità è, appunto, la disponibilità a levare le ancore dalle proprie certezze abitudinarie, e affrontare i venti dell'ignoto.

Nella partenza e nel distacco dalle più care abitudini, pertanto, ci si offre una grande opportunità di crescita spirituale, se noi sappiamo coglierla.

Può essere la nostra stessa partenza, oppure la partenza di una persona cara.

Nel caso di Maurice Bendrix, è stata la partenza di Sara. Una doppia partenza: perché Sara già non era più sua, prima ancora che la morte gliela togliesse per sempre.

Ma è proprio vero che Sara, dopo quella terribile esperienza sotto le bombe di Hitler, non era più sua? O non era piuttosto diventata ancora più sua di prima, di un amore più alto e più puro; di un amore così totale da mettere in gioco perfino se stessa, da sacrificare perfino i suoi ultimi giorni di vita terrena?

 

Mistero della partenza.

Per colui che resta sul molo a guardare la nave che rimpicciolisce e che scompare all'orizzonte, la partenza è una fine.

E lo è anche per colui che, imbarcatosi, indugia a fissare con struggente nostalgia la riva che sta lasciando, forse per sempre.

Ma per chi sa vedere oltre, quella fine potrebbe anche essere la promessa di un nuovo inizio.