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Nella luce argentea della luna i cervi escono dal bosco e vanno a bere

di Francesco Lamendola - 18/08/2008

Nella chiara notte d'estate, il disco della Luna al primo quarto brilla di una luce insolitamente gialla, che diffonde nel cielo un magico alone dal pallido chiarore e si insinua al di sotto dei banchi di nuvole bianchissime, strappando loro riflessi di madreperla.

Né la luce lunare, né le nuvole sparse riescono però a nascondere il mantello sontuoso di luci sfavillanti che ardono nella notte d'agosto.

Lentissime, le costellazioni ruotano attorno alla Polare: l'Orsa che si aggira con la sua piccola; i sovrani Cefeo e Cassiopea, impietriti dall'angoscia; Andromeda piangente, incatenata alla scogliera, mentre il Dragone emerge dalle acque; Pegaso, il cavallo alato, che galoppa nell'azzurro firmamento; e Perseo che, intrepido, sguaina la spada per affrontare il mostro e salvare dal suo tragico destino la bella principessa etiope.

La giornata è stata calda, ma la notte è molto fresca e - cosa strana -, benché non sia ancora caduta la pioggia, si respira nell'aria un intenso odore di terra bagnata.

Chissà come, anche i grilli, ora, tacciono; e il loro ammutolire fa più rumore del loro canto incessante. Nessun insetto, nessun uccello anima la quiete della notte; il silenzio è così denso e compatto che pare trasformarsi in un suono assordante che non vene dall'esterno, ma sembra originarsi dall'interno degli orecchi.

Un magnifico pino strobo, verso mezzogiorno, si staglia con le sue forme elegantissime contro il chiarore argenteo della Luna, come in un quadro di Raffaello o di Leonardo, dipinto con sobrie, precise pennellate.

All'estremità opposta dell'orizzonte, verso settentrione, colline e montagne stendono i loro dorsi e i loro fianchi come creature favolose, come enormi cetacei o come femmine giganti che allungano voluttuosamente le loro membra smisurate. Ammantate di fitti boschi che stormiscono alla brezza e spandono nella notte mille profumi, sembrano sprofondate in una quiete sovrumana, fuori del tempo.

Quei boschi, è cosa nota, abbandonati dall'uomo, si sono ripopolati poco a poco di una ricca fauna selvatica: cinghiali, talvolta in branchi assai numerosi; caprioli; cervi scesi dalle montagne retrostanti, e divenuti ormai un flagello per gli orti e per le vigne.

Qualche tempo fa si parlò perfino - e la cosa fece correre un brivido di spavento - di un leopardo o di un giaguaro, fuggito chissà da dove e aggirantesi, affamato e smarrito, tra i boschi ove, di notte, il freddo doveva morderlo come non mai nella sua patria lontana. Ne furono trovate le tracce presso il piccolo cimitero del paese; e i resti di alcuni caprioli sembravano tradire il suo inquietante passaggio.

Ma specialmente i cervi, da qualche tempo, sono tornati a far parlare di sé; i cervi che - a differenza dei caprioli, da sempre molto diffusi sulle colline -, a memoria d'uomo non si erano più visti se non molto più in alto, in cima alle montagne.

Ecco, li si può immaginare come se fossero qui davanti, i cervi dalle corna maestose, che escono dai boschi profondi e dalle dense zone d'ombra e traversano le radure, nella luce argentea della Luna, per scendere ai ruscelli e dissetarsi.

Ritti sulle zampe snelle, con gli orecchi tesi e le narici frementi, pronte a cogliere il minimo odore sospetto; con l'occhio sbarrato nel chiarore diffuso, simile a quello dei lampi durante un temporale notturno, i cervi vanno a bere, quasi adempiendo a un rito solenne e misterioso, cui solo pochissimi iniziati possono accedere, in punta di piedi.

 

Come la cerva assetata

Anela ai rivi delle acque,

così l'anima mia va in cerca di Te,

di Te, mio Dio.

                       (Salmo 41).

 

Simili a esseri di un altro mondo, sfilano nella notte senza quasi produrre alcun rumore: esseri di luce e di bellezza, troppo timidi ed elusivi per appartenere al nostro mondo ordinario; troppo slanciati ed eleganti, troppo leggeri e indecifrabili per essere parte della nostra sfera di realtà, legati ai nostri stessi limiti.

Paiono usciti da un mondo di fiaba, così vicino eppure così lontano dal nostro; creature meravigliose e mitologiche, come il liocorno delle leggende medioevali; fantasmi che si muovono con grazia infinita, come sfiorando il terreno, quasi che i loro zoccoli non reggessero un peso vivo e reale, ma solo un gioco di ombre evanescenti.

E le scure sagome del pino, del cipresso, del salice e del mirto, che li avvolgono e disegnano loro un cerchio tutto intorno, partecipano anch'esse del medesimo rito, della stessa magia, solidali nel segreto sussurrato dalla notte di Luna.

 

Sono sazie d'acqua le piante del Signore,

i cedri del Libano da Lui opinanti;

là i passeri fanno il nido

e sulla cima dimora la cicogna.

Sulle alte montagne vivono i cervi,

i tassi trovano rifugio nelle rocce.

                                       (Salmo 104).

 

È strano pensare che questo mondo fiabesco, fasciato nella luce argentea, è lo stesso che ora giace addormentato, dopo una ennesima giornata di cose banali e quotidiane; che questo mondo favoloso, che si protende nella notte e che par di poter sfiorare solo allungando un braccio, è il medesimo che, durante il dì, si è trascinato con fatica e noia lungo le solite strade d'ogni giorno, nel rumore e nella fretta di una vita scandita da esigenze puramente esteriori.

O forse non è lo stesso mondo?

Che rapporto c'è fra il muoversi frettoloso e inconsapevole dei giorni senza storia, con le bollette da pagare e le cento preoccupazioni familiari e di lavoro, e questo silenzio carico di contemplazione e di stupore, mentre i cervi escono dalle pieghe dense dei boschi, per andare a bere nella liturgia arcana della notte, rischiarata dai raggi lunari?

È possibile che si tratti della medesima realtà, colta in due momenti diversi; o non saranno invece due realtà distinte e incommensurabili, l'una delle quali emerge e si diffonde solo quando l'altra si inabissa dietro la linea dell'orizzonte: e, perciò, materialmente impossibilitate a coesistere e a conoscersi?

Sì: deve essere così.

E la cosa più curiosa è che entrambe queste realtà, entrambi questi mondi sono contenuti entro di noi, fanno parte del nostro paesaggio e della nostra sinfonia.

Sta a noi far sì che l'uno, esaurito il suo compito, si congedi e lasci spazio al manifestarsi dell'altro; perché, insieme, essi non possono apparire, mai.

Ma quando riusciamo ad evocare il mondo magico, nel quale vivevamo immersi da bambini che ci attende, fedele, anche nell'età adulta, se pure noi sembriamo interamente dimentichi di lui: allora si verifica il prodigio, allora ha luogo l'epifania.

L'epifania è la manifestazione del divino nella sfera del profano: un evento straordinario, quasi sconvolgente. Pure, sta a noi fa sì che esso divenga un «miracolo ordinario», ogni volta che noi sgomberiamo la mente e il cuore per fargli luogo.

E possiamo farlo; perché, in realtà, non siamo noi a farlo: dobbiamo solo riconoscere la Grazia con la quale ci si offre, eternamente nuovo ed eternamente fresco.

Come le stelle brillano sempre in cielo, ma di giorno non possiamo vederle, perché sono messe in ombra dal fulgore dell'astro diurno; ma poi, se un'eclisse di Sole ne spegne per un attimo i raggi fiammeggianti, ecco che possiamo intravedere il mistero della notte: similmente il mondo incantato, che prega incessantemente lodando l'Essere da cui erompe, è sempre vivo e palpitante entro di noi, e basta che smorziamo le luci artificiali della fretta e della cura, per vederlo riemergere davanti al nostro sguardo, carico di sussurri e di aromi.

C'è una condizione, però: che il cuore sia puro da brame smodate e da un cieco attaccamento alle cose, alle passioni che ci tirano verso il basso.

Altrimenti, basta poco e tutto il meraviglioso spettacolo scompare; così come il più piccolo rumore può mettere in fuga i cervi scesi a bere nella luce argentea della Luna. Per non vederli scappare, occorre saper trattenere il fiato.

Ma non è una condizione troppo dura e non è poi così difficile soddisfarla: perché, una volta che l'epifania ci ha spalancato l'occhio interiore con il fulgore della sua bellezza, chi non tratterrebbe il fiato, per la magnificenza dello spettacolo che gli si offre?

 

I cieli narrano la gloria di Dio,

il firmamento proclama l'opera delle Sue mani.

Un giorno ne parla con l'altro,

una notte passa all'altra la notizia.

Non è racconto, non è linguaggio,

non è voce che possa essere intesa.

Per ogni terra ne corre la voce,

ne giunge l'eco ai confini del mondo.

                                       (Salmo 19)

 

Non è voce che possa essere intesa; o forse sì.

Forse, basta mettere a tacere gli altri rumori - quelli insignificanti o molesti, quelli gracchianti e prepotenti del «tempo profano» -; ed ecco che gli orecchi si aprono al suono della ineffabile melodia, così come gli occhi si schiudono e, finalmente, vedono.

Il mondo è popolato di cose meravigliose che aspettano soltanto di essere viste, udite, odorate, gustate e sfiorate; e noi siamo nei miliardari che ignorano di essere tali, siamo i padroni di un palazzo ricchissimo, circondato da un immenso giardino, la cui bellezza supera ogni nostra più ardente immaginazione.

Pure, preferiamo sovente inseguire una pallida contraffazione di quella bellezza, trascinandoci con pena e amarezza lungo i sentieri riarsi e polverosi di mille appetiti disordinati, oppressi da un'afa soffocante.

Curiosa scelta di vita: una sete divorante al posto della pace; una lotta continua e penosa, in luogo del riposo; mille e mille fantasmi di paure, di angosce e di desideri inconfessabili, invece dell'appagamento e del benessere.

Nondimeno, siamo ancora in tempo a ritrovare il senno e a invertire la rotta.

Non è mai troppo tardi per far tacere le voci stridule dell'ego e per lasciare che l'epifania ci si riveli in tutto il suo splendore. Non saremo mai così poveri da non poterci alzare dalla buia cantina in cui ci siamo confinati, e tornare ad ammirare il cielo stellato.

Dipende solo da noi.

Di notte, nella luce argentea della Luna, come per una misteriosa liturgia, i cervi escono dal fitto del bosco e scendono ai ruscelli, solenni e silenziosi, per recarsi a bere.