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La convivialità

di Ivan Illich - 03/02/2006

Fonte: altraofficina.it

 

La introduzione al volume "La convivialità" di Ivan Illich

L'idea di una analisi multidimensionale del sovrasviluppo industriale l'ho formulata per la prima volta nel 1971 in un documento di lavoro redatto insieme a Valentina Borremans come testo-base per un convegno latinoamericano tenuto al Centro intercultural de documentaciòn (Cidoc) nel gennaio 1972.

Una versione francese, rielaborata in occasione dello Zeno Symposium organizzato a Cipro dal professor Richard Wollheim, fu pubblicata nel marzo 1972 nella rivista “'Esprit”; dove fu oggetto di un dibattito.

La stesura di questo libro fii occasionata dalla mia partecipazione a una conferenza di giuristi e parlamentari canadesi tenutasi a Ottawa nel gennaio 1972 per discutere l'orientamento della legislazione canadese nel prossimo decennio. Questo fatto, e la collaborazione dell'amico Greer Taylor, spiegano il costante riferimento e l'importanza attribuita alla Common Law in tutta la trattazione.

Lo stesso servì poi come base per una serie di seminari tenuti al Cidoc e in India, e dai quali mi vennero numerose critiche e preziosi suggerimenti, in particolare da J. P. Naik. I partecipanti a questi seminari riconosceranno le loro idee, talvolta riprese alla lettera, e ad essi esprimo qui la mia viva gratitudine, specialmente per i loro contributi scritti.

Le bibliografie, gli appunti di lavoro, le analisi critiche eccetera, che, a vari gradi di completezza e utilità, sono servite da materiali e punti di riferimento per questo studio, sono disponibili presso la biblioteca del Cidoc e nella serie di documenti che il Centro pubblica regolarmente.

A distanza di nove mesi ho poi scritto due versioni destinate alla pubblicazione: una in inglese l'altra in francese.

Questo testo italiano non un è un nuovo rifacimento, ma neppure una semplice versione del testo francese: incorpora infatti le mie risposte alle osservazioni puntuali, rispettose e congeniali del mio editore italiano, Donato Barbone.

 

Ivan Illich

Centro intercu'tural de documentacion

Cuernavaca (Messico)

 

Introduzione

Nel corso dei prossimi anni mi propongo di lavorare a un epilogo dell'età industriale. Vorrei tracciare il profilo delle storture e delle ipertrofie intervenute nel linguaggio, nel diritto, nei miti e nei riti, in quest'epoca nella quale uomini e prodotti sono stati assoggettati alla pianificazione razionale. Vorrei ritrarre come è venuto declinando il monopolio del modo di produzione industriale, e la metamorfosi subita dalle professioni che esso genera e nutre.

Soprattutto intendo dimostrare questo: che i due terzi dell'umanità possono ancora evitare di passare per l'età industriale se sceglieranno sin d'ora un modo di produzione fondato su un equilibrio postindustriale, quello stesso al quale i paesi sovraindustrializzati dovranno ricorrere di fronte alla minaccia del caos. E nella prospettiva di un tale lavoro che io sottopongo questo abbozzo di analisi all'attenzione e alla critica del pubblico.

Sono parecchi anni che mi occupo di una ricerca critica sul monopolio del modo di produzione industriale, e sulla possibilità di definire concettualmente altri modi di produzione, postindustriali. In un primo tempo ho concentrato la mia attenzione sull'attrezzatura educativa; i risultati, pubblicati in Descolarizzare la società[1], stabilivano i seguenti punti:

  1. L'educazione universale mediante la scuola obbligatoria è impossibile.
  2. Il condizionamento delle masse attraverso l'educazione permanente non presenta grossi problemi tecnici ma, moralmente, è ancor meno accettabile della scuola di vecchio tipo. Nuovi sistemi educativi sono ormai prossimi a soppiantare i sistemi scolastici tradizionali, nei paesi ricchi come in quelli poveri. Si tratta di strumenti di condizionamento massicci ed efficaci, capaci di produrre in serie manodopera specializzata, consumatori di cultura docili e disciplinati, utenti rassegnati. Sono sistemi che rendono redditizio il processo educativo, generalizzandolo al livello di tutta una società. Possiedono indubbie attrattive, ma sotto queste attrattive celano una profonda distruttività: tendono infatti a dissolvere, in maniera ancor più sottile e implacabile della scuola, i valori più essenziali.
  3. Una società che voglia ripartire equamente tra i suoi membri l'accesso al sapere, e consentire loro una reale partecipazione al processo produttivo, deve stabilire dei limiti pedagogici alla crescita industriale, mantenendo tale crescita al di qua di determinate soglie psicologicamente critiche.

L'analisi dell'apparato educativo di ogni società fondata sull'espansione del modo di produzione industriale mi ha aperto la strada alla scoperta dei limiti non-ecologici di questa espansione. Lo sviluppo del sistema scolastico obbligatorio mi è parso infatti l'esempio-tipo di una situazione che si ritrova anche in altri ambiti della società industriale, dovunque si tratti di produrre un servizio, cosiddetto di pubblica utilità, per soddisfare un bisogno cosiddetto elementare. Sono così passato ad analizzare il sistema di assistenza medica obbligatoria e quello dei trasporti che, oltrepassata una certa soglia, divengono anch'essi, a loro modo, forzosi; e sono arrivato a convincermi che la sovrapproduzione industriale di un servizio ha, inevitabilmente, effetti secondari non meno catastrofici e distruttivi della sovrapproduzione di un bene di consumo. Esiste cioè una serie di limiti alla crescita dei servizi di una società: come nel caso delle merci, questi limiti sono inerenti al processo di crescita e quindi inesorabili. La riorganizzazione del sistema industriale di produzione e di distribuzione che si preannuncia per il prossimo decennio, e che si ispira principalmente a limitazioni nell'uso di carburanti e ad analoghe considerazioni ecologiche, è destinata a fallire.

Bisogna prender coscienza al più presto che i limiti da porre allo sviluppo devono riguardare tanto i beni quanto i servizi, prodotti industrialmente. Ed è la serie di questi limiti che bisogna scoprire e rendere manifesta.

Per analizzare il rapporto tra l'uomo e il suo strumento, io propongo qui il concetto di equilibrio multidimensionale della vita umana. In ognuna delle sue dimensioni, questo equilibrio corrisponde a una certa scala naturale. Quando un attività umana esplicata mediante strumenti supera una certa soglia definita dalla sua scala specifica, dapprima si rivolge contro il proprio scopo, poi minaccia di distruggere l'intero corpo sociale. Occorre dunque determinare con chiarezza queste scale naturali e riconoscere le soglie che delimitano il campo della sopravvivenza umana.

La società, una volta raggiunto lo stadio avanzato della produzione di massa, produce la propria distruzione. La natura viene snaturata. Sradicato, castrato nella sua creatività, l'uomo è rinserrato nella propria capsula individuale. La collettività è governata dal gioco combinato di una polarizzazione estrema e di una specializzazione a oltranza. L'affannosa ricerca di modelli e prodotti sempre nuovi, cancro del tessuto sociale, accelera a tal punto il mutamento da escludere ogni ricorso ai precedenti come guida per l'azione. Il monopolio del modo di produzione industriale riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti. E tutto questo in misura non più tollerabile. Poco importa che si tratti di un monopolio privato o pubblico: la degradazione della natura, la distruzione dei legami sociali, la disintegrazione dell'uomo non potranno mai servire a uno scopo sociale.

Le ideologie oggi correnti mettono in luce le contraddizioni della società capitalista, ma non forniscono il quadro necessario per analizzare la crisi del modo di produzione industriale. Mi auguro che un giorno si arrivi a formulare una teoria generale dell'industrializzazione abbastanza rigorosa da reggere all'assalto della critica. Per poter funzionare, questa teoria dovrà esprimere i propri concetti in un linguaggio comune a tutte le parti in causa, in modo che i criteri da essa definiti concettualmente siano altrettanti parametri su scala umana: strumenti di misura, mezzi di controllo, guide per l'azione. Si potranno allora valutare le tecniche disponibili e le diverse programmazioni che esse implicano. Si determineranno le soglie di nocività dell'attrezzatura sociale, il punto in cui questa si rivolge contro il proprio fine o minaccia l'uomo; si limiterà il potere dello strumento. Si inventeranno le forme e i ritmi di un modo di produzione postindustriale e di un nuovo mondo sociale.

Vorrei che questo saggio contribuisse alla formulazione di una tale teoria chiarendo almeno un punto: come esistano delle tecniche ipertrofiche nell'uso di energia o d'informazione, la cui stessa struttura ingenera rapporti di sfruttamento e di dominio nelle società che le adottano. Non è facile immaginare una società in cui l'organizzazione industriale sia equilibrata e compensata da modi di produzione complementari, distinti e ad alto rendimento. Siamo talmente deformati dalle abitudini industriali che non osiamo più scrutare il campo del possibile, e l'idea di rinunciare alla produzione di massa di tutti gli articoli e servizi è per noi come un ritorno alle catene del passato o al mito del buon selvaggio. Ma se vogliamo ampliare il nostro angolo di visuale, adeguandolo alle dimensioni della realtà, dobbiamo ammettere che non esiste un unico modo di utilizzare le scoperte scientifiche, ma per lo meno due, tra loro antinomici.

C'è un uso della scoperta che conduce alla specializzazione dei compiti, alla istituzionalizzazione dei valori, alla centralizzazione del potere: l'uomo diviene l'accessorio della megamacchina, un ingranaggio della burocrazia. Ma c'è un secondo modo di mettere a frutto I invenzione, che accresce il potere e il sapere di ognuno, consentendo a ognuno di esercitare la propria creatività senza per questo negare lo stesso spazio d'iniziativa e di produttività agli altri.

Se vogliamo poter dire qualcosa sul mondo futuro, disegnare i contorni di una società a venire che non sia iperindustriale, dobbiamo riconoscere l'esistenza di scale e limiti naturali. L'equilibrio della vita si dispiega in varie dimensioni; fragile e complesso, non oltrepassa certi limiti. Esistono delle soglie che non si possono superare. La macchina non ha soppresso la schiavitù umana, ma le ha dato una diversa configurazione. Infatti, superato il limite, lo strumento da servitore diviene despota. Oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione. Occorre individuare esattamente dove si trova, per ogni componente dell'equilibrio globale, questo limite critico. Sarà allora possibile articolare in modo nuovo la millenaria triade dell'uomo, dello strumento e della società. Chiamo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni.

Parlando di «convivialità» dello strumento mi rendo conto di dare un senso in parte nuovo al significato corrente della parola. Lo faccio perché ho bisogno di un termine tecnico per indicare lo strumento che sia scientificamente razionale e destinato all'uomo austeramente anarchico. L'uomo che trova la propria gioia nell'impiego dello strumento conviviale io lo chiamo austero. Egli conosce ciò che lo spagnolo chiama la convivencialidad, vive in quella che il tedesco definisce Mitmenschlichkeit. L'austerità non significa infatti isolamento o chiusura in se stessi. Per Aristotele come per Tommaso d'Aquino, è il fondamento dell'amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l'austerità[2] come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali. L'austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l'eutrapelia, l'amicizia.


[1] Mondadori, Milano, 1972.

[2] « Austeritas secunduin quod est virtus non escludit onines delectationes sed superfluas et inordinatas: unde videtur pertinere ad affabilitatem: quam Philosophus, lib. 4Ethic. cap. VI amicitiam nominat, vei ad eutrapeliani, sive jocunditatem. » (Somma Theologica, ha IIae, q. 168, art. 4, ad 3 m.)