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Il Cerro Rico di Potosí

di Yuri Leveratto - 11/08/2008

Fonte: yurileveratto

   

La zona dove oggi sorge la città di Potosí fu occupata in epoche remote da indigeni Atacamas e Chipayas.

Nel XV secolo il territorio fu conquistato da Huayna Capac e incorporato nell’impero degli Incas. Huayna capac dovette presto confrontarsi con gruppi tribali di Guaranìes che premevano da sud. Questi ultimi furono sconfitti e espulsi definitivamente dalla regione.

La leggenda narra che Huayna Capac si avvicinò alla montagna di Potosí detta Cerro Rico, chiamata in idioma aymara Sumac Orcko (montagna bella).

Huayna Capac decise di sfruttarne i minerali ma una voce poderosa scaturì dalle nuvole: Non saccheggiate l’argento di questa montagna perché è destinato ad altri signori.

Alcuni dicono che questa leggenda sia stata diffusa proprio dagli spagnoli per giustificare la loro proprietà del Cerro Rico (enorme cono la cui cima si trova a 5183 metri sul livello del mare).

Molti anni dopo, nel 1545, un indigeno di nome Diego Hualpa scoprì alcune vene d’argento nel Cerro Rico. Lo spagnolo Juan de Villaroel, resosi conto dell’immane quantità di argento contenuta nella montagna, ne prese possesso ufficialmente, il primo aprile 1545.

Il villaggio che fu costruito ai piedi della montagna fu chiamato Potosí, da un’antica parola quechua che probabilmente significava “tuona, esplode

Solo sedici anni più tardi il villaggio ottenne il titolo di città con il nome di Villa Imperial de Potosí.

Le miniere d’argento attirarono migliaia di persone a Potosí che in pochi anni crebbe a dismisura divenendo la più grande città d’America e la più popolosa dell’impero spagnolo (contava 160.000 persone nel 1625). Agli inizi del XVII secolo a Potosí erano già state costruite 36 chiese riccamente adornate con altari d’argento. Vi erano case da gioco e varie sale da ballo dove gli avventori sfoggiavano superbi abiti di seta che venivano importati dall’Europa. Si aprirono varie case d’appuntamento dove i ricchi signori dell’argento si intrattenevano con celebri prostitute bevendo champagne francese e consumando caviale del Volga. Persino le staffe dei cavalli erano d’argento. Nel 1658, inoltre, per la celebrazione del Corpus Christi, alcune strade della città furono pavimentate con barre d’argento.

La fama di Potosí raggiunse tutto il mondo. Lo stesso Carlo V scrisse questi versi come ringraziamento al Cerro Rico:

 Sono il ricco Potosí, il tesoro del mondo, il re delle montagne, e l’invidia dei re. 

Il grande scrittore spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra, nella sua famosa opera El ingenioso Don Qijote de la Mancha (1605), descrisse il Cerro Rico rendendo popolare la frase vale un Potosí, come sinonimo di ricchezza, opulenza, magnificenza.

Purtroppo furono gli indigeni di etnia Incas e Colla (rispettivamente di lingua quechua e aymara) che pagarono il prezzo di questa ricchezza.

Gli spagnoli reintrodussero il sistema chiamato mita, già in uso presso gli Incas, secondo il quale i mitayos venivano costretti al lavoro obbligato, non retribuito. Anche se dal punto di vista legale la Corona spagnola non riconosceva lo stato di schiavitù degli indigeni, ma solo dei neri di origine africana, in pratica gli indigeni venivano sottomessi e costretti a lavorare fino a venti ore al giorno in miniera, in condizioni terribili.

Nel 1572 arrivò a Potosí il vicere del Perú Francisco de Toledo. Si dedicò ad alcune opere urbanistiche, tra le quali la costruzione della prima Casa de la Moneda, dove si cominciò a coniare le monete d’argento, chiamate macuquinas o reales, che vennero presto utilizzate in tutti i territori soggetti all’autorità della corona spagnola.

La Casa de la Moneda iniziò così a funzionare come banca centrale dell’impero spagnolo.

Sotto gli ordini del vicerè, 16 provincie indigene di tutto il Perú furono obbligate a inviare mano d’opera dai 16 ai 50 anni d’età.

Ogni anno circa 15.000 indigeni furono costretti a viaggiare a Potosì per lavorare nella miniera. Rimanevano una settimana nel sottosuolo senza uscire e poi venivano rimpiazzati da altri; dopo un periodo di riposo vi rientravano.

Il Cerro Rico era come la bocca dell’inferno. Chi vi entrava raramente riusciva a sopravvivere più di quattro anni.

Si stima che dal 1545 al 1820 circa quattro milioni di indigeni morirono nel Cerro Rico che fu anche denominato Cerro de sangre. Anche i neri africani vi furono obbligati a lavorare, ma quando si comprovò che avevano difficoltà a respirare, e che la loro altezza non era adatta agli angusti passaggi della miniera, si preferì impiegarli nell’agricoltura.

Nella miniera si utilizzava il mercurio che serviva come collante per il minerale da estrarre. Respirarlo causava la perdita di denti e capelli. Chi sopravviveva, chiedeva l’elemosina ai margini della città, per poi morire solo e abbandonato di fame, freddo e malattie.

In seguito al lavoro forzato di migliaia di indigeni, da Potosí furono ufficialmente estratte, dal 1545 al 1820, circa 31.000 tonnellate d’argento (11,5 miliardi di euro ai prezzi attuali), oltre ad altre migliaia di tonnellate di zinco, piombo, stagno e altri minerali rari. Questi dati non includono il contrabbando. Nessun altro giacimento al mondo ha prodotto tanto argento. La maggioranza dei minerali strappati alla montagna fu inviato, prima sul dorso di lama fino al porto di Arica (attualmente appartenente al Cile) e poi con galeoni fino a Panama e quindi, in Spagna. Quello che rimase a Potosí servì ai ricchi proprietari per costruire grandiose chiese barocche, scuole, accademie.Nel XVIII e XIX secolo Potosí entrò in una fase di lenta decadenza. In seguito allo sfruttamento di altri giacimenti la popolazione declinò e molte cave furono abbandonate.

Proprio negli ultimi anni però il prezzo internazionale dei metalli è nuovamente cresciuto.

Una delle cause è l’enorme domanda di paesi emergenti come Cina e India. Il Cerro Rico è tornato a essere il centro minerario della Bolivia e circa 50 miniere sono state riaperte nella regione circostante. Attualmente lo sfruttamento di queste risorse è in mano ad alcune cooperative boliviane e a varie ditte private straniere.

Negli ultimi vent’anni la popolazione della città è passata da 139.000 a 200.000 abitanti e la miniera ha attratto lavoratori da Cile, Argentina e Perù. Il numero dei minatori è cresciuto fino a 16.000 e si stanno costruendo nuove unità abitative. Proprio a causa dell’aumento del prezzo dei minerali alcuni concessionari di miniere hanno visto triplicare la loro fortuna in un giorno. In città si vedono numerosi SUV fiammanti e persino le enormi Hummer statunitensi.

Quando si visita la miniera, ci si rende conto che i soci delle cooperative lavorano in condizioni precarie, senza sufficiente protezione, né assicurazione medica. Sono entrato in uno dei tunnel principali del Cerro Rico e ho potuto constatare che le condizioni di lavoro sono ancora oggi disumane. I minatori utilizzano pala e piccone, proprio come nel XVII secolo e caricano il materiale su carrelli pesanti fino a una tonnellata che devono trainare con funi fuori dalla montagna. Non hanno protezione contro la polvere e per gli occhi. Purtroppo ho visto anche ragazzi di trecidi-quattordici anni lavorare nelle viscere del Cerro Rico.

Lavorando 12 ore al giorno un socio di cooperativa può guadagnare circa 20000 bolivianos al mese (circa 1800 euro), mentre i suoi due aiutanti non arrivano all’equivalente di 400 euro al mese.

Sembra che poco sia cambiato dal 1970, quando Eduardo Galeano scrisse Las venas abiertas de America Latina, saggio nel quale mise in luce l’incapacità di molti paesi latino-americani di creare valore aggiunto, limitandosi a sfruttare o a dare in concessione a imprese straniere le enormi risorse naturali del continente.

Solo ultimamente qualcosa sembra cambiare: si sta cercando di creare un parco industriale e una scuola artigianale per formare esperti argentieri. Con la realizzazione di un marchio, le creazioni d’argento di Potosì potrebbero, in un futuro prossimo, dare respiro a una economia troppo sbilanciata verso lo sfruttamento minerario, della quale si beneficiano solo poche persone.  

 

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