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La violenza è propria dell'uomo o si trova in tutta la natura?

di Francesco Lamendola - 11/08/2008

 

 

Tre tigri giocano nel Tempio della Tigre, in Thailandia. Il Tiger Temple è un centro di recupero per animali selvatici gestito da monaci buddisti dove gli animali vengono curati e addomesticati. Nel tempio si trovano anche suini selvatici, cervi, antilopi, bufali d'acqua, scimmie e tanti altri animali. Le tigri sono messe in libertà, fuori dalla loro gabbia dalle 15:30 alle 17:00 e i turisti  possono osservarle a anche toccare (Ansa/Epa)
 

Domenica 13 dicembre 1992, al Café des Phares, nella parigina Place de la Bastille, una trentina di persone stanno discutendo appassionatamente intorno ai tavolini disposti a ferro di cavallo, sotto lo guardo benevole del filosofo Marc Sautet, apprezzato traduttore di Nietzsche (e che sarebbe prematuramente scomparso nel 1998).

Quelle persone - persone comuni, non specialisti - discutono di filosofia.

Una ragazza ha lanciato il tema del giorno: La violenza è propria dell'uomo o si trova in tutta la natura?; un «buon tema» a giudizio di Sautet, deciso ad avvicinare ai piaceri del ragionamento filosofico persone di qualunque estrazione culturale, purché sinceramente interessate alla discussione razionalmente argomentata.

La ragazza che ha rotto il ghiaccio sostiene, senza batter ciglio, che quando uno strappa un foglio di carta, compie un gesto violento; e che, senza dubbio, gli provoca una sofferenza. Come facciamo, infatti, a sapere  che le cose  inerti non possiedono anch'esse una coscienza?

Dunque, la violenza regna ovunque sovrana, in natura; essa è dappertutto, e niente e nessuno possono sfuggire alla sua morsa.

 

L'iniziativa di Sautet ha dato vita a una effimera serie di tentativi di imitazione anche fuori della Francia. Noi stessi ne abbiamo visto più d'uno in Italia; ma è stata una stagione assai breve, consumata - quasi - nello spazio d'un mattino. Ciò non significa che fosse un'idea sbagliata: uscendo dalle aule accademiche, la filosofia ha tutto da guadagnare e poco da perdere.

È un fatto, in realtà, che la sua stagione più felice è stata quella in cui si filosofava camminando, per strada, al mercato, sotto i portici. Socrate l'ha pagata piuttosto cara, tuttavia l'esempio è rimasto; e, con l'esempio, un metodo, una prospettiva.

Oggi, con le automobili divenute padrone dello spazio urbano, non è più possibile discutere di filosofia camminando (se non, magari, nelle aree pedonali dei centri storici); neppure la fuga verso la campagna, come nel Fedro vediamo Socrate evadere lungo le rive dell'Ilisso, offre sufficienti garanzie di relativa tranquillità. Non restano che i giardini pubblici o, appunto, i caffè; almeno quelli che - come in Francia - per lunga tradizione, sanno fare spazio alle cose belle e accogliere le novità intelligenti: come, - ad esempio - negli anni Cinquanta e Sessanta, le interpretazioni dal vivo dei bravi chansonniers

D'altra parte, Socrate interrogava la gente, ma non era certo avaro di indicazioni sul metodo e sul merito delle questioni affrontate. Non era un demagogo e non pensava, né sosteneva, che ciascun essere umano sia naturaliter philosophus; né, meno ancora, che tutte le opinioni siano egualmente valide, con la scusa pseudo-democratica che ciascuno avrebbe diritto alla propria verità. E perché avrebbe dovuto crederlo? Non tutti sono bravi quanto un sarto nel confezionare vestiti, o quando un cuoco nel preparare i cibi, o quanto una stratega nel guidare l'esercito. Perché mai, dunque, tutti dovrebbero essere ugualmente bravi nell'arte di pensare?

Ecco, questo - probabilmente - è il limite intrinseco dell'iniziativa di Sautet. Il fatto che i baroni universitari abbiano ammazzato la filosofia, non significa che chiunque possa fare della filosofia; e dal fatto che molti esseri umani (tutti, non oseremmo dirlo) avvertano l'esigenza di una chiarificazione sui grandi problemi del vivere, non consegue che colui il quale non ha mai tentato di costruire un ragionamento in vita sua, possa farlo, da un momento all'altro, non appena gliene sorga il desiderio. Tanto varrebbe affermare che basta il desiderio per avere, di punto in bianco, un atleta del pentathlon, un esperto agronomo o, magari, un fisico nucleare.

No; ci vogliono una base culturale, sia pur minima; una certa abitudine al ragionamento; una sufficiente padronanza del linguaggio, almeno quanto basta per non cadere nelle trappole più clamorose di un lessico fuorviante.

In altre parole, ci vuole qualcuno che guidi la discussione, che la orienti, che la riporti in carreggiata quando tende a deragliare. E ci vogliono persone abbastanza coraggiose da esporre le proprie idee senza imbarazzo, ma anche abbastanza umili da capire che non basta buttar lì qualche osservazione estemporanea per aver «dimostrato» qualcosa. Parafrasando il buon vecchio Socrate: ci vogliono persone abbastanza sapienti da conoscere quel che vanno cercando, e abbastanza ignoranti da non presumere di averlo già in tasca, con poca o nessuna fatica…

Già, perché il problema è proprio questo: esiste una diffusa insofferenza nei confronti della fatica intellettuale, e ben pochi sono coloro che riconoscono la necessità di sobbarcarsela, se si vuol puntare a dei risultati non effimeri. Ma come! Ci tocca già faticare per pagare le tasse, per decifrare la ricetta del medico, per capire cosa farà la nostra banca dei risparmi che noi le affidiamo; perfino per avere la linea telefonica di qualche ufficio pubblico, si fa una fatica enorme: e adesso ci vengono a dire che anche per ragionare e per capire qualcosa sui problemi generali dell'esistenza bisogna fare fatica? Eh, no: questo è davvero troppo.

 

Dunque, la violenza.

Nell'epoca attuale, caratterizzata dal culto dei diritti (dell'uomo, del cittadino, delle masse, dei lavoratori, delle donne, dei bambini, dei pensionati, degli utenti, dei consumatori, ecc.) la semplice parola «violenza» desta in noi un sobbalzo, quasi un riflesso condizionato. La nostra mentalità neo-illuminista, ormai profondamente radicata nella modernità (e ancor più, se possibile, nella post-modernità) freme e ribolle d'indignazione. Come, nell'anno Domini 2008 esiste ancora quell'odioso relitto del passato che chiamiamo violenza?

Molti si meravigliano e si arrabbiano, perché pensano che essa avrebbe dovuto essere scomparsa da un pezzo: insieme alle epidemie di colera e di vaiolo, alla malaria, all'analfabetismo, alla denutrizione, allo sfruttamento del lavoro minorile nelle miniere di carbone., alle gravidanze indesiderate e ai Crocifissi nelle aule scolastiche.

Naturalmente, il pensiero corre subito alla violenza fisica e, in modo particolare, alla violenza sessuale: sempre per effetto del riflesso condizionato di ciò che scuote le nostre fermissime convinzioni in fatto di diritti: in questo caso, il diritto a un libero esercizio della propria sessualità. Solo con un certo sforzo dell'immaginazione, per analogia e per estensione, si forma nella nostra mente l'idea della violenza psicologica e morale; quella, ad esempio, esercitata - con sottile e diabolica maestria - dal padre della piccola Ludovica, non ancora divenuta monaca di Monza, nei capitoli IX e X de I promessi sposi.

Ah, e poi ci viene in mente la violenza contro gli animali.

Chi di noi, da bambino, non è stato iscritto, almeno per un periodo, a qualche società per la protezione degli animali - salvo poi, non appena si vedeva una lucertola stesa al sole, tempestare la povera bestiola di con una autentica gragnola di sassi, quasi fosse stata un drago minaccioso, pronto a scattare per ghermire qualche preda umana? E chi non è impietosito per i maltrattamenti inflitti a qualche gatto randagio; per i cani abbandonati in autostrada a ferragosto; per il raglio o il muggito disperato di maiali e vitelli condotti al vicino macello comunale? O non si è commosso per il povero uccellino chiuso nella sua gabbietta, che cinguetta malinconico verso il libero orizzonte, sognando quei voli spensierati che non potrà mai fare?

Forse, qualche persona particolarmente sensibile - non spesso, in verità - si sarà anche commossa per il taglio di un albero, magari eseguito per la semplice ragione che qualche inquilino del condominio si è lamentato, presso l'amministratore, che le sue foglie, cadendo in autunno, «sporcavano» tutto il cortile o che, magari, portate dal vento, si posavano sulle grondaie e ne ostruivano gli scarichi.

Così, ne La quercia caduta di Giovanni Pascoli, gli uomini si chinano pensosi ad ammirare il superbo albero che hanno abbattuto per farne legna, e solo allora paiono accorgersi delle sue qualità, prima inosservate. Ma solo gli uccellini che avevano fatto il nido tra i suoi rami sono veramente addolorati; essi non hanno atteso il momento dei tardivi riconoscimenti, per «sapere» che la quercia era loro amica…

 

       Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande

       morta, né più coi turbini tenzona.

       La gente dice: Or vedo: era pur grande!

 

       Prendono qua e là dalla corona

       i nidietti della primavera.

       La gente dice: Or vedo: era pur buona!

 

       Ognuno loda, ognuno taglia. A sera

       ognuno col suo grave fascio va.

       Nell'aria, un pianto… d'una capinera

 

        che cerca il nido che non troverà.

 

Non c'è alcun dubbio che tagliare un albero - come, del resto, strappare un fiore - sia un atto di violenza. Che, poi, possa anche trattarsi di una violenza giustificata, questo è un altro genere di discorso.

Ma il leone che assale e spezza il collo alla gazzella, per divorarsela? Il ragno che attende di catturare la mosca nella tela, per immobilizzarla e poi cibarsene? La dionea che attira l'insetto e poi lo fa scivolare all'interno del fiore, ove apposite sostanze lo scioglieranno per nutrire l'ospite ingannevole? La lampreda che si attacca al pesce con la sua terribile bocca da predatore e comincerà a mangiarselo, ancora vivo, poco alla volta?

E i vulcani, i terremoti, gli incendi spontanei nella foresta, le esalazioni sulfuree, le epidemie: tutte queste sono manifestazioni di violenza? Se sì, allora avremo la certezza che non si tratta di una prerogativa umana.

 

Da parte sua, Sautet propende per una risposta affermativa.

Scrive, infatti, in Socrate al caffè (titolo originale: Un café pour Socrate, Editions Robert Laffont, Paris, 1995; traduzione italiana di Marina Lia, Garzanti, Milano, 1998, 2004, pp. 20-21):

 

…Che la violenza sia universale, che la troviamo in tutta la storia dell'umanità, che la ritroviamo nell'intero mondo animale, che si all'opera durante le eruzioni vulcaniche e i movimenti delle lastre tettoniche che hanno dato forma al rilievo del nostro pianeta,  che sia nascosta al centro dell'attività solare, che sia all'origine del nostro sistema galattico e perfino all'origine del cosmo sotto il nome di big bang, tutto ciò lo posso concedere. Ma che la violenza sia dappertutto non significa che sia sempre.

Perché il cosmo divenga cosmo, la violenza deve cedere il passo al suo contrario: kósmos, in greco, significa «ordine»,ossia uscita dal cháos. La nascita del cosmo è la riorganizzazione di elementi caotici. Il nostro sistema solare è il risultato di una pacificazione localizzata del caos; alcuni pianeti vanno a descrivere un'orbita regolare intorno al sole, ed è questa regolarità che permette alla terra di raffreddarsi e in seguito di dare origine alla vita.  È dunque per il fatto che la violenza naturale in un certo senso diminuisce o cessa, che il nostro pianeta e la biosfera  hanno preso forma.

Lo stesso accade per la storia dell'umanità. Ben inteso, noi non siamo che una specie animale tra tante, e tutta la nostra preistoria è segnata dalla lotta contro le avversità della natura, tra cui le specie rivali.  Ma non per questo la violenza è la legge che regola la storia fino ad oggi.  Si possono anche annoverare sotto la categoria della violenza le invasioni barbariche  che hanno preceduto l'età feudale, così come il comportamento da predatori dei signori. Ma è impossibile definire in questo il motore della civiltà moderna: il fondamento del progresso degli ultimi secoli non è la predazione, ma il commercio, che poggia esattamente sul contrario della violenza: commerciare è scambiare merci equivalenti, tramite baratto o in cambio di denaro o di oro. Questo presuppone non farsi violenza l'un l'altro.

Diversamente da ciò che sembra, il capitalismo non si fonda sulla violenza. Anzi, ha dovuto combattere  i comportamenti dei signori e dei briganti, per imporre a tutti la legge di mercato. Se per questo fine si è servito di mezzi aggressivi, la questione non cambia: esso programmava un ordine  in cui la violenza doveva cedere il passo al commercio, che implica la trattativa. Che poi la società di libero mercato non sia in grado di realizzare questo programma, e che le negoziazioni commerciali, invece di raggiungere la pace assoluta auspicata da Kant abbiano un po' troppo spesso la tendenza a trasformarsi in guerre micidiali, non è cosa da poco, ma prova solo che questo sistema  ha dei limiti sui quali dovremmo riflettere.

Il trucco sta nel non farsi ingannare! Se sono i limiti  del sistema dominante a generare violenza, non bisogna fare di quest'ultima il vero motore  della storia umana, né considerarla una fatalità.  Ecco quel che ci interessa: se l'attrazione e la repulsione dei corpi celesti e delle particelle di materia regola il passaggio dal cháos al kósmos, è lecito pensare che i rapporti sociali si disporranno un giorno a orbitare attorno all'oro  come hanno fatto i pianeti attorno al Sole. E la loro sarà una curva dolce e regolare, armoniosa e generosa come le carezze degli amanti.

 

Straordinaria è la conclusione del ragionamento, in cui, dopo aver presentato l'economia capitalistica - una invenzione dell'Occidente moderno - come il culmine e l'omega della storia universale, il filosofo sentenzia che nel capitalismo non vi è violenza strutturale, perché esso è basato sullo scambio di merci equivalenti.

Naturalmente: come quando gli Europei compravano la terra degli indigeni, o un bel carico di carne umana, per qualche perlina di vetro e qualche metro di stoffa colorata; o come quando le multinazionali estraggono le materie prime, in Africa, Asia o America Latina, pagando dei diritti quasi simbolici e potendo usufruire, in compenso, di manodopera a bassissimo costo e di vasti mercati senza possibilità di concorrenza. O, ancora, come quando un pensionato, dopo una vita di lavoro, affida alla banca i suoi sudatissimi risparmi; la quale, in cambio di obbligazioni che a lui renderanno poco o nulla, moltiplicherà senza posa i propri dividendi.

Strano, ma pare davvero che Sautet abbia in mente solo la violenza fisica; anzi, solo la forma più evidente della violenza fisica: quella dei briganti e dei signori feudali. Ma, anche ammesso che si possano qualificare Auschwitz e Hiroshima come spiacevoli inconvenienti del «limite» d'un sistema intrinsecamente equo e pacifico, che dire dei milioni di persone che muoiono di fame ogni anno, perché la Coca-Cola o la General Motors possano continuare a fare man bassa delle risorse del pianeta - scaricando, oltretutto, sulla collettività mondiale i costi collaterali dell'inquinamento e i danni alla salute provocati dai loro prodotti?

E poi, quella profezia su un mondo che, alla fine della storia, orbiterà, pacifico e sereno, intorno all'oro, come i pianeti orbitano dolcemente intorno al Sole, pensiamo che Sautet avrebbe potuto proprio risparmiarsela…

 

Ma, coi suoi ditirambi in favore dell'economia di mercato quale migliore dei mondi possibili, Sautet ci ha portati parecchio fuori strada; perciò, vediamo di rientrare in carreggiata.

Sembra che, per alcuni, il concetto di violenza si leghi automaticamente a quello di coscienza. Dove vi è la coscienza, vi è anche il dolore e, quindi, si può parlare di violenza; dove non vi è coscienza, ad esempio in un oggetto inanimato, non essendovi possibilità di sofferenza, non si può parlare nemmeno di violenza.

Bisognerebbe, però, distinguere la coscienza di colui che esercita la violenza, da quella di colui che la subisce. Per Cartesio, gli animali erano parte della res extensa: dunque, un cane battuto da un uomo non poteva provare realmente dolore. Ma, se anche ciò fosse vero (e lo ammettiamo solo per assurdo), resta il fatto che l'uomo che batte il cane sa benissimo che cosa sta facendo, sa di stare esercitando una violenza, perché è la sua coscienza che glielo dice; e sia pure scagionandolo, nello stesso tempo, con mille giustificazioni razionali.

Ma, allora, dobbiamo concludere che lo squalo o il coccodrillo, i quali azzannano e divorano un inerme bagnante, commettono una violenza; né solo perché causano la sofferenza (e la morte) di una creatura cosciente, ma perché sono, essi stessi, coscienti?

Sembra che, quando si parla di violenza, non si possa fare a meno di pensarla in termini di una azione - fisica o morale - intenzionale; e, dove c'è intenzionalità, c'è anche coscienza. Dunque, per soffrire una violenza, bisogna possedere una coscienza; ma anche per esercitarla. Il cane da guardia che, improvvisamente, aggredisce e dilania il bambino che pur conosce da sempre - male interpretando un suo gesto - commette una violenza, anche se agisce solo in base a un riflesso condizionato dell'istinto, e non a una gratuita volontà di nuocere?

Ecco un altro elemento che, in genere, si reputa essenziale alla definizione di cosa sia la violenza: la gratuità. La violenza, per essere veramente tale, deve essere una azione non solo intenzionale (e non casuale), ossia frutto di una opzione ben precisa rispetto ad altre scelte possibili; ma deve essere anche gratuita, nel senso di non necessaria a priori, di non condizionata da una fatalità inesorabile. È gratuito un gesto che si compie per una libera decisione, senza esservi costretti, o indotti, da circostanze di forza maggiore.

Ricordiamo che la parola «violenza» deriva dal latino violentia ed è una astrazione di violentus, che non indica soltanto chi è violento, ma anche chi è impetuoso, duro, aspro, dispotico. I  Romani non avevano assolutizzato, come noi moderni, il concetto generale di violenza; preferivano distinguere, caso per caso, se si trattava di attitudine guerresca (Orazio dice Lucania violenta per indicare i Lucani bellicosi), di carattere perverso (violentum ingenium di Livio), di tendenza al dispotismo (tyrannus violentissimus, ancora Livio)  o, magari, di un comando imperioso (violentum imperium, sempre Livio).

Anche noi, del resto, usiamo espressioni come: «la violenza della scossa» (sismica); «una febbre violenta»; «la violenza del solleone», e simili. Quindi, in origine, l'idea di violenza era sia personale che impersonale; si è personalizzata nel corso dei secoli, mano a mano che la natura è stata sottomessa dall'uomo, le bestie feroci sterminate, le malattie domate mediante l'invenzione di farmaci e la somministrazione di vaccini.

Certo, si parla ancora di «squalo assassino», «montagna assassina» e, addirittura, «caldo assassino» (come quello dell'estate di alcuni anni fa, che provocò migliaia di decessi in Europa, specie tra gli anziani). Tuttavia, ognuno avverte che si tratta di esagerazioni giornalistiche.

La verità è che nessuno ha le idee troppo chiare in questo campo. «Violenza» è una parola alquanto abusata (a cominciare dai politici e dai giornalisti), che nessuno sa bene cosa stia ad indicare; il che non significa che ciascuno di noi non possa avere un concetto estremamente chiaro circa gli effetti della violenza, specialmente fisica.

Se, ad esempio, andiamo a consultare un buon vocabolario, scopriremo che la violenza è «la caratteristica di chi (o di ciò che) è violento», e che «violento» viene «detto di chi è solito abusare della propria forza fisica, specialmente in modo incontrollato e impulsivo» (Zingarelli). Questo, se non altro, ci fa compiere un passo avanti nel tentativo di circoscrivere il vago significato di questo termine, perché vi aggiunge la componente dell'abuso di forza - e, ci perdoni Nicola Zingarelli, non solo di quella fisica.

Ma, se stabiliamo l'assunto che la violenza, per essere tale, deve comportare un abuso nell'esercizio della forza, ci rendiamo conto, immediatamente, che essa deve essere ristretta all'ambito umano. Nella natura extra-umana, l'abuso della forza è molto raro tra gli animali, e non ha senso parlando di tempeste, terremoti, eruzioni vulcaniche e simili.

La natura non è violenta, perché abusa della forza solo chi può optare per una soluzione di basso profilo, in base a un ben preciso ragionamento. E non è nemmeno dolce e regolare, armoniosa e generosa come le carezze degli amanti, come Sautet - in un trasporto improvviso di poetica sensualità - sembra voler suggerire.

La violenza è una prerogativa umana, e non dipende affatto dall'instaurazione di questo o quel sistema politico-economico: quello sconfinamento nella filosofia della storia, con cui Sautet chiude la sua riflessione sulla violenza, è fuori luogo.

La propensione alla violenza, ossia all'abuso della propria forza, fa parte della natura umana, come abbiamo cercato di mostrare in tutta una serie di saggio ed articoli.

Questo non fa dell'uomo una specie «maledetta», ma ad una condizione: che egli si renda conto della sua fragilità morale, frutto del libero arbitrio, e che cerchi di porsi dei limiti, recuperando il suo legame originario con l'Essere.

La peggiore forma di violenza - quello che, in termini religiosi, si chiama peccato - è il misconoscimento della propria fragilità e limitatezza.

L'uomo ha commesso, e continua a commettere, le peggiori forme di violenza, quando si lascia accecare dall'orgoglio della creatura che rifiuta il legame originario con la creazione; che vorrebbe farsi Creatore di se stesso.

È allora che la violenza diviene un abuso intollerabile della forza; ad esempio, mediante il dilagare di una scienza senza coscienza e di una tecnologia senz'anima.

È allora che il Signore del Male sorride, soddisfatto.

Perché, fra tutte le forme di violenza, non ve n'è alcuna che sia peggiore, e foriera di più sinistri sviluppi, di quella della ragione che vuole insignorirsi del mondo, ignorando o disprezzando il rapporto di amore e gratitudine che dovrebbe legarla all'Essere da cui discende.