Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La crescita del PIL? Un indice senza significato

La crescita del PIL? Un indice senza significato

di Michele Orsini - 11/08/2008

Il prodotto interno lordo (PIL) misura il valore totale dei beni e servizi prodotti in un anno nell’ambito di un territorio. La misura della crescita economica di un Paese più utilizzata è il tasso di crescita annuale del prodotto interno lordo pro-capite, tanto che questo indicatore viene addirittura chiamato la crescita, senza ulteriori specificazioni. La politica di oggi, dominata dall’economia che in pratica l’ha completamente assorbita, pone detta crescita come il suo unico, vero, grande obiettivo che mette magicamente d’accordo gli opposti schieramenti: non è soltanto un indice statistico, si tratta di una vera e propria ideologia.

Se la parola “crescita” suona come qualcosa di positivo, incoraggiante, veicola emozioni favorevoli, è errato trasferite tali reazioni emotive su quel numerino che esprime la crescita economica del Paese, per il semplice fatto che l’indicatore è mal costruito: un suo valore positivo o negativo non è per forza una buona notizia, né cattiva.

Nel corso della conferenza stampa di inizio 2008 Nicolas Sarkozy ha annunciato di aver incaricato due premi Nobel per l'economia, Joseph Stiglitz e Amartya Sen, di studiare una soluzione per sostituire gli indicatori della crescita in Francia. «Bisogna cambiare il nostro strumento di misura della crescita», ha detto, convinto che contabilità nazionale e PIL abbiano «evidenti limiti» che non rispecchiano «la qualità della vita dei francesi». Non sorprende che ciò sia accaduto proprio nella Francia di Serge Latouche, il “profeta della decrescita”, dove la teoria della decroissance è forte ed ha una storia importante.

Il termine “decrescita” forse suona male, fa un po’ paura, tanto che lo stesso Latouche ha riconosciuto che non s’è trattato d’una scelta felice, proponendo di utilizzare piuttosto a-crescita, con l’alfa privativo: “sarebbe meglio parlare di a-crescita, così come si parla di ateismo. D’altra parte, si tratta proprio dell’abbandono di una fede, una religione”. Quindi la decrescita è un movimento il cui scopo primario è la liberazione da un mito irrazionale e pernicioso.

La crescita del PIL tiene conto, nella sua formula matematica, di voci che non hanno nessuna valenza economica positiva né dal punto di vista degli individui né da quello della collettività, non correlate né al potenziale economico-strategico di un Paese né al benessere dei suoi cittadini. Pensiamo soltanto al giro d’affari relativo ai bisogni indotti dal consumismo, nonché alla pubblicità che innesca il meccanismo: incidono in gran misura sul PIL e per questo sono considerati cose buone e giuste. Il consumismo però non solo, ormai sono sempre di più coloro che se ne stanno accorgendo, non rende le persone più felici, ma è anche dannoso da un punto di vista strategico: quanta energia viene sprecata, ad esempio, per far funzionare le Play Station?

I decrescentisti sono stati accusati di essere dei reazionari, dei primitivisti o peggio, ma tutto ciò non ha alcun senso. L’obiettivo della decrescita non è certo il “PIL zero”, come sembrerebbe dalle critiche rivoltegli bensì, citando il simpatico titolo del libro di Roberto Lorusso e Nello De Padova, liberarsi “dal PIL superfluo”.