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I frutti del capitalismo sono avvelenati

di Giorgio Ruffolo - 24/07/2008

Ricchi sempre più ricchi. Poveri sempre più poveri. Finanzieri sempre più immorali. Politici sempre più corrotti. I frutti del capitalismo sono avvelenati. E trionfa il modello Gomorra


A chi gli poneva il problema dei rapporti tra morale ed economia, l'allora premier britannico Harold MacMillan - si era negli anni '50 - rispose seccamente: questi problemi dovete porli all'arcivescovo. Una sentenza analoga l'ha emessa il guru dei paradisi fiscali, Adam Starchild, a proposito dell'interesse patriottico negli affari. "Home", ha detto, "is where money is" (la patria sta dove stanno i soldi). Del resto, non era stato il grande Cicerone a sentenziare: 'Ubi bene ibi patria'? Solo che, per Cicerone, il bene non si identificava con i soldi. Per Starchild, sì. Negli ultimi tempi questo atteggiamento 'cinico' di neutralità morale è stato contestato da una vivace letteratura intesa a pacificare i soldi con l'etica, in vista di un'autentica felicità. E questo rassicurante messaggio è stato promulgato non soltanto in libri saggi e articoli di grandi firme e di grande spessore, ma anche ribadito dalla fioritura di centinaia di corsi di formazione etica organizzati da grandi imprese. Particolarmente piccanti quelli promossi e organizzati dalla Enron, poi travolta dalle malversazioni dei suoi dirigenti. È un caso maligno che questa fioritura si sia verificata in una fase di esplosione della criminalità economica e finanziaria? Secondo me, non è un caso. La lingua batte dove il dente duole. E l'economia capitalistica soffre di un crescente mal di denti.

La sfilata, in questi giorni, di banchieri americani in manette difficilmente può essere presentata come un episodio eccezionale, dopo il tornado suscitato sette anni fa dai clamorosi scandali Enron-Wordlcom; e dopo le devastanti imprese dei grandi finanzieri d'assalto degli anni '80 (Milken, Boetsky, Siegel, Levine) descritti nel bestseller 'La tana dei ladri' da James Stewart. Ogni volta la cronaca dei misfatti è stata accompagnata dal compiacimento che fossero stati scoperti e puniti, e dall'assicurazione che non si sarebbero ripetuti e ovviamente dall'idea che si possa conciliare l'etica e l'impresa, con appositi corsi e un po' di beneficenza.

Di fatto, in tutto il mondo la criminalità economica e finanziaria ha assunto dimensioni impressionanti; e, soprattutto, strutture imponenti. Quanto alle dimensioni, è ovvio che non si disponga di dati, ma soltanto di stime di massima. È certo che, con la globalizzazione, lo spazio economico occupato dalle attività criminali si è straordinariamente esteso. Accanto ai settori della criminalità tradizionale (droga, armi, racket, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, contrabbando d'alcol, tabacco, medicinali) prosperano i mercati della nuova schiavitù, della pirateria informatica, del commercio dell'antiquariato illegale, di quello delle specie protette, degli organi umani, delle scorie tossiche, dei prodotti nucleari. Le stime oscillano tra i mille e i 1.500 miliardi di dollari, equivalenti al 2-3 per cento della produzione annua mondiale. Poiché la produzione mondiale progredisce all'incirca al ritmo del 3 per cento annuo, ciò significa che per larga parte la crescita è dissipata in attività criminose. Quanto alle strutture, il mercato della criminalità è caratterizzato dalla presenza di grandi reti imprenditoriali (la 'mafia imprenditrice' di Pino Arlacchi) più simili a strutture politiche che a imprese economiche. Nel 1994 il Dipartimento di Stato americano affermava che nel giro di tre anni i rappresentanti dei maggiori gruppi criminali mondiali (mafia siciliana e russa, Cosa nostra americana, triadi cinesi, narcos sudamericani) si erano riuniti a Varsavia nel 1991, a Praga nel 1992 e a Berlino nel 1993 per concordare una pianificazione strategica dello sviluppo e del riciclaggio. Insomma, al G8 si affianca un 'governo mondiale ombra' (il C8?) che, ci si può scommettere, surclassa il primo quanto a prontezza ed efficacia delle decisioni. Chiunque abbia letto 'Gomorra' di Roberto Saviano si è reso conto della complessità assunta dalle organizzazioni criminose. La fase 'eroica', si fa per dire, dell'intrallazzo è stata da tempo sostituita dalla 'grande organizzazione manageriale'.

Ma quali sono le cause di questa mutazione? Fondamentalmente due. E hanno a che fare non con la cattiva volontà, ma con la stessa struttura del capitalismo oggi. La prima è l'eccezionale concentrazione della ricchezza verificatasi nei paesi del capitalismo avanzato, e in specie negli Stati Uniti, negli ultimi 30-40 anni. La seconda è la liberalizzazione del movimento dei capitali. Quanto alla prima. In soli dieci anni, tra il 1979 e il 1989, la quota di ricchezza americana detenuta dall'1 per cento dei più abbienti è quasi raddoppiata, passando dal 22 al 39 per cento. A metà degli anni '90 quell'1 per cento della popolazione si era accaparrata il 70 per cento della crescita realizzata a partire dalla metà degli anni '70. Nei successivi dieci anni, dal 1990 ai primi anni del 2000, le grandi fortune d'America si sono triplicate o quadruplicate (questi dati sono tratti dal libro di Kelvin Phillips 'Ricchezza e democrazia', Garzanti ). Non si tratta più, come alcuni hanno osservato (vedi soprattutto Robert Reich) di aumento delle diseguaglianze, ma di vera e propria 'secessione'.

E qui torniamo alla questione dell'etica. Siamo tutti nella stessa barca, era la fondamentale legittimazione morale del capitalismo: la crescita, comunque ripartita, correva a vantaggio di tutti. Da decenni questo non è più vero. Reddito e ricchezza delle classi medie ristagnano. Il commercialista da 90 mila dollari l'anno, l'avvocato da 125 mila dollari non stanno nella stessa barca del banchiere che guadagna 1,5 milioni di dollari o del ceo (chief executive officer) che si porta a casa 40 milioni di dollari l'anno. Ciò che è avvenuto è la nascita di una nuova plutocrazia, che è in grado di dettare le sue condizioni al mercato; che detiene un potere di mercato. Chi dispone di potere di mercato, è più che probabile che ne abusi (leggere Adam Smith). E questa è la premessa ideale per lo sviluppo di una criminalità di mercato.

La decisione fatale assunta all'inizio degli anni '80 di liberalizzare i movimenti internazionali di capitale, e l'estrema facilità di realizzarli grazie all'istantaneità delle tecniche informatiche, ha fatto il resto. La velocità del crimine è enormemente superiore a quella dei mezzi posti in atto per contrastarlo. Il C8 è molto più efficace del G8. L'ammontare dei capitali riciclati rappresenta, secondo l'Ocse, tra il 2 e il 5 per cento del prodotto mondiale. Una parte di questo flusso passa per i cosiddetti paradisi fiscali. L'Ocse si è impegnata nella denuncia della distorsione di risorse operata da questi luoghi off shore, al largo dell'intervento fiscale e dell'informazione finanziaria, compilando nel 2000 una lista nera di 35 paradisi sparsi in tutto il mondo. L'Ocse ha definito con precisione le condizioni per 'uscire dalla lista'. Due anni dopo, nel 2002, molti dei cosiddetti paradisi, in apparenza, sono usciti dall'inferno: da 35 sono stati ridotti a sette. Certo l'Ocse, della cui serietà non si può dubitare, avrà avuto le sue buone ragioni. Ma, come si è osservato, non si sono avuti finora riscontri di una così radicale emersione di questo immenso sommerso. Una rapida visita ai siti Internet che reclamizzano le operazioni possibili nei paradisi insistono sui requisiti di segretezza impenetrabile che esse offrono senza far cenno della lista Ocse e degli impegni assunti. Il governo americano ha più volte ribadito la sua opposizione a qualunque intervento rivolto a influenzare il regime fiscale internazionale, confermando che la concorrenza fiscale è parte del credo liberale; anche se offre al terrorismo una sponda preziosa. Diceva Keynes: "Quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casinò di gioco, è probabile che vi sia qualche cosa che non va bene".

Qui si innesta il problema, sempre etico e di forti risvolti culturali: quello della corruzione e dell'impotenza della politica nel suo rapporto con il capitalismo. In un libro recente ('Supercapitalismo', Fazi Editore) Robert Reich denuncia, in quella che potremmo definire la mercatizzazione della politica, il rischio più grave che la democrazia sta correndo: se la politica diviene ostaggio del denaro, il collegamento tra concentrazione della ricchezza e corruzione della politica diventa inevitabile. Ora la politica, quella americana in particolare, sta diventando ostaggio del denaro. Certo, la corruzione politica c'è sempre stata. Ma siamo di fronte a una mutazione. Ciò che prima si comprava al minuto (favori, privilegi, tangenti), ora si compra all'ingrosso. Con il finanziamento elettorale si compra l'intera classe politica, di sinistra e di destra. I due partiti, ha dichiarato Ralph Nader, paladino dei liberal, si sono fusi in un solo partito al servizio delle imprese, con due volti truccati diversamente. Il finanziamento politico, nelle ultime due elezioni, è più che triplicato; e, considerati i risultati in termini di vantaggi acquisiti, è l'investimento più redditizio.

Ora: che tipo di controllo una classe politica può esercitare sulle imprese che la finanziano? La risposta, più che scettica, sta nel discredito della politica, documentato largamente dai più recenti sondaggi. E allora la risposta la si cerca nel posto più remoto: nella 'coscienza sociale' delle imprese. La cosiddetta 'corporate social responsibility' (Milton Friedman, padre del liberismo, inorridirebbe) è l'ultima trovata del Vangelo capitalistico. Nel 2006, più della metà di tutti i master in amministrazione aziendale prevedeva almeno un corso sul tema. Viene in mente una nota battuta: è come affidare a Dracula la presidenza dell'Avis. Poiché si è incapaci di imporre alle imprese una regola, gli si regala un'anima. Ora, è un po' difficile immaginare una riunione del C8, il governo ombra della criminalità mondiale, dedicata al tema della social responsibility. Vorremmo assistervi. Senza scherzi. Un rientro del supercapitalismo nella società dalla quale si è emancipato comporta un lungo processo storico, non un corso di formazione aziendale. Comporta un ritorno della politica, alla guida della società.