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Storia e geografia del Madre de Dios

di Yuri Leveratto - 11/08/2008

Fonte: yurileveratto

  Durante l’impero degli Incas la selva amazzonica occupata dal fiume conosciuto oggi come Madre de Dios veniva chiamata Antisuyo (da cui il nome Antis, Ande). Gli Incas vi ottenevano alcune mercanzie, come oro, coca, piante medicinali e frutta che venivano poi barattate in tutto l’impero. Secondo l’Inca Garcilaso de la Vega (Commentari Reali, 1609),  l’imperatore Tupac Inca Yupanqui, figlio e successore del mitico Pachacutec, intraprese una spedizione nella selva dell’Antisuyo nel XV secolo. Si narra che partì al comando di un esercito di ben 15.000 uomini e sottomise alcune tribù di Mojos, Amaracaeris e Huarayos. Dovette inoltre confrontarsi con enormi serpenti (probabilmente anaconda) da cui derivò il nome del fiume Amarumayo o Rio de las Serpientes (Madre de Dios).Secondo la leggenda, originatasi a partire dagli anni successivi alla conquista spagnola del Perù, un gruppo di sacerdoti incaici si sarebbe nascosto in queste foreste e, nell’intento di preservare la cultura tradizionale, avrebbe fondato una città chiamata Paititi (dal quechua Paikikin, uguale a, in relazione al Cuzco), dove avrebbe nascosto, oltre ad antichissime conoscenze esoteriche, immani tesori.  Dal punto di vista geografico la conca del Madre de Dios appartenente al Perú, è estesa circa 85.000 chilometri quadrati (più di tre volte la Lombardia). Il Madre de Dios, i cui affluenti principali sono il Manu e il Rio de las Piedras, è lungo circa 1100 chilometri ed è tributario del Beni, che a sua volta, unendosi con il Mamorè, forma il Madeira, il più possente degli affluenti del Rio delle Amazzoni. Il territorio, nella parte occidentale è montuoso e accidentato, caratterizzato da vegetazione tropicale detta selva alta. Proseguendo verso est invece, si avanza nella foresta pluviale tropicale, con temperatura costantemente alta e forte umidità relativa.Il primo avventuriero che s’inoltrò nella foresta del Madre de Dios fu Pedro de Candia, uno dei conquistadores del Perù, luogotenente di Francisco Pizarro. Siccome aveva ottenuto delle informazioni da alcune sue concubine indigene che gli descrissero una città ricca in oro chiamata Ambaya si decise a intraprendere la spedizione. Partì da Paucartambo nel 1538 avanzando nella selva tropicale verso est per circa 150 chilometri. La spedizione però non ebbe l’esito sperato in quanto fu attaccata da feroci nativi in un villaggio chiamato Abiseo, dove si decise di rientrare verso il Cuzco. Nel 1566 Juan Alvarez Maldonado si spinse nella selva alla ricerca di Paititi, ma dovette presto rinunciare, in seguito ad attacchi indigeni e malattie. A partire dall’inizio del XVII secolo, i Gesuiti fondarono varie missioni nella zona, ed acquisirono importanti informazioni su una città nascosta, di origine Incas, nella selva del Madre de Dios. In particolare il padre Andrea Lopez, in una sua lettera a Claudio Acquaviva, superiore generale della Compagnia di Gesù, riporta dettagliate informazioni su Paititi, città pavimentata d’oro e ricchissima di pietre preziose. Questo documento fu scoperto nel 2001 dall’archeologo Mario Polia negli archivi del Vaticano. Anche altri missionari, negli anni successivi, come Francisco de Cale nel 1686 e Benito Jeronimo Feijoo nel 1730 descrissero la città di Paititi. Sembra che il Vaticano abbia custodito gelosamente queste informazioni nel corso degli anni. Perchè ?La zona del Madre de Dios non fu solo luogo esplorato da avventurieri e archeologi in cerca di Paititi. Sul finire del XIX secolo un imprenditore peruviano, Carlos Fermin Fitzcarrald, si distinse per un impresa epica, che aveva come fine lo sfruttamento commerciale della conca del Madre de Dios, allora minacciata da incursioni di brasiliani e boliviani spinti dalla speranza di enormi guadagni derivati dall’albero della gomma (caucciù). Fizcarrald, dalla cui avventura fu tratto un lungometraggio interpretato da Klaus Kinski e Cluadia Cardinale, era proprietario di enormi piantagioni di caucciù nella zona dell’Ucayali. Resosi conto che le sorgenti del Serjali, facente parte della conca dell’Ucayali, distavano pochi chilometri dalle fonti del Caspajali, facente parte del bacino del Madre de Dios, decise di costruire un passaggio tra i due fiumi, chiamato poi “istmo di Fizcarrald”. Nel 1894, Dopo aver disarmato il suo battello Contamana, Fitzcarrald, con l’aiuto di centinaia di indigeni, lo fece trasportare dall’altra parte dello spartiacque, nella conca del Madre de Dios, dove fu riarmato. Quindi navigò lungo il Rio Manu e attraverso il Madre de Dios fino a un avamposto di un cauchero boliviano, Nicolas Suarez, con il quale siglò importanti accordi commerciali. Il passaggio della Contamana attraverso la collina fu un successo che permise a Fiztcarrald di accrescere notevolmente la sua fortuna sfruttando anche il bacino del Madre de Dios. L’avventuriero morì pochi anni dopo, nelle rapide dell’Urubamba, nell’intento di salvare la vita a un suo amico. Quando, intorno al 1925, la febbre del caucciù si spense, in seguito alla caduta del prezzo internazionale della gomma, la conca del Madre de Dios tornò a essere poco attrattiva per gli imprenditori, che l’abbandonarono al suo destino. Nella seconda parte del XX secolo reiniziarono le ricerche per trovare Paititi, la città perduta degli Incas. Negli anni 60 del secolo scorso, il peruviano Carlos Neuenschwander Landa portò a termine 27 spedizioni in cerca di Paititi. Anche se raccolse importante materiale archeologico risalente all’era incaica non trovò l’anelata città. Nel 1970 lo statunitense Robert Nichols e i francesi Serge Debrù e Gerard Puel scomparvero misteriosamente nell’intento di trovare la mitica città. Per l’archeologo Fernando Soto Roland Paititi è difesa da un gruppo di indigeni di origine incaica, conosciuti come Kuga-Pacoris, la cui ferocia è ben conosciuta nelle credenze popolari. Sarebbero stati loro, secondo Neuenschwander Landa, che avrebbero impedito l’accesso ai due francesi e allo statunitense.Una delle più importanti spedizioni alla ricerca di Paititi si ebbe nel 1979, quando Herbert e Nicole Cartagena scoprirono le rovine di un avamposto incaico che fu chiamato Mameria. I manufatti che furono trovati nelle vicinanze indicano che Mameria rappresentava un avamposto agricolo e un posto d’osservazione. Negli anni 80 del secolo scorso l’archeologo statunitense Greg Deyermenjian portò a termine varie spedizioni e sebbene documentò e studiò vari siti archeologici, non riuscì a trovare la città di Paititi.Nel 2002 l’esploratore polacco Jacek Palkiewicz intraprese un’imponente spedizione nella zona del Madre de Dios. Dopo 21 giorni di cammino individuò un acquitrino completamente occultato dalla vegetazione. Con l’aiuto di strumenti radar, alcuni archeologi della spedizione trovarono un labirinto sotterraneo situato sott’acqua che potrebbe essere parte della città. Ancora non si sa se nel fondo dello stagno incontrato da Palkiewicz vi sia l’immane ricchezza degli Incas o se quel luogo abbia “solo” un enorme valore archeologico.Nella conca del Madre de Dios si trova il parco nazionale del Manu, grande più di 1.700.000 ettari (metà della Svizzera). E’ una delle aree protette meglio conservate del mondo. Questo santuario della biodiversità animale e vegetale si estende dai 4000 metri di altitudine sul livello del mare, nelle montagne chiamate Apu Kanahuay (vicino a Dio in lingua quechua), fino ai 200 metri d’altezza nella foresta pluviale tropicale, dove il Rio Manu si incontra con il Madre de Dios, presso il villaggio di Boca Manu.Nel Manu vi sono più di 1300 varietà di farfalle (441 nell’intera Europa), 1000 specie di uccelli, 100 differenti generi di pipistrelli, oltre a scimmie, rettili, pappagalli, felini (giaguaro) e naturalmente pesci come lo zungaro e il paiche (pirarucù) oltre a un numero imprecisato di differenti specie di insetti, alcuni ancora sconosciuti. Nel parco nazionale del Manu vi sono vari gruppi indigeni. Alcuni hanno scelto di vivere nell’interno della foresta primaria e di evitare qualsiasi contatto con i peruviani. I gruppi tribali si dividono per appartenenza linguistica. I Mascopiros parlano lingue appartenenti al Pano. Gli Huachipaery e gli Amarakaery si esprimono nell’idioma Arakmbut. La maggioranza di loro vivono nelle comunità di Queros, dove si trovano i petroglifi di Jinkiori, e Santa Rosa de Huacari. Il gruppo di nativi più numeroso è  l’etnia Matsiguenkas la cui lingua appartiene al ceppo Arawak.I Matsiguenkas hanno mantenuto nel corso degli anni frequenti contatti con i popoli andini di lingua quechua specialmente nelle vicinanze di Kosnipata. La maggioranza di loro vivono nei villaggi di Palotoa-Teparo, Tayakoma, Yonubato e Santa Rosa de Huacaria. Coltivano riso, yuca, patate, frutta e alcuni di essi fanno uso della foglia di coca che masticano per attenuare la fatica e la fame. Spesso bruciano il tronco di un albero chiamato manakarako ottenendone del carbone le cui ceneri vengono mischiate con le foglie di coca per ottenere un effetto più efficace. Inoltre cacciano con frecce e pescano per variare la loro alimentazione. All’interno del parco nazionale vi sono poi i Kuga-Pacoris conosciuti per la loro aggressività. E’ difficile e pericoloso cercare di incontrarli perché  preferiscono non avere contatti con altri popoli.Uno dei luoghi più interessanti dal punto di vista archeologico dell’intera conca del Madre de Dios sono i petroglifi di Pusharo, situati presso il fiume Palotoa. Questo corso d’acqua, che sorge a circa 1000 sul livello del mare nella cordillera detta Pini Pini, è tributario del Madre de Dios e vi si unisce poco a valle del villaggio di Santa Cruz.   I petroglifi di Pusharo, scoperti inizialmente nel 1909 da un canchero,  furono descritti come lettere gotiche scolpite nella roccia. Nel 1921 il missionario domenicano Vicente de Cenitagoya, accompagnato da altri religiosi e da indigeni Matsiguenkas, visitò il sito e giunse alla conclusione che le incisioni fossero una forma di scrittura orientale raffigurante scene del Vecchio e Nuovo Testamento.Questi petroglifi sono stati fatti utilizzando delle asce di pietra, probabilmente intorno al primo millennio dopo Cristo. Nelle pareti di roccia attigue al fiume Palotoa vi sono rappresentate figure antropomorfe, come volti umani, zoomorfe, come serpenti od orme di felini e uccelli, e geometrico-astratte, non interpretate. Queste ultime si dividono in cerchi, quadrati, spirali labirintiche, catene attorcigliate, triangoli. Inoltre vi sono delle raffigurazioni del sole o della luna. Le figure che colpiscono di più il visitatore sono le incisioni cefaliformi, che forse descrivono delle maschere utilizzate da antichi abitatori della selva. Da attenti studi del sito si giunse alla conclusione che i motivi dominanti di queste incisioni sono il totem felino e il sole, considerato come portatore di vita. Questi petroglifi sono stati interpretati nel corso degli ultimi decenni da vari avventurieri e archeologi. Alcuni di essi li hanno relazionati a Paititi pensando che fossero una sorta di mappa per raggiungere la mitica città. A mio parere queste incisioni rupestri sono una forma di espressione di un popolo amazzonico vissuto nella conca del Madre de Dios in epoche remote. Forse si tratta degli antenati dei Matsiguenkas (origine arawak).E’ possibile che i misteriosi autori del magistrale intaglio siano stati influenzati dagli Incas e abbiano ritoccato il petroglifo nei secoli successivi come dimostrano alcuni segni di origine incaica. In ogni caso queste rappresentazioni artistiche rappresentano il primo passo che avrebbe portato quel popolo a forme di espressione più complesse come la pittografia o i geroglifici. Per il noto archeologo Reichel-Dolmatoff le incisioni rupestri potrebbero essere rappresentazioni astratte di mitologie o concezioni cosmologiche, create da soggetti che si trovavano sotto l’influenza di piante allucinogene come l’ayahuasca (yajé).In effetti le sensazioni che si provano dopo aver fatto uso dell’ayahuasca, spesso associato con altre piante come la charcuna (psychotria viridis), sono alterazioni del senso visivo. Si vedono colori intensi e reti esagonali. Curiosamente queste forme geometriche appaiono frequentemente nell’arte rupestre del Nuovo Mondo. Navigando a valle lungo il Madre de Dios si incontra l’abitato di Boca Manu, poco oltre la confluenza dell’omonimo fiume. Quindi dopo circa 10 ore di peque-peque, si incontra il Rio Colorado (chiamato anche Karene). In questa zona e nei fiumi vicini, come l’Iñabari (che fu chiamato dagli spagnoli Rio Magno), lo Huepetue e il Pukiri, furono scoperte, a partire dal 1970, delle discrete quantità d’oro, mischiate alla sabbia delle rive fluviali. In poco tempo i villaggi si riempirono di coloni in cerca di fortuna Avamposti come Colorado, Mazuko e Laberinto fino ad allora abitati da qualche decina di persone si ingrossarono all’inverosimile, non solo di disperati cercatori d’oro ma anche di commercianti avidi e senza scrupoli. Siccome l’oro si trova primariamente in sedimenti di argilla o sabbia a volte situati a tre metri di profondità, è  necessario scavare per poi filtrare il materiale in reti finissime che non lasciano passare la polvere d’oro. Viene quindi aggiunto del mercurio liquido che serve da collante per aggregare le varie particelle d’oro. L’ultimo procedimento è la fusione: il mercurio si scioglie e finalmente è possibile vedere piccole pepite d’oro. Il mercurio, che finisce nei fiumi, è un potente veleno che uccide i pesci e sterilizza le acque e l’humus delle rive fluviali. L’estrazione dell’oro con processi artigianali è pertanto pericolosa per l’ambiente naturale in quanto con l’eliminazione dell’humus è sempre più difficile la crescita di nuovi alberi. Nell’intera conca del Madre de Dios si estraggono circa 8 tonnellate d’oro all’anno: un’enorme ricchezza di cui però non si beneficia la popolazione. La maggioranza dei lavoratori proviene da zone poverissime del Perú, aree rurali dei dipartimenti di Puno o Arequipa. Alcuni di loro che hanno problemi con la giustizia, pensano di rifarsi una vita lavorando come cercatori d’oro nella selva e di diventare ricchi in poco tempo. La realtà è ben diversa. Vengono assoldati da “caporali” che li pagano circa 600 soles (150 euro) al mese per 14-16 ore di duro lavoro al giorno. Ai “caporali”, che sfruttano illegalmente le rive dei fiumi (senza pagare la concessione al governo), rimane l’oro ottenuto con la fatica di questi ragazzi. Alcuni di questi disperati finiscono per ammalarsi di malaria, lesmaniasi o epatite in quanto le condizioni igieniche sono disastrose. Molti s’indebitano con i loro padroni o contraggono malattie veneree nei postriboli di Colorado. L’oro viene rivenduto nei villaggi a circa 75-80 soles al grammo e quindi rivenduto a traders di Cuzco o Juliaca. Proseguendo verso la capitale del dipartimento, Puerto Maldonado, s’incontra un’enorme strada sterrata, che presto sarà asfaltata e interconnessa ad una strada amazzonica brasiliana. Il Madre de Dios fa gola a grandi multinazionali, e deve essere connesso al Cuzco con una strada asfaltata al più presto. Come si vede il Madre de Dios è il luogo dei contrasti: parchi immensi e incontaminati a ovest, dove ancora vivono indigeni no contactados, e sfruttamento minerario incondizionato nel centro, dove non sono garantite le condizioni minime di lavoro. Si spera che i governati locali sappiano, in un futuro non lontano, conciliare le esigenze di preservazione delle aree naturali protette con uno sviluppo economico equo, che possa beneficiare tutti gli strati della popolazione, indigeni inclusi, rispettando la loro cultura secolare.             2008 Copyright