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Il calcio di Pasolini

di Simone Migliorato - 11/08/2008

Se mi metto a pensare al calcio di oggi, a quello della televisione, del gossip e degli sponsor, non mi viene in mente niente di poetico. Magari poetico non è una parola esatta. Diciamo che non mi viene in mente niente di letterario, di libresco, con tutto quello che ne concerne. Anzi, l’ultima fatica libraia di un calciatore, è forse la doppia edizione delle barzellette di Totti.

Può la letteratura allora interessarsi al calcio? Può più precisamente il mondo della cultura interessarsi a questo sport? Se la cultura però sono i cervelloni che ponderano su tutto e su tutti, fermi ed immobili sul loro piedistallo di niente, allora è meglio che nessuno si interessi al calcio. Verrebbero dette le solite cose: come ci si può entusiasmare per un gioco, che senso hanno le manifestazioni a volte isteriche del tifo, e che il calcio è uno sport violento che genera violenza.

Veramente, è meglio risparmiarci tutto questo. Sarebbe meglio tenersi il calcio, con tutti i suoi difetti e tutte le sue cose incomprensibili, e lasciarlo a chi ancora ci crede in questo sport, senza pensare che è una cosa troppo popolare, senza pensare che le persone serie, per l’appunto, di calcio non si interessano. Ma c’è chi, invece, di calcio si è interessato, ne ha scritto e ne ha giocato: Pier Paolo Pasolini (nella foto, il primo in piedi da sinistra).

Al di là di quello che si pensa di costui non si può negare che fu un uomo di immensa cultura, e che guardando la sua infinita produzione niente fa pensare che potesse interessarsi di questo sport del popolo. Ed invece fu lui il primo ad amare infinitamente il calcio. Giocò fin dalla sua adolescenza a Casarsa la sua città natale, dove in molti lo ricordano come una buona ala destra. Ed è lui stesso a dire:

«I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso…».

Lo “Stukas” però non smise di tirare calci nemmeno quando lasciò il Friuli, e si aggirava per Roma a scrivere i suoi libri e girare i suoi film. Sarà stato per il suo triste amore per la povertà, per la borgata e i borgatari, ma ci sono due foto che inquadrano a pieno questo suo modo di essere. Una è questa sotto:

Scrive Giovanni Cantucci di questa foto:

«Una tra le più belle fotografie di Pasolini lo ritrae in strada. Dietro di lui un marciapiede non finito, solo un gradino di marmo e, oltre, un cumulo di erba e terra. Segni di quell’Italia dall’edilizia affaccendata e frettolosa, di una modernità sbrigativa e inconcludente.»

È una giornata di sole e Pasolini è vestito di tutto punto, indossa un abito scuro e le scarpe di cuoio, la cravatta e il pullover sotto la giacca. Nonostante l’abbigliamento, con l’interno del piede destro controlla un pallone, la gamba e il busto formano una sola linea assai inclinata, tutto il peso sull’altra gamba flessa e ben piantata a terra. I pugni sono stretti e le braccia larghe, tese come ali alla ricerca dell’equilibrio; lo sguardo fisso a terra sul suo gesto tecnico, concentratissimo come in una quantità di altre fotografie scattate sui campi da gioco.

Dovrebbe esserci un’incongruenza tra quel vestito e l’impegno sportivo, tra quel vestito e il “gioco”: sulle gambe i pantaloni si agitano in mille pieghe, sbalzati da cunei di ombra e luce, le code della giacca si aprono come un mantello e sventolano scomposte dietro la schiena. Invece tutto è naturale, in quella foto, la posa e lo sguardo, l’abito e la strada.

È la fotografia più bella del Pasolini calciatore perché il calcio al pallone è in essa un gesto di libertà e di gioia. A indovinare dall’esterno, non si direbbe neppure una partita vera e propria, con tutta probabilità si trattava piuttosto di un incontro non prestabilito: una di quelle occasioni offerte dal caso in mezzo alla strada che lo scrittore aveva accolto di buon grado, unendosi, com’era solito fare, a quelle situazioni in cui non si contrasta e non si segnano dei goal, ma si fa semplicemente volare e correre il pallone, si prova qualche finezza, si urla e si ride mentre la palla l’hanno gli altri. Pasolini si prende la libertà di sporcarsi e di sudare quando non dovrebbe, di rovinare i suoi vestiti e magari di dimenticarsi di qualche appuntamento.

Di sicuro quel mattino annodandosi la cravatta non prevedeva questa piccola occasione per scalmanarsi, ma quando essa si è presentata non ha avuto bisogno di prepararsi o cambiarsi, e neppure di togliersi la giacca. Ha chiamato, ha detto - passamela! - e via. È il modo di essere libero e tipico del bambino, che può correre senza remore dietro al pallone anche fuori della chiesa, dopo la prima comunione, con il vestito della festa e i mocassini, perché a vedere una palla che salta e rotola non si può star lì a guardare. Oltre i quindici o sedici anni, la vita attenta e pulita opprime, nega la possibilità di un simile divertimento, così estemporaneo e “anarchico”, e vedere il poeta in cravatta che gioca per strada a trenta e a quarant’anni mette addosso una qualche malinconia. La seconda foto è questa:

Girando i suoi film, tra Pietralata e Monteverde, mai smise di giocare. A Monteverde creò anche una squadra, chiamata CAOS, che in mezzo al repertorio di violenza, passione e bestemmie dei campi di periferia, rappresenta l’essenza del calcio pasoliniano. La vicenda di questo libro è descritta in un libro di Ugo Ricciarelli, “L’angelo di Coppi” dove racconta diverse storie di sport italiano, e dedica anche un capitolo alla vicenda calcistica del poeta. Un altro libro è “Fútbol bailado”, di Alberto Garlini, che si muove con la fantasia, tra un fatto veramente accaduto: la partita a Parma tra la troupe di Pasolini che girava “Salò e le 120 giornate di Sodoma” e quella di Bertolucci. Ultimo libro è invece quello di Valerio Piccioni, “Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta”.

Può allora un intellettuale raffinato, vivere la gioia di sporcarsi dietro ad un pallone? Certo che si. Lo fece Pasolini, lo fece Saba, anche Leopardi e Sartre parlarono di calcio. Oggi lo ha fatto Hornby con “Febbre a ‘90″ che è diventato una bibbia per gli amanti del calcio. Perché non si può mai smettere di sognare, e di raccontare i sogni. Soprattutto se queste nascono dal sudore di un campo di calcio.

«Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. Il calcio che esprime più goals è il calcio più poetico…» (P.P.P.).