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La volontà palestinese di diventare una Nazione libera

di Luigi Tommasi - 02/02/2006

Fonte: Rinascita



Succedono cose strane in Palestina e nel mondo. Succede che ci sia un popolo fiero che si presenta compatto al voto per scegliere liberamente il proprio destino. E succede anche che ci sia un ordine mondiale che compattamente e in modo deliberato decide che quanto scelto con le elezioni non va bene. Si parla di quello che è sotto gli occhi di tutti: Hamas vince le elezioni politiche palestinesi e tutto il mondo “occidentale” si ribella al grave affronto. Perde, in questo modo, il modello statunitense che vorrebbe cercare di imporre governi, modi di pensare e di vivere a tutto il mondo. Esce sconfitto dalla Palestina dove ancora c’è un popolo che combatte, che vive a testa alta, che non vuole essere schiavizzato. E che pur di rimanere in piedi per lottare per la propria libertà ogni giorno combatte con l’invasore, con chi gli ha tolto la terra e non perde occasione per ribadire strumentalmente la propria presenza. Check point, il Muro della vergogna, l’esercito che controlla ogni spostamento, l’intolleranza dei coloni. Basta stare pochi giorni in Palestina per capire la situazione, vivere la tensione, ammirare la forza palestinese nel ricercare quotidianamente un vivere “normale”, rimanere sinceramente sconcertati davanti agli atteggiamenti dell’esercito della stella di david. Se si pensa, poi, che la Terra Santa è la culla della civiltà e del dialogo, la situazione odierna diventa ancora più paradossale. E la capitale dello stato palestinese ne è l’esempio emblematico. Muezzin e minareti. Chiese e sinagoghe. Si passa dal Santo Sepolcro, al Muro del Pianto da dove si vede distintamente la cupola d’oro della Moschea di Omar e la cupola scura di quella di Al Aqsa. Questa e’ la citta’ santa per tutte le religioni monoteiste: Gerusalemme. Varcata la porta di Damasco ed entrati nella citta’ vecchia basta fare poche centinaia di metri per sentirsi un po’ come nell’anno mille: si respira nell’aria la storia, il dialogo interreligioso, la convivenza pacifica, la cultura, la tradizione. Peccato che ci si debba svegliare in fretta da questa sorta di sogno guardando quello che succede in mezzo a tanta meraviglia: anche dentro la città vecchia l’esercito invasore tiene d’occhio la popolazione considerando tutti come dei potenziali nemici. E allora diventa all’ordine del giorno il sopruso e l’insulto: se sei cristiano o se sei musulmano, non vai bene, non sei “uno di loro”. E’ incredibile come gli invasori si sentano superiori e padroni. Così bisogna risvegliarsi dal sogno capendo che Gerusalemme non è la capitale della pace e del dialogo, ma è una città martoriata, occupata militarmente, a cui viene tolto quotidianamente l’ossigeno per vivere. I palestinesi non solo non hanno diritto ad avere la propria capitale, ma non hanno neanche diritto di abitarci senza problemi. Anche il venerdì, giorno santo per la preghiera, sono seguiti dai fucili dell’entità sionista e dall’arroganza dei soldati invasori. Quando abbiamo cercato di visitare la Spianata delle Moschee ci è stato sconsigliato, siamo stati insultati. Tutt’altra storia è il rispetto musulmano per i luoghi di culto cattolici: se alla porta di Damasco si chiede la via per il Santo Sepolcro la gente normale fa a gara per rispondere. E alle elezioni tutta la vergogna sionista è venuta fuori, proprio a Gerusalemme. I palestinesi, infatti, non hanno potuto votare liberamente. L’entità sionista, per l’ennesima volta, non ha riconosciuto il sacrosanto diritto di votare a Gerusalemme e ha messo su l’ennesima grave offesa per il popolo palestinese: a fronte di 120.000 aventi diritto al voto, solo ed esclusivamente 6000 “fortunati” avrebbero potuto esprimere la propria preferenza per le politiche. Ma essendo considerati dai sionisti come dei votanti “stranieri” nessun seggio doveva essere allestito. Così i 6000 palestinesi accreditati al voto hanno dovuto subire l’umiliazione di entrare in un ufficio postale sionista e votare “per posta”. Per l’ennesima volta sono stati trattati come degli stranieri in patria. Ma l’illegalità diffusa dall’occupante non si è fermata al giorno del voto. Parlando con vari esponenti di tutte le fazioni in corsa alle elezioni (12 partiti, 780 candidati), infatti, è stato raccontato come sia stato impossibile fare la campagna elettorale a Gerusalemme. Arresti, perquisizioni, confische, irruzioni nelle sedi. Neanche una conferenza stampa era permessa. L’entità sionista ha dovuto ribadire fino all’ultimo istante che Gerusalemme non è una città palestinese. E per farlo non ha usato solo la forza dell’esercito. Percorrendo la strada verso Ramallah, sede del Parlamento palestinese e della Muquata, storico quartier generale di Yasser Arafat, è ben visibile tutto il nuovo tratto del Muro della vergogna. Famiglie separate, vite distrutte, comunità divise per sempre. Così l’entità sionista ha visto bene di continuare ad annettere con la forza del Muro intere porzioni dell’Autorità nazionale palestinese, conquistando così nuovi territori e in molti casi anche il controllo dell’acqua. Per non parlare poi delle colonie che continuano a crescere anche dopo il Muro. Le case palestinesi vengono requisite e chi vuole rimanere deve subire ogni tipo di angheria. Questa la situazione emergenziale di Gerusalemme che il mondo fa finta di non vedere. E quindi risuonano con fierezza le parole della gente normale, dei palestinesi che si incontrano per strada: “perché il mondo ci chiede di riconoscere Israele, se loro non riconoscono i nostri diritti? Perché dovremmo subire e smettere di combattere, quando quotidianamente dobbiamo subire una dura e sanguinosa occupazione?”. Spostandosi da Gerusalemme a Ramallah la situazione cambia radicalmente. Passato il check-point “Kalandia”, tristemente famoso per i soprusi sionisti e le grandi attese, gli sguardi si fanno amichevoli e anche l’esercito si comporta in modo diverso. Si capisce subito che in questa parte di Palestina non sventola la bandiera con la stella di david e che il controllo della situazione è in mano palestinese. Arrivando nei giorni precedenti al voto, ciò che colpiva maggiormente era il grande fermento, la grande aspettativa, la grande voglia di urlare al mondo intero la volontà palestinese di rafforzare le proprie istituzioni e dare finalmente vita ad uno Stato. Manifesti attaccati ovunque, volantinaggi militanti, comizi improvvisati. Sia di al Fatah, che di Hamas. Entrambe le fazioni hanno usato una campagna elettorale molto enfatica, utilizzando i propri eroi sui manifesti: al Fatah mette accanto ad ogni candidato l’immagine di Yasser Arafat, Hamas usa una mezzaluna verde accompagnata dall’immagine dello sceicco Yassin, ucciso da mano sionista. La campagna elettorale va avanti fino alla fine: fino all’ultimo voto, fino all’ultimo elettore. Alla chiusura dei seggi la grande mobilitazione popolare palestinese si vedrà subito dalle percentuali di voto: il 77,6% degli aventi diritto si è presentato alle urne. Una percentuale altissima che fa invidia a tante vecchie democrazie occidentali e che è il chiaro segno della grande partecipazione, della grande voglia di cambiare palestinese. Ovunque non si poteva fare a meno di notare la forte mobilitazione: file ai seggi, cori da stadio, caroselli di Fatah e Hamas in tutte le città. E’ stata chiara la forte volontà palestinese di far parte di queste elezioni. Migliaia di scrutatori e di rappresentati di lista hanno reso le operazioni di voto trasparenti e regolari. Tantissime le donne presidenti di seggio, particolarmente scrupolose da destare quasi lo stupore degli osservatori internazionali. L’entusiasmo mostrato dal popolo palestinese ha fatto superare tutte le difficoltà: i blocchi ai check point, i problemi a Gerusalemme, le lunghe attese ai seggi. E già a 72 ore al voto si respirava nell’aria la vittoria di Hamas. Era impossibile immaginare il contrario. Le bandiere verdi sventolavano fiere in ogni città palestinese. E i militanti di Hamas riempivano le strade e le piazze, raccontando a tutti lo stato reale dei fatti: la corruzione e la ricchezza di pochi stanno distruggendo le legittime aspettative palestinesi. Hamas ha così incarnato la grande voglia di riscossa e di riscatto di un popolo ed ha ben saputo dar voce alle fasce sociali disagiate e a quanti credono giustamente nei principi della giustizia sociale. Così, confrontandosi con i ragazzi, con le giovani donne, tutte persone normali che distribuivano con entusiasmo i volantini di Hamas, abbiamo ben capito il motivo della vittoria dell’ “onda verde” palestinese. Parlandoci a lungo è facile scoprire che è troppo facile liquidare gli slogan, i manifesti e i militanti di Hamas con l’etichetta dell’estremismo. Forse farebbe bene ai governanti occidentali calarsi nelle strade di Gaza, Tulkarem, Gerico, Betlemme e parlare con questa gente. Magari, in questo modo, potrebbero capire che le ragioni di povertà, di ingiustizia, di mancanza di futuro che portano migliaia di persone a condividere un sentimento popolare di appartenenza, di affermazione della propria dignità, di difesa dei propri diritti, che pretende con orgoglio un futuro. E così, con buona pace di Bush e soci vari, la Palestina ha dimostrato il proprio orgoglio e ha votato per un futuro senza corruzione, senza clan, per un futuro che possa finalmente donare ai palestinesi una Nazione. Adesso, però, si complica la situazione. Dopo il voto palestinese, i popoli liberi che vogliono scegliere liberamente il proprio futuro stanno diventando tanti. Un serio problema per americani e sionisti, una luce, un faro di libertà per il mondo intero, per gli uomini che ancora sono pronti a combattere per la propria libertà.