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La scomparsa dei costumi popolari in Europa, un altro passo verso il genocidio culturale

di Francesco Lamendola - 18/08/2008

 

 

Dalla nascita dello Stato nazionale in poi è in atto in tutto il mondo, a cominciare dall'Europa - che ne è stata la protagonista -, un gigantesco genocidio culturale, di cui la scomparsa delle parlate locali (dialetti e lingue minoritarie) è stata una delle prime e più evidenti manifestazioni. Tale processo è stato potentemente rafforzato dall'avvento della Rivoluzione industriale e, oggi, dalla Rivoluzione tecnologica e informatica, sicché gli effetti di questi fenomeni storici si sono sommati, accelerando il processo di sistematica distruzione delle culture locali.

Per fare solo un esempio, l'ultimo abitante dell'isola di Man parlante la lingua originaria dell'isola, il Manx (una parlata gaelica dell'antico gruppo celtico) è deceduto nel 1974; le persone che ancora parlano il Manx, quindi, se ne servono come di una seconda lingua, mentre per tutti la lingua d'uso è diventato l'inglese.

In Francia, a circa 30 milioni di Francesi «autentici» si sommano artificialmente circa 20 milioni di appartenenti ad altre nazionalità, che nel corso dei secoli hanno dovuto abbandonare la propria lingua e adottare la lingua francese: quasi 12 milioni di Occitani, più di 3 milioni di Bretoni, 2 milioni e mezzo di Alsaziani di madrelingua tedesca; e poi Corsi di lingua italiana, abitanti del Rossiglione di lingua catalana, Baschi, Fiamminghi, ecc., per non parlare degli immigrati di origine extra-europea (cfr. Louis-Jean Calvet, Linguistica e colonialismo. Piccolo trattato di glottofagia; titolo originale: Linguistique et colonialisme. Petit traité de glottophagie, 1974; traduzione italiana Mazotta editore, Milano, 1897, p. 29).

Ma esistono molti altri aspetti di questo immane disastro culturale, oltre alla scomparsa delle lingue minori (e, tra poco, vi saranno soltanto «lingue minori», in Europa e nel mondo, ad eccezione dell'inglese).

Esisteva in ogni parte d'Europa, fino a qualche decennio fa, un ricchissimo patrimonio di canti e danze popolari; di fiabe, leggende, proverbi; di edilizia e architettura rustica; di tovaglie, coperte, tappeti e, in genere, tessuti a mano; di artigianato in legno e in altri materiali «poveri»; di costumi popolari. Per limitarci a questi ultimi, possiamo senz'altro affermare che camicie, casacche, pantaloni, gonne e scialli da festa costituivano uno splendido corredo, di cui tutte le famiglie contadine, anche le più povere, erano - in varia misura - dotate; e, sovente, si trattava di capi realizzati con una perizia tecnica e con un senso estetico così spiccati, da farne delle vere e proprie opere d'arte.

La scomparsa dei costumi popolari - come quella dell'edilizia rurale, dell'artigianato contadino e come la progressiva erosione degli stessi dialetti e delle lingue minoritarie - è la conseguenza della morte della civiltà patriarcale: un crimine silenzioso che si è svolto letteralmente sotto i nostri occhi, e senza che nessuno - intellettuali in testa - muovesse un dito o levasse un gemito per richiamare su di esso l'attenzione del mondo della cultura.

Solo pochissimi scrittori - come Ferdinando Camon -, negli anni ruggenti del boom economico e del cosiddetto benessere, hanno avuto la lucidità e il coraggio di denunciare quel crimine; e solo pochissimi hanno avuto la fierezza di sdegnare il successo «facile» per continuare a scrivere in una lingua parlata solo da una comunità ristretta, come il poeta gradese Biagio Marin (cfr. il nostro saggio Le dimensioni del sacro e del ricordo s'intrecciano al quotidiano nella poesia di Biagio Marin, sempre sul sito di Arianna Editrice).

Qualche altro, come Pier Paolo Pasolini, ha affiancato la produzione letteraria in lingua madre (le poesie giovanili in friulano) alla prevalente produzione nella lingua dello Stato-nazione (l'italiano). Pasolini, per altro, ha concentrato la sua analisi sul fenomeno socio-culturale della omologazione del sottoproletariato cittadino ai nuovi riti e miti della società consumistica; mentre nel suo Friuli intere borgate di montagna venivano abbandonate per sempre dai loro abitanti, nell'indiffenza più totale delle pubbliche autorità e del mondo della cultura (cfr. il nostro articolo: Una pagina al giorno: Così muore un paese, di Alcide Paolini).

 

Tornando all'ambito espressivo dei costumi popolari, basta visitare un museo etnografico - come, ad esempio, il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Udine - per rendersi conto di quale immensa perdita la nostra società abbia subito con l'avvento degli abiti fabbricati in serie e con la perdita definitiva e irreparabile delle abilità, tramandate da innumerevoli generazioni, che presiedevano alla confezione degli indumenti propri della civiltà contadina.

Scrive Jelka Radaus Ribarić, del Museo Etnografico di Zagabria, nella Introduzione  al bel libro da lui curato Costumi popolari della Croazia, Editore Spektar, Zagreb, 1975):

 

Il costume portato dalla popolazione di una zona determinata si comporta come un organismo vivente, aderente all'ambiente in cui si trova. Esso si fonde col paesaggio della località, scopre quali sono le attività economiche del luogo, racconta quali sono le condizioni climatiche, esprime la prosperità della comunità della grande famiglia, senza riguardo alle condizioni economiche dei singoli. Il costume popolare porta con sé anche i segni degli avvenimenti storici che abbiano avuto importanza  e abbiano contribuito a conferirgli la forma che ha. Il costume popolare è infine lo specchio dell'abilità, del livello raggiunto dal popolo nel campo dell'arte, perché esso ha trovato in questo requisito indispensabile alla vita il mezzo attraverso il quale ha espresso le sue aspirazioni profonde per dare corpo alla sua aspirazione verso la bellezza. Tre fattori, e cioè l'ambiente naturale, l'influsso storico culturale e l'inclinazione originale sono sempre presenti nella forma del costume popolare e perciò esso rappresenta uno dei momenti più completi dell'attività popolare.

Ma il vestiario creato nel corso dei secoli dal popolo non ha valore soltanto pratico e non esprime soltanto le aspirazioni verso la creazione plastica, ma contiene in se stesso un senso ancora più profondo, un senso di irrealtà e di magia, a cui si sottomette spesso anche la componente pratica e quella figurativa. Oltre a tutto, il modo di vestire di un ambiente paesano chiuso contiene anche determinate norme formatesi  nella tradizione secolari, le regole alle quali il popolo si attiene scrupolosamente, con rarissime eccezioni. Per queste norme consacrate dalla tradizione popolare, il costume acquista anche un valore sociale: esso indica infatti anche lo stato sociale del singolo all'interno della comunità del villaggio, anzi il segno esterno, visibile, di questa posizione, quasi fosse una carta d'identità di ogni membro della comunità, e specialmente delle donne. Ogni fase vitale, ogni avvenimento e ogni mutamento importante nella vita, a cominciare dalla fanciullezza, alla giovinezza, al fidanzamento e alle nozze, ai primi anni dopo il matrimonio, la maternità, l'età matura e la vedovanza, tutto questo si può leggere spesso nel modo come la donna si veste.

Se poi, oltre a quanto si è detto del costume popolare, si tiene conto delle differenze esistenti fra il costume di ogni giorno, per il lavoro, e quello festivo e se si considerano le numerose varianti previste e prescritte per le varie occasioni e abitudini, solo allora si comprende quale è la ricchezza dei vari tipi e sottotipi che si incontrano fra il popolo, quale sia la abbondanza di questo tesoro popolare, tesoro che aspetta ancora di essere scoperto e studiato per giudicare di tutti i valori che contiene nel suo seno.

 

Sono osservazioni valide in senso generale, e non solo per una singola area culturale (in questo caso, quella croata: frutto, a sua volta, dell'incontro di ben quattro zone etnografiche: pannonica, dinarica, adriatica e alpina).

Particolarmente acuta ci sembra la considerazione che «il costume portato dalla popolazione di una zona determinata si comporta come un organismo vivente», e che esso tende ad aderire strettamente all'ambiente in cui si sviluppa.

Esso, in altri termini, non è una semplice «cosa» inerte, ma un elemento vivo, che non risponde - come osserva giustamente Jelka Radaus Ribarić, a un  «valore soltanto pratico», e che, inoltre, «non esprime soltanto le aspirazioni verso la creazione plastica, ma contiene in se stesso un senso ancora più profondo, un senso di irrealtà e di magia, a cui si sottomette spesso anche la componente pratica e quella figurativa».

Questo, a nostro avviso, è un punto molto importante.

Il costume popolare - come, del resto, ogni altra manifestazione della cultura popolare - nasce, certamente, dalla necessità di soddisfare determinate esigenze di ordine pratico, ma non si esaurisce in esse.

Poiché l'etnografia e l'antropologia hanno risentito, come e forse più delle altre scienze, gli effetti della grande ondata positivistica che si è insediata da padrona, dall'Ottocento a oggi, nel panorama culturale europeo, a ben pochi studiosi si è affacciata l'idea che la civiltà contadina, legata alla terra, potesse concepire e realizzare dei prodotti che trascendessero, in qualche modo, lo scopo di utilità immediata per cui venivano realizzati.

Ma ciò era frutto di un grave fraintendimento delle stesse basi, spirituali e materiali, della civiltà contadina: la quale, a dispetto dei dogmi scientisti degli antropologi universitari, non è mai stata una civiltà materialistica, neppure nelle congiunture più difficili dell'esistenza materiale (carestie, epidemie, emigrazioni). E ciò per almeno due buone ragioni: primo, perché il mondo contadino è sempre stato essenzialmente religioso, dunque intimamente consapevole del limite umano e aperto al mistero della trascendenza; secondo, perché esso era, sì, veicolo di una tradizione che, da un punto di vista cittadino e industriale, poteva anche apparire «statica», ma che, in realtà, evolveva anch'essa, sia pure più lentamente, e quindi si arricchiva costantemente dell'apporto di creatività del singolo individuo.

Nel modo di produzione industriale, l'elemento innovativo è affidato agli stilisti, i quali sono «costretti», dalle esigenze del mercato, a rivoluzionare continuamente le mode, in modo che il consumatore non possa mai servirsi troppo a lungo dello stesso capo di vestiario o dello stesso paio di scarpe. La filosofia di fondo dell'industria dell'abbigliamento è - come per ogni altro ramo dell'industria in economia capitalista - massimizzare il consumo del prodotto, riducendo quest'ultimo alla dimensione unica di «merce».

Al contrario, la filosofia di fondo che ispirava il modo di produzione artigianale, proprio della civiltà contadina, era quella di massimizzare la durata del prodotto, che non era propriamente una merce, sia perché veniva, generalmente, fabbricato in casa, sia perché svolgeva altre funzioni oltre a quella dell'uso immediato: ad esempio, come abbiamo visto, di fornire una serie di informazioni assai precise circa la condizione sociale e personale di colui, o colei, che indossava un determinato vestito.

Si obietterà che questa funzione è svolta anche dalla moda odierna, ad esempio con i pantaloni strappati «ad arte», con le borchie sui giubbotti di pelle, con i tacchi a spillo delle scarpe femminili: ma con la sostanziale differenza che, in questi casi, si tratta di informazioni «ideologiche», afferenti la sfera dei desideri di colui che si abbiglia in un certo modo; mentre, nella civiltà contadina, si trattava di informazioni oggettive, illustranti la realtà fattuale.

Ora, lo scopo della produzione degli oggetti nell'ambito della civiltà contadina - che  si trattasse di edificare una casa, di confezionare un vestito o di intagliare una cassapanca - era, sì, quello di renderli atti a svolgere la loro funzione specifica e, inoltre, di durare nel tempo quanto più possibile; ma anche quello di allietare la vita mediante la fantasia, la creatività, il senso estetico di colui, o colei, che li fabbricava.

Ecco perché, quando si parla di costumi popolari - o di abitazioni rustiche, o di tessuti a mano -, riesce tanto difficile (e imbarazzante) decidere se inquadrarli nell'ambito dell'artigianato o in quello dell'arte.

Rientrerebbero nell'ambito dell'artigianato quanto alla destinazione specifica (che è sempre di tipo pratico); ma in quello dell'arte se si considerano l'inventiva, la fantasia e il vivissimo senso estetico con cui, spesso, venivano realizzati.

Chi potrebbe tracciare una netta linea di demarcazione fra i due ambiti, nel caso dei prodotti della civiltà contadina?

La separazione categorica fra «arte» (nobile, perché disinteressata) e «artigianato» (plebeo, perché «interessato») è interamente frutto del mondo cittadino, borghese, commerciale, abituato a quantificare tutto e a dare un prezzo - ma non un valore - a ogni cosa. Essa è stata avallata, se non addirittura codificata, da quegli specialisti del sapere teorico che sono i professori universitari: persone imbevute di pregiudizi materialisti e scientisti, le quali non sapevano niente della civiltà contadina, e niente volevano saperne, perché la guardavano - oltretutto, con occhio distratto - dall'alto in basso.

La verità è che, quando si prendono in esame moltissimi prodotti della civiltà contadina, e non solo materiali (si pensi alle canzoni, alle danze, ai racconti orali), bisogna aver chiaro nella mente  che la sfera dell'uso pratico era inglobata in quella spirituale, che informava di sé ogni dimensione dell'esistenza. Non vi era, quindi, una distinzione rigida fra l'ambito della vita materiale e la dimensione trascendente; non più di quanto sia possibile stabilire una rigida distinzione fra il concetto di lingua e quello di dialetto (cosa che perfino i linguisti di formazione accademica si guardano bene dal tentare).

E questo perché la vita, nella civiltà contadina, pur con tutti i suoi aspetti negativi, che certo non mancavano (non vogliamo farne, infatti, una esaltazione acritica e passatista, né cadere nella velleitaria contrapposizione roussoiana di «natura» e «cultura»), era pur sempre una vita organica, che investiva ogni aspetto della persona e che collegava strettamente l'individuo alla comunità.

Cosa che non si può certo dire della tanto decantata civiltà moderna, con tutte le sue luci scintillanti, il suo preteso benessere e le smisurate aspettative delle quali si autoalimenta, ma che - nonostante il suo frenetico dinamismo - non è mai in grado di soddisfare, generando così frustrazione, nevrosi e un alto livello di conflittualità permanente.