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Soffocati dalle cose non dette riempiamo il silenzio d'inutili rumori

di Francesco Lamendola - 18/08/2008

 

 

Le parole più importanti della nostra vita sono quelle che non abbiamo mai avuto il coraggio di pronunciare, neanche a noi stessi, nel silenzio della coscienza.

Se questo è vero - e crediamo che sia vero, almeno per la grande maggioranza degli esseri umani e per la quasi totalità della nostra vita -, allora la conclusione è a dir poco sconvolgente: significa, né più né meno, che abbiamo sprecato quasi tutte le occasioni di essere noi stessi, di esprimere quel che andava detto, di essere leali davanti al nostro dovere di comunicare col mondo - e anche con la parte più vera e profonda del nostro essere.

Ci siamo già occupati, in termini generali, del dramma delle «vite mancate» e delle loro implicazioni sul piano esistenziale (cfr. F. Lamendola, La vita «mancata» come problema filosofico, consultabile sul sito di Arianna Editrice), concludendo che l'essere umano è oggetto di una duplice chiamata: quella relativa all'esistenza (come tutti gli altri enti) e quella relativa al senso che egli può e deve dare alla propria esistenza (a differenza di tutti gli altri enti, o almeno di quelli esperibili mediante i sensi).

Così pure, abbiamo già avuto occasione di riflettere sul problema della vita etica - di cui la parola è una espressione notevole - nel saggio Il grido della coscienza ferita è una invocazione al reintegro nell'Essere (sempre sul sito di Arianna). In quella sede, avevamo sostenuto che, per agire rettamente, è necessario vedere rettamente: vedere l'Essere come è in se stesso, in modo veridico e non deformato; e, in secondo luogo, accordare la volontà con la conoscenza, indirizzandola nel senso dell'azione etica così come la verità dell'Essere ce la indica, alla luce del valore. E avevamo concluso che la meta dell'anima non è il soddisfacimento dei suoi bisogni estemporanei, ma il ritorno alla dimora dell'Essere; e che, di conseguenza, finché il grido dell'anima ferita si leva nel buio della coscienza sofferente, vi è ancora una possibilità di redenzione; ma allorché quel grido viene messo a tacere del tutto, l'anima è perduta.

Dunque, perché la nostra vita acquisti un senso, è necessario che si accordi con l'itinerario del ritorno verso l'Essere; e, perché la nostra anima risponda degnamente alla propria chiamata, bisogna che noi impariamo a pronunciare le parole importanti, che contano, invece di stordirci con mille rumori che hanno la sola funzione di coprire il richiamo dell'Essere.

Il grido della coscienza ferita è già una parola significativa, perché mette a nudo la nostra sofferenza e la nostra impotenza, strappando il velo ipocrita delle «buone maniere» e consegnandoci alla consapevolezza della nostra povertà, della nostra debolezza e della nostra inadeguatezza. È un momento di sincerità dolorosa, brutale, che ci libera dalla condizione di manichini bene ammaestrati e ci restituisce alla nostra condizione di esseri umani, che sentono nella propria carne il pungiglione dell'insufficienza della misura terrena. È il primo passo verso la scoperta della trascendenza; ma, di per sé, non è affatto sufficiente e non conduce ad alcuna liberazione, se rimane chiuso in se stesso.

Perché il grido si articoli in parola discorsiva, perché divenga reale comunicazione con gli altri e con l'Altro, e non rimanga un semplice sfogo, per quanto umano e degno di rispetto, è necessario che la coscienza ferita vada oltre la propria indigenza e la propria angoscia.

E quale coscienza non viene ferita dalla vita, prima o poi? Quale coscienza può dire di non aver mai ricevuto il vulnus che le rivela tutta la sua fragilità?

Eppure, bisogna evitare le sterili secche dell'amarezza e compiere un salto di qualità, per proiettarsi al di là delle cause contingenti del proprio turbamento, cogliendo le ragioni ultime, strutturali, della nostra finitezza e della nostra relazione con l'Assoluto (cfr. il precedente articolo Oltrepassare la delusione per non sciupare la bellezza del mondo). Tutti, prima o dopo, siamo rimasti atrocemente delusi; ma ciò non significa che il modo giusto di reagire sia quello di nascondere il nostro vero io dietro un fiume incessante di parole inautentiche, di discorsi insinceri e banali, che ci facciano da schermo, peraltro illusorio, contro nuove delusioni.

È necessario, infatti, che noi portiamo nel mondo non la nostra delusione, la nostra amarezza ed il nostro rancore, ma bensì la nostra freschezza, il nostro entusiasmo e la nostra capacità di scorgere lo splendore del mondo, ovunque profuso da un ospite tanto generoso, quanto discreto e rispettoso della nostra autonomia. Solo se riusciremo a conoscerci con onestà, a perdonarci senza vigliaccheria e a volerci bene senza eccessive indulgenze, potremmo partecipare al dono di tutta quella bellezza in cui siamo immersi, e che - tanto spesso - non riusciamo neppure a vedere.

 

Probabilmente, per un insieme di paura, amarezza, calcolo e astuzia a buon mercato, non abbiamo mai detto le parole che dovevamo dire alla nostra donna o al nostro uomo, ai nostri genitori, ai nostri figli, ai nostri amici.

Abbiamo sempre parlato di stupidaggini, eludendo l'essenziale.

Queste persone, che diciamo di amare e rispettare, probabilmente non hanno mai udito uscire dalle  nostre labbra le uniche parole che erano in diritto di ascoltare; le uniche parole che avremmo avuto il dovere di dire loro.

E la nostra pusillanimità si spinge al punto che, molto probabilmente, quelle parole di verità non abbiamo avuto il coraggio e la franchezza di dirle nemmeno a noi stessi, nell'intimità inaccessibile della nostra coscienza.

 

Ma forse non è troppo tardi per cambiare.

Il primo passo, se veramente siamo stufi e nauseati da tutta la nostra inautenticità, dovrà essere quello di imporre il silenzio nel rumore incessante - e per lo più inutile - della nostra esistenza; rumore che noi stessi, in buona parte, provochiamo, per non dover sentire le parole di verità con le quali talvolta gli altri, e sempre l'Altro, ci interpellano.

In genere, noi abbiamo una gran paura del silenzio. Appena arriviamo a casa, accendiamo la radio o la televisione, per sentire parole che facciamo finta di credere importanti, allo scopo di non udire quelle che lo sono davvero: la domanda con cui l'Essere ci chiama, e la risposta che noi dovremmo dargli - e che è, poi, la risposta che dovremmo dare anche alla parte più vera di noi stessi.

Invece abbiamo una tale paura di udire quelle parole, che faremmo qualunque cosa, letteralmente,    pur di non sentirle.

Ma quali sono queste parole di verità, che da un lato non vorremmo udire, dall'altro non siamo disposti a pronunciare?

Ciascuno di noi le sa, in fondo alla propria coscienza; e ciascuno di noi può udirle, se appena si decide a fare un po' di silenzio e ad abbassare le proprie difese. Per ciascuno hanno un contenuto diverso; pure, se volessimo individuarne il denominatore comune, potremmo dire che hanno a che fare con il dovere di essere se stessi, di ringraziare la ricchezza del mondo, di lodare la sapienza del disegno complessivo in cui sono tessute le nostre vite. Variano, da un individuo all'altro, i dettagli; ma il tono generale è il medesimo: impegnarsi alla fedeltà verso la propria chiamata, ringraziare, lodare.

Si dirà che non sempre la sincerità è una virtù; che, a volte, tacere è meglio che parlare; che la nostra franchezza potrebbe ferire altri.

Sono obiezioni fragili, se solo si riflette che prima è necessario stabilire un principio: quello della lealtà verso se stessi e verso l'altro; poi, si possono contemplare delle eccezioni, caso per caso, laddove se ne presenti l'opportunità o la necessità. Ma le eccezioni non possono incrinare la regola; e la regola è che non bisogna temere la verità.

Il fatto è che, troppo spesso, ci siamo abituati a barare con noi stessi, a mentire a noi stressi, ad auto-ingannarci, perché avremmo troppa vergogna a guardare in faccia la realtà, a vedere fino a che punto ci siamo allontanati da ciò che avremmo dovuto fare, da ciò che avremmo potuto essere. E, nei confronti del prossimo, non siamo certo propensi a una maggiore sincerità.

Ecco, dunque, una prima, importante conclusione alla quale siamo pervenuti: non sappiamo pronunciare le parole che dovremmo dire, perché non abbiamo il coraggio di guardarci dentro; cioè, in ultima analisi, perché non ci piace quel che vediamo guardandoci; perché non siamo soddisfatti di noi stessi, non abbiamo stima di quello che siamo diventati. Anche se, a parole - parole menzognere, questa volta - sembra tutto il contrario, e non facciamo altro che lodarci.

 

Da che cosa si riconosce una persona che non si piace, che non si stima, che non ha un rapporto equilibrato e armonioso con se stessa?

In primo luogo, proprio da questo: che non è mai in grado di dire le parole che dovrebbe dire; di aprire una finestra di verità sul proprio essere, rapportandosi in maniera leale e trasparente con se stessa e con il prossimo.

La persona che non si ama e non si stima è portata alla chiacchiera, al vaniloquio, al continuo abuso del linguaggio: eccede per non essere colta in fallo, per non tradirsi; per non tradire il segreto che si porta dentro; e, cioè, che non si vuole bene.

Per volersi davvero bene, è necessario rispondere degnamente alla chiamata; scuotere la propria pigrizia, rinunciare alle furberie da quattro soldi, comprese quelle con se stessi.

Viceversa, molto spesso le persone imboccano la via opposta: soffocano il proprio disagio interiore e cercano una conferma del proprio valore da parte degli altri, e sia pure una conferma superficiale come può esserlo quella dell'attrazione fisica. È il modo più sicuro per anestetizzare quel grido della coscienza ferita che avrebbe, almeno, il benefico effetto di rivelare tutta l'intima insoddisfazione che si nasconde dietro tanti atteggiamenti narcisistici.

Non c'è niente da fare: per quanto stordita dai rumori insulsi e abbrutita dalle dissimulazioni, la coscienza rimane pur sempre un organo terribilmente esigente, che non si lascia ingannare con tanta facilità.

Non ci si può voler bene per finta. Volersi bene è una faccenda seria, che nasce solo da un atteggiamento di serietà verso se stessi. La coerenza, la lealtà, la sincerità, sono atteggiamenti seri; il nascondimento, la furbizia e la dissimulazione, non lo sono.

Non esistono maniere inautentiche di volersi bene; non esistono surrogati, espedienti o simulazioni efficaci. O ci si vuol bene, oppure no. Ma, per volersi bene, bisogna avere stima di se stessi: bisogna essere capaci di guardarsi nello specchio dritto in viso, senza provare la tentazione di abbassare gli  occhi.

Farsi ammirare dagli altri per la propria avvenenza fisica, per la propria ricchezza o per il potere che si esercita, è la scorciatoia più facile, ma non serve a nulla; non aiuta a stare veramente meglio con se stessi, a riconciliarsi con la propria coscienza.

A qualcuno può sembrare che la coscienza sia un lusso di cui si può fare a meno, e che si può vivere  benissimo anche ignorandola e mettendone a tacere la voce. E, di fatto, vi sono individui talmente induriti nel compiacimento della propria finitezza, che riportare in luce il loro io più autentico è una durissima impresa, quasi come scavare a mani nude nella viva roccia.

Pure, i casi di una coscienza totalmente sradicata e di una esigenza trascendente del tutto rimossa,  sono estremamente rari.

Per la stragrande maggioranza degli esseri umani, per quanto sprofondati nel buio di un edonismo che è solo il rovescio della medaglia della nausea di sé, c'è sempre la possibilità di rientrare in possesso della parte migliore di se stessi, ascoltando le parole della chiamata e rispondendo con le parole del ringraziamento e della lode.

Queste, in fondo, sono le vere parole degne di un essere umano. Non la chiacchiera insulsa, la lusinga insincera, l'imprecazione, il lamento o la bestemmia; ma il alla chiamata e la gratitudine nei confronti della vita. Tutto il resto è un di più, talvolta gradevole; ma solo questo è l'essenziale.