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Capire la straordinarietà dell'ordinario è la via d'accesso alla Terra Pura

di Francesco Lamendola - 03/09/2008

 

«Visto com'è la vita, si sogna la vendetta».

Queste parole terribili furono pronunciate da uno dei più grandi artisti della seconda metà del XIX secolo, il pittore Paul Gauguin, che tutti conoscono per i ritratti delle belle vahiné polinesiane e per aver fermato sulla tela le luci, i colori, la sensualità dei mari del Sud, lui che aveva voltato le spalle,  per sempre, all'Europa e alla sua opprimente atmosfera mercantilistica (la frase è citata nel libro di Colin Wilson e Donald Seaman, Il libro nero dei serial killer, Newton Compton Editori, Roma, 2006, p. 246).

Si tratta di un pensiero che bene esprime, a nostro avviso, una delle caratteristiche fondamentali della modernità: il senso diffuso di frustrazione e di amarezza, la cocente delusione rispetto alle aspettative con cui un numero crescente di persone si pongono di fronte alla vita, sentendosi defraudate se non riescono a realizzarle interamente.

Nelle società pre-moderne ci si riteneva fortunati se si era in grado di soddisfare i bisogni primari, se si aveva da mangiare a sufficienza, un tetto sopra la testa e un pezzo di terra - per quanto ingrato - da lavorare.

Poi è arrivata la modernità, con la rivoluzione scientifica e il suo logico corollario, la rivoluzione industriale; e l'una e l'altra hanno condotto all'avvento della società di massa, di cui la democrazia e il libero mercato (che noi occidentali, e noi soli, crediamo il punto omega dell'evoluzione storica) sono l'espressione più tipica e genuina.

A partire da quel momento, un ospite sgradito e malevolo si è insinuato nella festa della modernità, nei riti e nei miti dell'abbondanza, della prosperità, dei diritti universali (compreso quello a una vita lunga e in buona salute): la scontentezza, frutto non già di circostanze oggettive, ma di una crescente, drammatica sproporzione fra il mondo del possibile e la sfera dei desideri (cfr. il nostro precedente articolo L'aspettativa, figlia malata della modernità, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).

Così, soddisfatti i bisogni primari (il cibo), ci si è rivolti ai secondari (l'abitazione, i mezzi di sostentamento); soddisfatti anche questi, ai terziari (affettività e sesso). Da ultimo, l'aspettativa si è diretta verso il quarto livello del desiderio: quello del riconoscimento sociale, del senso di potenza e di dominio sugli altri.

Ma, se è relativamente facile - in una società come la nostra - soddisfare i primi due livelli, e forse anche il terzo, per il quarto le cose stanno altrimenti. Solo una piccolissima percentuale di individui possono raggiungere posizioni eminenti nella società, attraverso la ricchezza, la carriera politica, l'arte e lo spettacolo. Per tutti gli altri, fama e potere confinano inevitabilmente con la barriera dei sogni: sogni carichi di rimpianto e di rancore, dal momento che l'intera struttura dei media non fa che agitare davanti al naso degli esclusi e dei delusi il miraggio di ciò verso cui vanamente si protendono.

In una certa misura, questo supplizio di Tantalo vale anche per i bisogni del terzo livello. Perché la cosiddetta liberazione della donna, con la relativa esposizione permanente del corpo femminile seminudo, crea una carica di desiderio erotico che sfocia in un reciproco, gioioso appagamento dei due sessi quasi soltanto sullo schermo del cinema di tipo commerciale o nelle pagine dei romanzieri di infimo ordine. Per la gran maggioranza degli uomini e donne del mondo reale, la tensione sessuale esasperata non trova uno sfogo soddisfacente e degenera in frustrazione, ansia, nevrosi e perdita di autostima.

Siamo giunti, così, a una situazione decisamente paradossale. Nel momento in cui mai come prima la soddisfazione di ogni sorta di bisogno e di desiderio sembra a portata di mano, i membri della nostra società scoprono con raccapriccio (ammesso che se ne rendano conto con chiarezza) che la soglia dell'aspettativa è proiettata sempre un po' più in là del traguardo, per quanti sforzi essi facciano per raggiungerla.

Il risultato di tutto ciò è che l'individuo, pur avendo accesso a una quantità di beni e servizi impensabili fino a pochi anni prima, si trova stretto nelle angustie di un nuovo tipo di indigenza, di una sete di appagamento destinata a rimanere insoddisfatta.

Per uno che ce l'ha fatta, che è riuscito a conquistare potere e celebrità - soprattutto celebrità -, ve ne sono mille, diecimila che restano esclusi e che si sentono defraudati ingiustamente di un loro diritto. Assolutamente logico: se accedere al potere e alla celebrità è solo questione di scaltrezza e determinazione e non di autentico talento in un campo specifico (scienza, arte, spettacolo), allora perché il mio vicino sì e io no? Che cosa ha lui (o lei) più di me, che io non possiedo in eguale o maggior misura?

Ne deriva uno stato di rancorosità permanente, di aggressività sempre pronta a esplodere, di invidia, rabbia e frustrazione incancrenite e divenute ormai una seconda pelle, quasi una seconda natura, per milioni e milioni di individui.

Rabbia e rancore, poi, si autoalimentano continuamente di ciò che mangiamo, dell'aria che respiriamo, dei pensieri e delle parole dei quali è intessuto il nostro io.

Prendiamo il caso dell'alimentazione: la maggior parte di noi si nutre di sostanze nocive, ad esempio della carne di animali allevati in condizioni crudeli e, poi, uccisi per il discutibile piacere della nostra tavola. Quella carne è impregnata della sofferenza e della rabbia delle povere bestie le quali, morendo, ci consegnano le tossine del loro rancore e della loro disperazione, realizzando così una inconsapevole vendetta postuma.

Oppure prendiamo il caso delle uova di un grande allevamento industriale di pollame, dove le galline sono stipate in gabbie piccolissime e ingannate con sistemi di illuminazione che, accorciando illusoriamente le ventiquattr'ore della giornata, le stimolano a produrre un maggior numero di uova per le nostre tavole.

Come scrive il monaco buddhista Thich Nhat Hanh nel suo libro Spegni il fuoco della rabbia (titolo originale: Anger, 201; traduzione italiana di Diana Petech, Mondadori Editore, Milano, 2002, pp. 16-17):

 

La rabbia, la frustrazione e la disperazione che proviamo sono strettamente connessi con il nostro corpo e con il cibo che ingeriamo. Per proteggerci dalla rabbia e dalla violenza, dunque, dobbiamo elaborare una strategia alimentare, una strategia dei consumi. Mangiare fa parte della cultura: il modo in cui si coltivano gli alimenti, il tipo di alimenti che si mangiano e come vengono consumati sono aspetti della cultura. Le scelte che compiamo possono generare pace e alleviare la sofferenza.

Il cibo che ingeriamo può avere un ruolo molto importante nella nostra collera: potrebbe contenete collera. Quando mangiamo carne di un bovino con il morbo della mucca pazza, la rabbia è presente nella carne. Quando mangiamo un uovo o un pollo, sappiamo che anch'essi potrebbero contenere molta rabbia: stiamo mangiando rabbia, per questo poi esprimiamo rabbia.

Al giorno d'oggi i polli crescono in moderni stabilimenti di allevamento intensivo in cui non possono camminare, correre, cercare il becchime sul terreno, ma vengono nutriti esclusivamente dagli uomini. Sono prigionieri in gabbie strette dove non possono neanche muoversi; devono stare fermi giorno e notte. Immaginate di non avere il diritto di camminare o di correre, immaginate di dover stare fermi di giorno e notte sempre nello stesso posto: da impazzire! Infatti: i polli impazziscono.

Per far produrre più uova alle galline gli allevatori creano giorni e notti artificiali: l'allevamento viene illuminato in modo da simulare giorni e notti più brevi, così le galline credono in anticipo che sia passata un'altra giornata re a parità di tempo depongono più uova, In breve si riempiono di frustrazione, di sofferenza, di rabbia, sentimenti che esprimono attaccando la compagna a fianco a beccate e ferendosi a vicenda: si beccano a sangue, si fanno del male, a volte si uccidono. Allora gli allevatori tagliano il becco alle galline, per evitare che si attacchino per la gran frustrazione.

Quando mangi la carne o le uova di queste galline, dunque, tu mangi rabbia e frustrazione. Perciò sii consapevole: fai attenzione a quello che mangi. Se mangi rabbia, diventerai rabbia ed esprimerai rabbia.  Se mangi disperazione, esprimerai disperazione.

Dovremmo mangiare uova felici di galline felici. Dovremmo bere latte che non provenga da mucche arrabbiate. Dovremmo bere latte che proviene da mucche allevate naturalmente. Dobbiamo impegnarci ad aiutare gli allevatori a far crescere gli animali in una maniera più umana. Dobbiamo comprare verdura  cresciuta con metodi di coltivazione biologica: costa di più, è vero, ma in compenso possiamo mangiarne di meno. Possiamo imparare a mangiare meno.

 

Questa è una delle strategie più elementari per avviarci alla realizzazione di quella Terra Pura, per usare la terminologia buddhista, cui siamo invitati a collaborare. In termini cristiani si può parlare del Regno di Dio che, se noi lo vogliamo, comincia già qui, in questo mondo, anche se la sua essenza non è di questo mondo. Però posiamo già incominciare a vederlo edificato,  sin da ora, nella misura in cui rispondiamo affermativamente alla chiamata.

Naturalmente, dovremmo stare attenti non solo a quello che mangiamo fisicamente, ma anche a ciò che assumiamo mentalmente e spiritualmente (cfr. il nostro articolo L'ecologia della mente come presupposto dell'equilibrio spirituale, sempre sul sito di Arianna).

 

Ecco, dunque, che abbiamo delineato, o lasciato intravedere, la via maestra per reagire alla distruttiva tendenza oggi predominante, e per spezzare il circolo vizioso della frustrazione e della rabbia, che avvolge come una fosca aura maligna la nostra società.

Già, si potrebbe obiettare: bella scoperta. Per interrompere il flusso dell'energia negativa, bisogna produrre energia positiva; per vincere la rabbia, occorre alimentarsi di pace e serenità: facile a dirsi. Ma, in pratica, come si può fare?

Ebbene, crediamo che il primo passo nella giusta direzione - dopo, naturalmente, aver eliminato l'assunzione diretta di energia negativa, come nel caso dell'alimentazione carnivora - sia quello di modificare, giorno per giorno e minuto per minuto, il nostro atteggiamento fondamentale nella vita di ogni giorno.

Si tratta, cioè, di riscoprire l'assoluta straordinarietà degli atti e delle situazioni della cosiddetta vita ordinaria.

Una volta fatto ciò, scopriremo l'inesauribile ricchezza, la prodigiosa bellezza e l'infinita armonia delle innumerevoli, piccole e piccolissime cose di cui è intessuta la trama della nostra vita e di cui è fatto il mondo in cui ci muoviamo.

Facciamo un esempio semplicissimo, perfino banale.

Stiamo percorrendo i pochi metri che ci separano dalla bottega in cui ci rechiamo, ogni mattina, per acquistare il pane fresco.

Forse non ci abbiamo mai fatto caso prima; non importa: risvegliamo la nostra consapevolezza adesso: non è mai troppo tardi. Il terzo occhio si può aprire a trenta, a quaranta, a cinquant'anni; si può aprire anche nell'ultimo giorno della nostra esistenza terrena.

E che cosa vedremo, allora? Che cosa sentiremo?

Che quella breve, abituale passeggiata mattutina è semplicemente straordinaria.

Le case intorno, gli alberi, i giardini; il sole che sorge, la luce che avanza; i nostri passi sulle piastrelle del marciapiede; il nostro piede che si posa sulla terra, comunicandoci una sensazione di elasticità e di movimento: tutto questo è, alla lettera, qualcosa di straordinario.

Straordinario è il merlo che saltella di ramo in ramo e che si posa là, sull'erba dietro la siepe; straordinario è il suo canto, le cui note si spargono tutto intorno come un inno di gioia e di ringraziamento; straordinario è il cinguettio dei passeri, il volo delle rondini, lo stormire delle fronde nella brezza del mattino, la luce del sole che erompe da sotto il bordo frastagliato  di quel banco di nuvole.

E che dire del profumo del pane appena sfornato, che ci comunica il suo calore nelle mani, attraverso il sacchetto di carta in cui è avvolto? Come è possibile che ce ne andiamo per la nostra strada, frettolosi e indifferenti, senza godere a fondo di quel profumo straordinario che ci si sprigiona fra le dita, simile al dono fastoso di un mago potente e benevolo?

Di solito ci accorgiamo di tutto ciò -  ammesso che ce ne accorgiamo - solo quando possiamo assaporarlo dopo un periodo di privazione; ad esempio, dopo una lunga malattia o dopo una degenza in ospedale.

Eppure tutta questa bellezza, tutta questa magnificenza sono lì, a nostra disposizione, ogni giorno della nostra vita, ogni minuto e ogni ora.

È incredibile il fatto che vi siano delle persone le quali, per poter godere di una sensazione di benessere e di armonia, si sentono spinte a ricorrere all'assunzione di droghe. Tutta la bellezza e la gioia che potremmo desiderare sono già qui, a nostra disposizione, in ogni istante, solo che non  siamo capaci di vederle.

 

Qualche critico ostinato obietterà che è facile parlare così, quando non si ha la sfortuna di vivere in qualche degradata periferia urbana, piena d'inquinamento e di rumori. Rispondiamo che, in linea di massima, il vero problema non è quello di poter disporre di un panorama più o meno attraente, ma di sviluppare la facoltà di vedere le cose nella loro luce migliore.

E ciò vale, naturalmente, non solo quando parliamo di paesaggi, ma anche e soprattutto quando parliamo di emozioni, sentimenti, pensieri: ossia del nostro mondo interiore, che ci accompagna inseparabilmente per ventiquattro ore al giorno - perfino nel silenzio della nostra camera da letto, nel segreto dei nostri sogni più intimi.

Finché non si impara a sviluppare questa facoltà, si potrà anche vivere in un palazzo meraviglioso, ma non si riuscirà a goderne veramente.

Quella che proponiamo, come si sarà facilmente intuito, non è soltanto la riscoperta della straordinarietà dell'ordinario, ma anche della sacralità del profano.

È solo per comodità che abbiamo distinto i luoghi e i tempi della nostra vita in sacri e profani. In realtà, sono tutti sacri, perché tutti partecipano dell'ineffabile prodigio del nostro essere qui ed ora, del nostro partecipare alla meraviglia dell'Essere.

 

E così, di conseguenza, dovrebbe essere ogni pensiero, sentimento e atto della nostra vita: una rivelazione e una celebrazione incessante: rivelazione dell'Essere, celebrazione del nostro , convinto ed energico, al grande progetto armonioso cui siamo chiamati a partecipare.