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La danza della pioggia

di Marco d'Eramo - 01/09/2008

 

Mai avremmo pensato che il nostro naso offrisse una presa tanto facile. È un anno esatto che ogni mese ci ricantano lo stesso ritornello ogni volta fiduciosi che noi ci cadiamo come broccoli. Ad agosto dell'anno scorso, quando scoppiò la bolla dei mutui subprime, ci dissero che sì, segnali di recessione erano innegabili, ma la crisi si sarebbe risolta presto, e comunque sarebbe stata di bassa intensità. Poi qualcuno riesumò il termine stagflazione, come fosse una parolaccia.

Di solito l'inflazione coincide con la crescita, mentre la stagnazione economica va di pari passo con la deflazione: la stagflazione è l'aberrante situazione in cui si hanno insieme stagnazione e inflazione. Nel novembre 2007, a New York giuravano che una stagflazione sarebbe stata impossibile negli Usa perché le industrie straniere non avrebbero ricaricato sui clienti americani la svalutazione del dollaro, ma avrebbero mantenuto i prezzi bassi (avrebbero cioè fatto dumping) per non perdere quote di mercato; e che comunque un crollo dei consumi in Usa avrebbe provocato un ribasso generalizzato delle materie prime (dopo un anno l'inflazione è record e l'economia Usa è in piena stagnazione): la stessa canzoncina ci è stata fischiettata due settimane fa, quando il petrolio è sceso dai 147 dollari a circa 110: ma ieri è già tornato sopra i 119, cioè sempre il 70% in più rispetto all'agosto 2007.

Quando poi a marzo la Federal Riserve (la Banca centrale Usa) intervenne per salvare Bearn Sterns, «i mercati» (da declinare sempre al plurale) sospirarono di sollievo, e vaticinarono che «la crisi era ormai alle spalle». Da allora non si contano le profezie oracolari che ci predicono «il peggio ormai passato», «una ripresa in vista», «la luce visibile alla fine del tunnel».

Nel frattempo la super verde è a 1,45 euro al litro, la pasta è rincarata del 30% nell'ultimo anno, i saldi estivi sono stati un flop, il turismo a Roma ha segnato un - 20% di presenze, e chi più ne ha, più ne metta. Più le previsioni incoraggianti si moltiplicano, più stiamo al verde. D'altronde non è peregrino ricordare che in periodo di crisi si scatena sempre la caccia al capro espiatorio. Fu così dopo il 1929; lo stesso sembra avvenire nella felice Italia del 2008, con cacce a romeni e zingari e l'esercito per le strade.

Come possono coesistere una situazione minacciosa e un discorso lenitivo, quasi vasellinoso? La ragione principale è che in economia le aspettative producono realtà e le profezie tendono ad autorealizzarsi: se pensiamo che l'inflazione crescerà, ci precipiteremo a comprare merci prima che esse rincarino, ma la stessa corsa agli acquisti provocherà un rialzo dei prezzi e quindi quell'aumento dell'inflazione da cui voleva premunirsi; idem se c'è un'attesa generale di recessione: se prevediamo che guadagneremo meno soldi, tenderemo a risparmiare, a procrastinare o a limitare acquisti, e così contribuiremo a rallentare l'economia provocando quella recessione che temiamo. Ecco perché l'informazione sull'economia è la più filtrata, manipolata e distorta. Perché l'informazione non riferisce sull'economia, ma la crea. Se i guru ci convincono che le cose stanno migliorando, forse aumenterà la nostra propensione a spendere, e quindi le cose miglioreranno davvero. È lo stesso motivo per cui da anni ci mentono spudoratamente sul tasso d'inflazione reale: ci vorrebbero convincere che, tra il 2001 e oggi, l'inflazione ha viaggiato solo sul 3% annuo e cioè che in 7 anni i prezzi sono aumentati meno del 25% in tutto: ma a chi la raccontano? Anche qui, la menzogna non è innocente: diffondere il tasso d'inflazione reale inciderebbe sui meccanismi di scala mobile, sul recupero del fiscal drag, sulla rivalorizzazione delle pensioni, il che aumenterebbe a sua volta l'inflazione.

La verità è che fino a oggi, con le banche centrali, «i mercati» si sono comportati come rapinatori a mano armata: con la pistola puntata sulla propria tempia hanno costantemente ricattato i governi: «O ci aiutate, o ci facciamo saltare le cervella», cioè provochiamo nelle borse mondiali un crollo da bomba H. Ogni due mesi si è ripetuta la stessa minaccia e ogni volta i banchieri centrali sono corsi in soccorso a suon di centinaia di miliardi di euro (milioni di miliardi di vecchie lire). Il soccorso è avvenuto sotto tre forme: o 1) quella - usata soprattutto dalla Banca centrale europea - che pudicamente viene chiamata «iniezione di liquidità», quasi che le economie fossero da intubare con flebo; oppure 2) un calo dei tassi d'interesse (usato soprattutto dalla Fed), e quindi una svalutazione in termini reali della propria moneta; o, infine, 3) il salvataggio vero e proprio di banche e fondi, come hanno fatto la Banca centrale d'Inghilterra con la Northern Rock o la Fed stessa con Bear Sterns. In ogni caso, i soccorsi ai mercati sono stati, o sono, o saranno pagati dai contribuenti: e una parte della crisi sta proprio in questo: che stiamo tutti pagando per la folle bolla speculativa dei mutui edilizi. I tre strumenti usati dai banchieri centrali rientrano nella più pura ortodossia monetarista che, come dice la parola stessa, sostiene che l'unico intervento pubblico nell'economia debba essere quello che incide sull'offerta di moneta, attraverso il meccanismo dei tassi d'interesse o del mero conio («l'iniezione di liquidità»). Secondo Milton Friedman e la scuola di Chicago, il mercato, cioè il moto statistico browniano di miliardi di interessi ed egoismi individuali, costituisce infatti il metodo più efficiente e più razionale di allocazione e sfruttamento delle risorse. Ragion per cui qualunque azione statale di controllo o di regolamentazione dei mercati tende semplicemente a renderli più irrazionali e meno efficaci: da qui la grande fortuna del termine deregulation. La supply side economics conquistò l'egemonia del pensiero economico negli anni '70 quando la ricetta keynesiana si rivelò incapace di risolvere i problemi creati dalla prima crisi petrolifera, in particolare la stagflazione che ne seguì.

La crisi attuale consuma invece la vendetta postuma del keynesismo, poiché le pure ricette monetariste si rivelano incapaci di risolvere una crisi che combattono come un pugile che sale sul ring con un braccio legato. I decisori mondiali delle politiche monetarie si sono rifiutati infatti fino a oggi di ricorrere allo stimolo pubblico dell'economia: grandi opere, ammodernamento delle infrastrutture, più investimenti statali nell'istruzione e nell'innovazione tecnologica. La ragione per cui le ricette monetariste sono del tutto inadeguate è che in precedenza le stesse ricette hanno fatto sì che nei 7 anni scorsi, quasi ovunque nei paesi ricchi, il potere d'acquisto delle famiglie è rimasto stagnante, quando non è sceso in termini reali, pur in una fase di crescita economica. La terapia monetarista ha eliminato ogni possibile spazio di manovra da poter sfruttare invece oggi: ha cioè curato la malattia ma ucciso il paziente.

Ma la fede nel monetarismo e nella libertà «dei mercati» è così cieca, così integralista, da impedire ai nostri politici persino di solo prendere in considerazione misure alternative. E se qualcuno ci provasse, fosse pure l'astuto Tremonti, ecco che subito lo fermerebbero gli austeri banchieri di Francoforte (quelli stessi che tanto elogiavano Padoa Schioppa causandone la rovina), ricordandogli che la nostra sovranità monetaria è limitata. Il fondamentalismo liberista dei nostri governanti è la vera ragione per cui la crisi continuerà a devastare le nostre povere, private finanze, nonostante tutti i discorsi incoraggianti che ci ammanniranno con un bel sorriso ipocrita, da «vu cumprà» dell'alta finanza.