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Ritrovare il senso del limite per superare l'angoscia del morire

di Francesco Lamendola - 18/08/2008

 

 

Gli esseri umani hanno sempre avuto paura del morire.

Ciò non significa che abbiano sempre avuto paura della morte, cioè che non abbiano mai saputo razionalizzare l'angoscia della consapevolezza di dover morire.

Ne abbiamo già parlato, discutendo - e rifiutando - la tesi di Luigi De Marchi, secondo il quale tutte le religioni e gran parte delle ideologie politiche e delle forme di cultura, altro non sarebbero che una risposta paranoide, ossia illusoria e delirante, allo «shock originario» causato dalla «scoperta»  della irreversibilità dell'evento della morte (cfr. il nostro precedente articolo: Religione, politica, cultura come difesa paranoide dall'angoscia di morte, secondo Luigi de Marchi, consultabile sul sito di Arianna Editrice).

A quel che ci è dato sapere, dalla preistoria e fin verso il XIV secolo (per l'Europa occidentale) la paura della morte è stata, in qualche modo, elaborata e collocata in un contesto spirituale tale da renderla socialmente e psicologicamente accettabile, per quanto dolorosa. Di conseguenza, anche l'angoscia del morire, ossia del pensare l'evento concreto e individuale della propria morte, è sempre stata contenuta entro limiti ben precisi, impedendole di insediarsi al centro della vita come un ragno minaccioso che se ne stia acquattato al centro della sua tela vischiosa, pronto a scattare contro l'insetto che rimanga impigliato in un punto qualsiasi di essa.

Due, essenzialmente, erano gli elementi che consentivano questa notevole opera di razionalizzazione dell'evento che, per definizione, contraddice in modo radicale l'istinto più profondo della natura umana, ossia l'istinto di conservazione: la convinzione che la more è un evento introdottosi accidentalmente nel piano della creazione, e la fiducia in una forma di sopravvivenza dopo la morte, in una dimensione totalmente altra da quella terrena.

Tutte le religioni nascono da questi due punti fermi; e, per quanto gli scienziati positivisti del XIX secolo, sull'onda della tesi di Ludwig Feuerbach della religione come creazione della mente umana,  si siano sguinzagliati in tutte le direzioni alla ricerca di un popolo privo di religione, non l'hanno trovato; pur se talvolta hanno creduto di esserci riusciti, incorrendo in clamorosi errori etnologici e antropologici (come nel caso degli  Yamana della Terra del Fuoco; errore in cui cadde anche Charles Darwin).

Quei due elementi, in Occidente (ma non nel resto del mondo), si sono andati progressivamente sgretolando a partire dal 1300: il secolo terribile della crisi demografica, della dissoluzione del potere imperiale, della Guerra dei Cent'Anni, dell'invasione musulmana nei Balcani (battaglia di Nicopoli, 1396), dello scisma religioso e della «peste nera».

Via via che la mentalità capitalistico-borghese si andava sostituendo a quella religiosa e aristocratica, mettendo il guadagno al vertice dell'economia e il lavoro produttivo al vertice della morale, si produsse un enorme sconvolgimento di valori, di certezze e di stili di vita. Nacque  la filosofia della crescita illimitata e, con essa, la sua inevitabile accompagnatrice, l'aspettativa, come attesa nevrotica di una felicità sempre maggiore (cfr. il nostro articolo Dobbiamo liberarci dall'aspettativa, figlia malata dell'idea di progresso). Questa nuova visione del mondo, codificata ufficialmente dall'Illuminismo, è oggi divenuta, di fatto se non di nome, la forma dominante della cultura occidentale; ma essa trae origine dai mutamenti del XIV secolo.

La morte, adesso, cominciava a fare veramente paura (si pensi ai vari Trionfi della morte che compaiono sulle pareti delle chiese europee), per la duplice ragione che la nascita dell'aspettativa aveva prodotto un attaccamento compulsivo alla vita stessa come bene in sé compiuto, mentre la certezza di un livello ulteriore di esistenza (felice o infelice), libero dai condizionamenti materiali, si stava sfuocando nella coscienza collettiva, così come in quella individuale.

La morte cominciava ad apparire come una enorme ingiustizia, come una ladra che sottrae all'uomo, mediante il furto supremo, la sua infinita aspettativa, che è - al limite - l'aspettativa dell'eterna sopravvivenza (la quale è altra cosa, e ben diversa, dall'immortalità in senso religioso). Il ricco borghese, che ha accumulato grandi beni e che moltiplica senza posa il suo capitale, reinvestendolo in sempre nuove attività economiche, non può accettare l'idea che la morte lo priverà di tutto. Questo pensiero gli è insopportabile e genere in lui un rifiuto, che si traduce in una angoscia di morte tanto più distruttiva, quanto più respinta sotto il livello della coscienza.

Ecco, allora, che si comincia a non parlare più della morte; a escluderla dall'orizzonte visibile dell'immaginario; e a dissimulare quanto più possibile tutto ciò che la rammemora, a cominciare dalla vecchiaia, con i  segni impietosi del decadimenti fisico.

 

Ma non è sempre stato così.

Lo storico Franco Cardini, in un articolo apparso sulla rivista mensile La santa crociata (Roma, ottobre 2007, pp. 23-25), intitolato Ars moriendi, ha tracciato una rapida ma efficace panoramica di tale decisiva trasformazione dell'idea della morte e del morire nella nostra civiltà:

 

Più che la paura della morte, quel che sembra presente nelle culture tradizionali  - cioè in tutte meno quella occidentale moderna:  perché in tutta la millenaria storia del genere umano lo 'strappo', la 'rottura sistematica' rispetto alle tradizioni è qualcosa che soltanto l'Occidente/Modernità è riuscito a concepire - è lo stupore dinanzi ad essa, la coscienza profonda )'adamitica'?) ch'essa sia qualcosa d'innaturale e d'inconcepibile, quindi la volontà di 'addomesticarla' e in un certo senso annullarla, preparando il corpo alla resurrezione o l'anima all'eternità. Ciò, in un modo o nell'altro, è presente in tutti i riti funebri del mondo.

Altra cosa è la 'paura del morire', cioè l'angoscia dinanzi  a un passaggio difficile, che diviene necessario affrontare iniziaticamente. Da qui infinite precauzioni rituali, simboliche, per 'abituare'  il morto all'idea di esser tale, e in quanto tale separato dalla comunità dei viventi. Da qui le infinite leggende  sui révenants, i morto che tornano, e le non meno infinite precauzioni per evitare o per dominare e regolare tale ritorno. Da qui gli insegnamenti relativi al vivere come più o meno lunga fase di preparazione al passaggio finale: è il nucleo del magistero di Platone.

Ma è nel mondo medievale, alla fine del periodo che convenzionalmente chiamiamo medioevo, che avviene appunto la grande rivoluzione che inaugura la Modernità. La scoperta della paura della morte fa parte di essa.

In effetti, fra il IV e il XIV secolo non c'è traccia di terrore dinanzi alla morte.(…)

Ma le cose cambiarono nel corso del XIV secolo. La vita, allora, era qualitativamente migliorata in modo radicale: il vivere era divenuto più dolce e comodo, e l'abbandonare questa terra quindi proporzionalmente più duro. (…)

Le popolazioni del Trecento avevano, o almeno mostravano,  una paura della morte ignota nei secoli precedenti: e ciò senza dubbio perché, negli anni della crisi, la morte è più drammaticamente presente nella società; ma anche perché, intanto, si è imparato a vivere meglio e quindi ad affezionarsi maggiormente all'esistenza. (…)

In questo clima si proposero anche dei manuali di ars moriendi, consigli  sull'«arte del ben morire», che divennero diffuso oggetto di lettura devota anche nel mondo laico, tra il XIV e il XVII secolo. Erano quindi ancora lontani i tempi nei quali la morte sarebbe stata nascosta e circondata di eufemismi, come nel tempo moderno nel quale è vietato parlarne e dove i funerali si truccano da composte riunioni mondane. Ma proprio questo silenzio rende più profonda la paura e più evidente l'angoscia.

E lo spettro della morte torna, in forma selvaggia, ad aggredire l'inconscio e a dominare una vita in apparenza gioiosa, di gente che spera nel prolungamento artificiale indeterminato dell'esistenza. Oggi, appare necessario e importante reimparare ad addomesticare la morte. Tale obiettivo fa parte dell'indispensabile recupero della «cultura del limite», senza la quale l'Occidente sarà condannato al suicidio.

 

Ci sentiamo di condividere gran parte dell'analisi di Franco Cardini, della quale abbiamo qui sopra riportato i passaggi salienti, ma non interamente la sua conclusione.

Non riteniamo possibile, infatti, un «ritorno» puro e semplice al passato, ossia alla strategia di addomesticare l'idea della morte, come avveniva nel Medioevo. Tale addomesticamento partiva da presupposti materiali e culturali che sono tramontati per sempre e che non possono essere riportati artificialmente in vita, e sia pure con un supremo sforzo di «buona volontà». Del resto, la storia ci mostra che tali «ritorni» non sono mai possibili.

Molte cose sono cambiate dal 1300 ad oggi: la Modernità ha imposto nuovi modi di produzione, nuove strutture politico-sociali e una nuova visione del mondo; e, per quanto noi possiamo (e, forse, dobbiamo) dissentire da quest'ultima, non possiamo neppure ignorare i meccanismi che hanno fatto tramontare le precedenti certezze. Per cui non si tratta, a nostro avviso, di addomesticare l'idea della morte, come potevano sforzarsi di fare i nostri predecessori dell'età di mezzo, o come fanno i membri delle società tradizionali, là dove esse ancora sopravvivono.

Per un occidentale moderno, è impensabile l'idea che la morte possa essere addomesticata (a meno che una guerra nucleare ci scaraventi nuovamente nell'età della pietra), e ciò per almeno due buone ragioni.

La prima è che abbiamo perduto irreversibilmente l'idea della innaturalità della morte, dato che la cultura odierna è largamente dominata dal paradigma scientista e, in particolare, dall'evoluzionismo darwiniano. Al contrario di quello che insegna il cristianesimo, la scienza occidentale moderna presenta la morte come il destino inevitabile di tutti i viventi o, almeno, degli organismi superiormente organizzati (e l'uomo, per essa, non è altri che un animale particolarmente evoluto).  Non è un'idea nuova in se stessa; l'epicureismo, ad esempio, l'aveva ampiamente diffusa nel mondo antico; ma non era mai stata un'idea dominante; e, durante il Medioevo, era stata quasi cancellata. Gli esseri umani sono stati creati per la vita e non per la morte: questo è il messaggio diffuso dal cristianesimo. La morte, alla fine, sarà sconfitta e cacciata dalla creazione mediante il ritorno di Cristo, così come essa si era introdotta nella creazione per colpa di un uomo, Adamo (cfr. san Paolo, 1 Corinzi, 15, 21).

Ma per l'uomo moderno, la morte fa parte della creazione; o, per meglio dire, fa parte della natura (non si parla più di creazione), una natura meccanicisticamente intesa. Alla morte, dunque, non si può sfuggire, poiché essa fa parte del grande meccanismo di cui ogni cosa è un prodotto; tutt'al più, si potrebbe pensare di combatterla e vincerla agendo sul meccanismo stesso, ossia impadronendosi delle sue leggi e piegandole a nostro vantaggio. In questo caso, l'uomo si farebbe Dio di se stesso, perché Dio è il signore della vita. Tra parentesi, anche una serie di culti ufologici, caratteristici di questa nostra tarda modernità, partono da un simile presupposto: gli alieni sono gli dei, poiché sarebbero stato essi a «creare» la vita sul nostro pianeta.

La seconda ragione per cui non si può pensare di ri-addomesticare l'idea della morte, è che la modernità ha smesso di credere alla vita dell'anima dopo la morte del corpo, per il semplice fatto che ha smesso di credere all'anima. L'uomo moderno non si percepisce più come una persona, essenza spirituale dotata di libertà e volontà; ma, essenzialmente, come un corpo. La sua parte senziente, la psyche, altro non è che un insieme di neuroni: è, anch'essa, corpo, né più né meno (cfr. il nostro articolo Nell'ambivalenza corporea di Galimberti la riproposizione di un relativismo radicale).

Ora, è chiaro che per una umanità che non crede di possedere un'anima o uno spirito; che non crede, cioè, di possedere una parte immortale, l'idea del proprio morire non può che generare angoscia, poiché coincide con l'annullamento totale e definitivo. E questo, dopo che le lusinghe del benessere e le illusioni della scienza avevano lasciato sperare, o sognare, che il bene della vita avrebbe potuto essere goduto indefinitamente, appare come qualcosa di intollerabile.

 

È più che giusto voler recuperare la cultura del limite, ma non possiamo immaginare questo recupero come un puro e semplice regressum. Dobbiamo fare i conti con la radicalità del pensiero della morte, con l'impossibilità - per noi moderni - di addomesticarla.

D'altra parte, abbiamo visto che, se l'idea della morte non viene in qualche modo addomesticata, cioè resa accettabile in una prospettiva religiosa, essa rimane come una ferita aperta, come un vulnus; e, più ancora, come uno shock antropologico, che inquina le fonti stesse della vita e sospinge gli esseri umani verso il cinismo, l'angoscia cronica e una cupa disperazione. Come si può uscire da un tale circolo vizioso?

A nostro parere, noi dobbiamo reimparare l'ars moriendi per mezzo di un salto di qualità evolutivo, che ci restituisca l'idea della necessità del morire insieme a quella (e non senza di quella) della sua naturalità, ma spostando tale «necessità» su di un piano spirituale più alto. Non possiamo, cioè,   ritornare direttamente all'idea della innaturalità della morte; dobbiamo ritornarvi passando attraverso le acquisizioni della scienza moderna e, quindi, confrontandoci con la visione della morte come parte inseparabile del fenomeno «vita». Un po' come, se è lecito il paragone, dopo il  nietzschiano annuncio della «morte di Dio», non possiamo ritornare direttamente all'idea di Dio, come se non fosse accaduto nulla; ma dobbiamo fare i conti con un Dio che si nasconde, che rifiuta di «tappare i buchi» delle nostre  angosce, e che, volendo vederci diventare adulti, desidera anche  vederci agire come se Lui non ci fosse.

Tutto questo non è facile, ma è necessario.

In fondo, non dobbiamo dimenticare - secondo la grande lezione di Kierkegaard - che la «malattia mortale» non è affatto l'angoscia; l'angoscia, al contrario, è il sintomo che siamo ancora spiritualmente vivi.

La «malattia mortale» è la disperazione. E la disperazione, oggi, è la conseguenza di una cultura scientista che ci presenta l'uomo come il signore onnipotente del creato, fatto per godere e per manipolare tutti gli altri enti; ma, al tempo stesso, che ci mostra la morte come l'esito naturale della vita e come il suo annullamento irreparabile e definitivo.

In altre parole, esiste un gap incolmabile fra le aspettative di un potere e di un benessere sempre più grandi, che la modernità ha creato negli esseri umani e che, quotidianamente, alimenta attraverso i suoi riti fasulli e i suoi miti di cartapesta; e la nuda, spietata certezza della morte come annientamento totale, cui ci ha abituati la scienza materialista che, oggi, occupa il luogo che fu della religione.

Perciò, noi dobbiamo ripartire dalla angoscia che questa contraddizione genera in noi, facendo forza sulla contraddizione stessa per scardinarla (Evola diceva: cavalcare la tigre, quando non la si può affrontare a mani nude).

Chi ha detto che l'angoscia è un male in se stessa?

Noi, al contrario, crediamo che sia un male solo se essa si accompagna a un sentimento di assoluta impotenza.

E questa è la contraddizione di fondo della modernità, sulla quale bisogna far leva per scardinarla: che da un lato ci istiga ad un autentico furore di attivismo e di manipolazione, verso tutto e verso tutti; dall'altro, ci vorrebbe persuadere a un atteggiamento fatalistico e rassegnato nei confronti dello scacco supremo, l'annientamento finale del nostro essere.

Recuperare la «cultura del limite», allora, vorrà dire da un lato moderare l'incontinenza attivistica e riscoprire la bellezza di un atteggiamento contemplativo nei confronti del mondo, sostanziato di lode e gratitudine; dall'altro, saper vedere attraverso il corpo, e non ignorando il corpo, la nostra natura spirituale, anzi, la natura spirituale dell'intera realtà, che geme e soffre nella doglie dell'attesa di una rinascita gloriosa.

Come dice san Paolo in Romani, 8, 19-23:

 

Tutto l'universo aspetta con rande impazienza il momento in cui Dio mostrerà il vero volto dei suoi figli. Il creato è stato condannato a non aver senso, non perché esso l'abbia voluto, ma a causa di chi ve lo ha trascinato. Vi è però una speranza: anch'esso sarà liberato dal potere della corruzione per partecipare alla libertà dei figli di Dio. Noi sappiamo che fino a ora tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce. E non soltanto il creato, ma anche noi, che già abbiamo le primizie dello Spirito, soffriamo in noi stessi perché aspettiamo che Dio, liberandoci totalmente, manifesti che noi siamo suoi figli.